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Il Mulino, 09.1989 - 10.1989
Vertone al capolinea Europa
Saverio Vertone prende il treno per l'Europa contemporanea, «mite, tollerante, pacifica, un tantino obesa», per registrare sul suo taccuino i friabili reperti del presente (quel lunghissimo presente che dura dalla fine della Seconda guerra mondiale e nel quale siamo impaniati) e gli indizi di un passato secolare, millenario, che si ostina a imprimersi con tenacia tanto sulle architetture quanto sulle fratture psicologiche, sulle immagini esteriori delle città non meno che sui modelli culturali che animano, o talvolta più propriamente mortificano, il Continente. Aveva attraversato la Penisola, un anno e mezzo fa, traendone un reportage di una decina di puntate per il settimanale «Europeo» poi trasformato in un volume, Viaggi in Italia, che intendeva essere una ricognizione non solo del paese fisico, delle sue brutture e delle sue catastrofi ambientali (della crosta edilizia, per esempio, che ha deturpato l'Italia dagli anni Cinquanta in poi), ma soprattutto delle sue idiosincrasie più intime e strazianti, e delle sue idiozie mentali e comportamentali più goffe e spettacolari: l'iperconsumo nello sfacelo, le cicatrici paesistiche che diventano metastasi; e poi i conformismi che si consolidano inopportunamente in stili di vita, le convinzioni medie, le ipocrisie minime, le ideologie azzerate che acquistano in ferocia ciò che perdono progressivamente in capacità d'interpretazione, e di comprensione; e ancora le appartenenze che si riducono a segnale di riconoscimento delle lotte fra bande, le omologazioni che annullano le differenze (salvo, queste ultime, risbucare fuori come costanti antropologiche brutali). Adesso Vertone ha ripetuto l'operazione, provando un Grand Tour europeo, percorrendo il Vecchio Mondo lungo assi incrociati, da Coimbra em Portugal a Leningrado, da Marsiglia a Edimburgo. Per una parte journal di viaggio e per l'altra catalogo antropologico e storico (oltre che politico, e culturale), il nuovo libro, Penultima Europa, costituisce con ogni probabilità il tentativo più ambizioso e difficile di un autore che è più conosciuto per i suoi ricorrenti exploit di polemista praticamente full time che per le sue solitarie esercitazioni di gourmandise culturale. Germanista, traduttore dei saggi di Hermann Broch e del Teatro di Heiner Miiller, già tre anni fa Vertone aveva organizzato in volume (L'ordine regna a Babele, editore Marietti) la sua enciclopedia privata di minima e maxima moralia e il repertorio di ossessioni di Kulturkritzker. Ma c'è ora una differenza sostanziale: Penultima Europa affronta esplicitamente un oggetto d'analisi qui e ora, non una serie di più o meno correlati, più o meno disparati obiettivi polemici: pure adottando la medesima strutturazione quasi per aforismi, per brevi paragrafi di quasi esplosiva intensità, instaura un confronto diretto con le cose, le idee, i fatti, le memorie, le teorie, le economie che si condensano nell'entità «Europa»: un confronto «impossibile» che poteva essere accettato solo da un intellettuale propenso a saltare i fossi degli specialismi e delle competenze accademiche, disposto a sfidare eroicamente diverse e irriducibili fenomenologie dello spirito («Niente è meglio di Hegel -scrive vedi caso Vertone- quando si debba spiegare l'universo a una classe di allievi»). Negli scompartimenti del primo treno per l'Europa, Vertone incontra subito alcune precisissime quanto banali personificazioni dell'europeo medio attuale, soprattutto giovane: dedito a un consumo individuale e solitario di piaceri sonori riprodotti meccanicamente: la «musica nella mente» attraverso gli auricolari del walkman di viaggiatori sospesi in un nulla assolutamente anonimo, privo di tempo, non può echeggiare nessuna delle fantasie e nessuno dei miti di cui l'Europa ha impregnato le sensibilità collettive. Potrebbe forse essere altrimenti? Tutt'al più oggi l'Europa «suscita sentimenti generici: ammirazione compunta per l'Inghilterra, rispetto e sospetto per la Germania, simpatia bonaria e fraterna per la Spagna, stima un po' velenosa per la Francia». Eppure, se si ha l'avvertenza di non farsi stordire dalle pulsazioni e dalle «ghiotte sonorità», come diceva Adorno, massificate dalle multinazionali della musica commerciale, si ha subito la sensazione che il paesaggio fisico e intellettuale del continente sia modellato proprio da alcuni primitivi e potentissimi fenomeni di imprinting; il rumore di fondo dell'Europa è eccitato da radiazioni fossili che si condensano qua e là in articolazioni del vivere, come se in definitiva i suoi abitanti cercassero di assomigliare a tutti i costi agli stereotipi che li etichettano. Per questo, quasi sempre, il luogo comune anche più scontato si rivela sotto la superficie più vero del vero. Si dice Germania, ed è subito un certificato di garanzia, perché «c'è qualcosa dello spirito tedesco che lo spinge a inchiavardare un concetto nell'altro, in una discesa accanita verso il fondamento primo, o ultimo o comunque introvabile del mondo»: ci si dovrebbe stupire, allora, messa agli atti questa propensione alla sistematicità, che dall'Idea tracima nell'ordine quotidiano, dei molti miracoli realizzati dall'apparato tecnico-economico e burocratico tedesco? Perfino al di là del Muro l'eterna Germania non tradisce le aspettative: «La Ddr è, a quanto pare, l'unico stato comunista che sia riuscito a tenere in piedi, seppure a fatica, l'economia, la società, e persino un po' di cultura. Solo i tedeschi potevano riuscire a far funzionare una cosa che non funziona in nessuna altra parte del mondo». Forse come esempio può bastare per dire ciò che viene fuori da Penultima Europa: cioè una specie di geografia morale, e anche di fisiognomica storica, ritagliata come le figurine sui contorni di numerose piccole (ma piuttosto ingombranti) patrie, ognuna dotata di una propria cultura, di un tratto distintivo assolutamente peculiare. E ognuna di queste porziuncole nazionali è nello stesso tempo diffidente verso l'integrazione quanto irresistibilmente attratta a cercare una dimensione più ampia, fosse pure soltanto per affermare snobisticamente un modello, un «noi», una qualche identità. Conta poco che i provincialismi e i localismi vengano messi preventivamente dietro la lavagna dalle profezie messianico-tecnocratiche del Novantatré: gli effetti di schizofrenia e di spaesamento, fra «armonizzazioni» comunitarie e squilibri tecnici o campanilistici, sono pur sempre plateali: «L'Europa ha paura di scomparire in qualche frigorifero della storia se rimarrà divisa. Ma ha paura di arrostirsi nelle graticole dell'economia se si unisce». Già, ma forse la storia ha già messo in frigorifero l'Europa, a dispetto delle invocazioni alla «casa comune» di Mikhail Gorbaciov o delle visioni pan-cattoliche di Giovanni Paolo II. Vertone affonda i suoi sondaggi nell'Europa capetingia e plantageneta, va in caccia di misteri e di teofanie culturali nelle eredità moresche della veloce Spagna post-franchista, cerca il filo della parabola del capitalismo marittimo e coloniale di Olanda e Inghilterra; senza escludere il passato più recente, e imbarazzante e indecente, quello che davvero non passa, che ci ha sconvolti e lacerati neanche mezzo secolo fa. Registra che spezzoni di Terzo Mondo sono già fra di noi, preludio a chissà quali futuri conflitti di razza e di cultura, mentre la piazza borsistica di Francoforte sta superando Londra. Annota anche le parentele pericolose di due formazioni politiche in simultaneo declino come la socialdemocrazia tedesca e i comunisti made in Italy, caratterizzate - scrive Vertone - dall'aver sponsorizzato e cavalcato per anni ogni rivendicazione, problema, questione proveniente dalla società senza indicare una soluzione che è una: un'eccellente esemplificazione della morte dei Progetti. Ma ciò che egli tenta davvero di individuare, interrogando il design di lusso smodato e kitsch del Grand Hòtel di Berlino Est (uno dei brani di più virtuosistica applicazione in tutto il libro, quello sul fasto di stato), o la straordinaria struttura architettonica della moschea di Cordoba, è se siamo «agiti» da una febbre, da un furore implicito nel processo storico che ha sempre beffardamente la meglio sui pallidi fantasmi della politica e sulle contingenze dell'economia. Sospesa fra le molteplici sfasature temporali della storia, fra mutamenti turbinosi e bradisismi impercettibili ma alla lunga vertiginosi, divisa da muraglie orografiche impervie, collegata da bracci di mare che sono oceani, l'Europa di Vertone è illustrata con un'intelligenza che traspare in ogni pagina, con una precisione che diviene persino insolente nei paradossi del realismo e nelle acutezze della sintesi. E che continuamente guarda alla dimensione europea con un retropensiero rivolto all'Italia attuale, questo paese «angariato da uno Stato farraginoso e inconcludente», in cui «serpeggia la strana speranza che la total immersion nell'Europa possa liberare i cittadini dalla farsa delle Poste, delle Ussl e delle Ferrovie, senza costringerli al dramma di dover pagare le tasse». Ma non è questa chiave più facilmente polemica quella che dà il tono al volume: che si segnala invece come un esempio di giornalismo culturale per molti aspetti di insolita originalità, consapevolmente lontano tanto dal «genere» consolidato della letteratura odeporica quanto dall'elzeviro elusivo e impressionistico delle vacanze d'autore. Gli ossimori di Vertone captano contraddizioni e fratture vere, profonde, sotto la superficie appena increspata del benessere europeo di questo secolo che rapidamente declina. Saverio Vertone, Penultima Europa, Milano, Rizzoli, 1989.
Il Mulino, 11.1989 - 12.1989, La politica delle parole
Tre dogmi uguali e indistinti. Autoritarismo, democrazia, partecipazione
1. Non varrebbe più la pena di prendere in esame il termine «autoritarismo» - che pure è stato uno degli obiettivi polemici più fortunati nelle mitologie e nelle liturgie della «contestazione» - se il suo naturale e coevo antidoto ideologico, l'antiautoritarismo, non fosse via via disceso copiosamente nell'intero corpo sociale, permeando ampi strati e diffondendo distillati di cui è intriso ancora oggi l'immaginario politico italiano. Con il risultato che ciò che costituiva a ragione o a torto il patrimonio di alcune limitate élites urbane (le cosiddette avanguardie) è sfumato man mano in un oggetto politico dall' alone impreciso ma diffusissimo, in cui sono centrifugate numerose persistenti fenomenologie di un'insopprimibile vocazione populista e trasformista. Infatti, proprio mentre una nuova festosa retorica sancisce l'affermazione definitiva del mercato, sacrificando senza troppa carità, almeno a parole, i lacci e i lacciuoli intrecciati da solidarietà invecchiate, obsoleti patti consociativi, ammuffite forme di integrazione sociale, alla prova dei fatti riemerge sempre un' eco contraria, la registrazione di un fruscio di fondo che ridà volume alla protesta contro quel minimo di regolazione sociale e politico-economica che sarebbe indispensabile di fronte ai problemi della finalmente riconosciuta «complessità». L'antiautoritarismo schematico dei Fab Sixties sembra essersi tramutato in un mugugno sordo, al quale contribuiscono ampiamente i nuovi corsi della demagogia e i ricorsi dell' opposizione vischiosa alle manovre e ai contorcimenti dell'autorità centrale. L'a/faire dei ticket sulla sanità, e il rifiuto indignato quanto aprioristico e astratto delle ipotesi di regolamentazione dell'immigrazione extracomunitaria rappresentano molto bene la spensieratezza collettiva nei confronti di questioni contemporanee potenzialmente detonanti, e anche l'indisponibilità della sinistra classica, del sindacato, del cattolicesimo «sociale», e infine come si usa dire «della gente», verso qualsiasi tentativo di impostare consapevolmente misure di tamponamento rispetto al problema della quantità di risorse disponibili in rapporto alle illusioni della re distribuzione all'infinito. Un ovvio sospetto o vizio di autoritarismo si proietta su quasi tutti i programmi o le ambizioni di costruire impalcature adatte a reggere i pesi squilibrati della società contemporanea. Alle faticose soluzioni dettate dall'incombere della realtà - con tutto il loro potenziale di impopolarità - il senso comune allenato sul terreno progressista oppone di solito alternative tutte di elevatissimo profilo e di bassissima praticabilità, precostituendo una serie indiscutibile di alibi per l'immobilismo che ne consegue. Insomma, la formula magica che consente di lasciar marcire i problemi invocando nel contempo ipotesi alternative di profilo siderale funziona a meraviglia. C'è sempre un Bene Supremo largamente condiviso che permette di guardare con sufficienza il Male Minore. E poiché ogni decisione politica comporta un principio e un processo di divisione che la mentalità pop stenta ad accettare, il prepotente richiamo al conforto unanimistico riesce quasi sempre a imporre le proprie ragioni. Se non ci fossero alle spalle accertate ragioni storiche e politiche, sembrerebbe quasi che una specie di base costitutiva, addirittura antropologica, impedisca agli italiani di assimilare la logica del conflitto regolamentato di interessi (e delle relative passioni): al momento opportuno, l'italiano «democratico» preferisce porsi in attrito rispetto a qualsivoglia programma, riforma, costruzione o ricostruzione di regole: tutti percepiti in primo luogo come un'intollerabile ingerenza nei fatti propri, della propria corporazione, del proprio partito, corrente, clan, condominio, e in seconda istanza come preludio silenziosamente minaccioso di possibili attentati futuri al proprio magari modesto privilegio. (Si dice bene, colpire gli evasori fiscali, ma se poi domani finiamo noi nel mirino di qualche altra manovra sull'Iva? Tanto più che, grazie a una spontanea consapevolezza dei principi di base della scienza delle finanze, «la gente» sa benissimo che 1'equità fiscale ottenuta «stanando» gli evasori si ritorcerebbe in realtà sui prezzi al consumo: e dunque, quieta non movere). 2. Per capire come si è formato nel nostro paese il grande equivoco che ha agglutinato la politica in un impasto gelatinoso di mediocrissima qualità ma di eccezionale capacità omogeneizzatrice e bloccante, occorre immergersi nel clima degli anni Settanta (più precisamente dall' autunno caldo in poi): in quel periodo cioè in cui si assiste a una fervida mitologizzazione della politica, e in simultanea alla costruzione della struttura psicologica dell'irresponsabilità al potere. Per un decennio, l'enfasi dell'immaginario pubblico si colloca sulla partecipazione. Partecipare significa andare oltre i limiti banali della democrazia «formale», opporsi attivamente al deprecato autoritarismo dell'establishment; di più e meglio: immergere i piedi nel punto giusto, né troppo alto né troppo basso, del vorticoso torrente sociale che promette o minaccia di travolgere tutto. Un bagno di partecipazione è la risposta più adeguata a tutte le questioni che riguardano la sfera collettiva. Non è vicinissimo al trampolino finale del sovvertimento dei rapporti di forza vigenti, ma è pur sempre un discreto avvio, non fosse altro perché consente di dichiararsi in opposizione e in alternativa senza suscitare i foschi timori del blocco moderato. Com' è ovvio, nel pathos del momento nessuno si preoccupa di chiarire i meccanismi fattuali attraverso i quali la partecipazione deve essere praticata. Per dire, vecchi sistemi alla tedesca, come la cogestione, sono disprezzabili a priori come un indebito e paternalistico tentativo di conciliazione di interessi non negoziabili (la non padronanza della lingua autorizzava opachi scambi di senso e il timore di oscure contaminazioni fra la Mitbestimmung e il Berufsverbot); e anche i tratti neo-corporativi e le «concertazioni» delle socialdemocrazie europee erano considerati (ammesso che venissero presi effettivamente in qualche considerazione) (ome un pessimo intreccio di regola zio ne dall' alto e di delega/rinuncia dal basso. L'idea della partecipazione vera convogliava invece melodrammatiche immagini di folla, «di massa», di assemblea, di popolo. Era la simbologia vincente per quella buona quota di cittadini che aveva deciso di iscriversi d'ufficio al Quarto Stato. Oltre tutto, grazie a una più che miracolosa congiuntura della Storia, il nostro paese appariva come il luogo fisico in cui si concentrava una serie impressionante di primati mondiali in fatto di consapevolezza politica e di rigore ideologico. Questa singolare presunzione di ortodossia e di autorità, unita a una tradizionale propensione a scoprire dappertutto le losche macchinazioni del potere, autorizzava ogni coscienza infelice a giudicare dall' alto di una certezza sovrana e implacabile le mediocri realizzazioni dei governi socialdemocratici, e più in generale le finzioni di libertà concesse dalle democrazie «borghesi». Alle soluzioni pragmatiche avanzate per prove ed errori dall'Occidente liberaldemocratico, il radicalismo Italian 5tyle opponeva l'irrisione beffarda di chi ha capito tutto e sa che occorre andare ben oltre. L'avvenire non era nei fatti, ma nelle idee; non nel concreto, bensì nell' astratto; non nel conflitto regolamentato ma nella contestazione a oltranza; non nella gestione (delle aziende, degli ospedali, delle Poste e delle Ferrovie), quanto nella creazione di un contropotere collettivo. Contava poco o nulla che le imprese diventassero orribilmente passive o che gli uffici funzionassero in modo scandaloso: l'importante era trasformare ogni luogo di produzione o di servizio in un centro permanente di autocoscienza politica. Che poi l'industria manifatturiera nazionale perdesse quote di mercato poteva essere giudicato assolutamente irrilevante rispetto alla cristallina vocazione ultrademocratica dei consigli sindacali. 3. Certo, la nouvelle gauche italiana aveva già ampiamente specificato, dal canto suo, che il grimaldello tattico della «partecipazione » era in realtà usurato fino a risultare inservibile. Poche pagine di Herbert Marcuse erano state sufficienti per capire che ormai tutti «partecipavano», attraverso la mediazione del consumo, e che la «desublimazione repressiva», la tolleranza pilotata, queste micidiali invenzioni dell'Apparato per risarcire con merci omologate (massificate, estraniate, reificate) l'acquiescenza torpida dei dominati, funzionavano come orologi svizzeri. Tuttavia le aristocratiche estremizzazioni della Kritische Theorie potevano per il momento essere rimandate a un tappa successiva del processo di emancipazione: gli aspetti ludici della rivolta passavano in secondo piano rispetto agli obblighi della rivoluzione (o almeno della partita per l'egemonia). Era necessario in primo luogo sbarazzare il campo dalle mistificazioni elaborate dal complotto tardo-capitalista, e il primo obiettivo «di lotta» si definiva intorno al concetto di «democrazia» . Per qualche insondabile paradosso dell'ideologia, «democrazia» è un termine che viene immediatamente vanificato dai suoi aggettivi. Democrazia «rappresentativa» si rivelava rapidamente, a uno sguardo disincantato, come una formula imperfetta di sistema politico, da superare nel minor tempo possibile attraverso forme più avanzate: e al momento la forma avanzata costituita dalla «partecipazione» forniva uno strumento ineccepibile per mettere allo scoperto le vuotaggini e le meschinità dei sistemi fondati semplicemente sul suffragio universale e per invocarne debitamente il superamento. Di democrazia «liberale», per favore, nemmeno parlarne. Per l'intonazione middle e low-brow del discorso politico era qualcosa che richiamava alla mente attempate simpatie malagodiane, e che lasciava sentire fin da lontano cattivo odore di oligopoli e di bieche direttive del «padronato». 4. Alla fine, viene un sospetto: che l'accénto sulla «oggettiva» minaccia autoritaria implicita nelle articolazioni dell' ordinamento vigente, e al contrario la retorica positiva rispetto alla partecipazione e alla democrazia in in progress, non nascano affatto dal desiderio collettivo di abbattere le barriere di una realtà sociopolitica, economica e culturale ancora pesantemente caratterizzata in senso retrivo, pre-moderno. E che rivelino piuttosto la tentazione di una resistenza contro la modernizzazione. O perlomeno la presenza di una scarburata miscela di attrazione verso il cambiamento (soprattutto culturale e comportamentale) e di smarrita repulsione per le contraddizioni che esso innesca. Potrebbe essere questa, in fondo, la dominante che ispira quell'ideologia amorfa e consolatoria disposta ad accettare le scelte individuali e collettive solo se sono suffragate da un consenso comunque più ampio, non importa che sia la mobilitazione di classe o la rivendicazione corporativa. Elementi di contestazione si abbinano sempre alla ricerca di solidarietà plurime: che sono tutte generiche, rivolte verso nemici invisibili. Dato che risulta poco accettabile e poco gradito proporsi come gli interpreti e i promotori di interessi specifici, limitati, empirici, l'ideologia politica corrente preferisce evocare quel fantasma politico che è l'interesse generale (o almeno di una somma di ceti assai larga e con le carte in regola sotto il profilo della democraticità), e strillare in coro contro la Spectre del potere. Al conflitto di interessi (diciamo, alla rinfusa, fra ceti, professioni, proprietari, imprenditori, lavoratori, risparmiatori, vecchi rentiers, nuovi speculatori, nuovissimi e atipici finanzieri), caratteristica di una società che si frammenta e si riallinea, risultava assai più rassicurante ad esempio sostituire la «lotta», populista e solidale, fra la «classe» operaia e il «padronato». Vale a dire due ectoplasmi dialettici ottocenteschi che fissavano il paese, sul piano delle definizioni di indentità e delle autorappresentazioni, in una incerta e patetica condizione di scontro, permanente quanto impreciso. Al punto che quando qualcuno si accorge finalmente che né padroni né operai sono più quelli di prima, o che i colletti bianchi sono diventati più numerosi dei colletti blu, la spinta alla genericità si accresce: ed ecco allora la formula modificarsi opportunamente in «produttori contro sfruttatori». Si avviava insomma una dinamica di omologazione su un livello minimal, in cui tutte le vacche della modernizzazione venivano percepite e descritte sul disarmante spettro del grigio. L'oscura - ma emotivamente potentissima - sensazione che il treno del progresso capitalistico fosse arrivato sul binario morto dell'ultima stazione conferiva a molti la certezza che occorreva soprattutto difendere le posizioni già raggiunte, e mantenere i posti negli scompartimenti di seconda classe già occupati. Perciò le rappresentanze dei lavoratori non praticano quasi mai la rivendicazione salariale in rapporto a standard di profitto e di produttività: chiedono e ottengono legislazione sociale, perseguono la massima occupazione e la difesa del posto di lavoro in cambio di stipendi bassi, indifferenziati ma garantiti: è il salario come «variabile indipendente», come viene definito nel vocabolario del periodo, cioè una re distribuzione di tipo sostanzialmente brezneviano. Pochi, maledetti, uniformi ma per sempre. Indipendentemente dai meriti, dalle mansioni, dall' efficienza, dalle capacità. Questo istinto di conservazione proiettava in un futuro del tutto imprecisato quella soluzione, che doveva essere per forza di cose globale, dei problemi concreti che veniva nel contempo auspicata senza tregua e a gran voce. Nella fabbrica, monumento centrale della mistica di sinistra, occorreva in primo luogo consentire al Geist unitario di assumere le configurazioni rassicuranti di un'identità condivisa. Sulla fabbrica come luogo di produzione prevaleva perciò la fabbrica ideale «fra le nuvole» come agenzia di socializzazione, scuola di politica, centro di educazione permanente, reliquiario della coscienza di classe. 5. Si intuiva, come no, il lavorio clandestino di conflitti profondi nel sottoscala della modernizzazione: ciò che mancava era la volontà esplicita di assumerli come nucleo argomentato di una proposta politica. L'incombere dell'instabilità propria del mutamento induceva a cercare di riflesso una compattezza autoprotettiva. Ecco allora il sindacato congelare i potenziali aspetti tellurici della società produttiva nel freezer della contrattazione fra corporazioni di lavoratori e corporazioni di imprenditori, allo scopo di guadagnare una volta per tutte alla propria parte il sigillo di una garanzia costitutiva, nel contesto di una partnership rivale ma a equilibrio bloccato. Ed ecco l'infelice opzione politica del Pci di Enrico Berlinguer, propenso a offrire minore intensità antagonistica in cambio di legittimazione piuttosto che a farsi perno del conflitto. Comincia infatti proprio negli anni Settanta, secondo Giuliano Amato, la coalizione ai danni dello Stato determinata dall' accordo silenzioso fra i partner rivali: sindacati e Confindustria capiscono con rapidità che anziché dissanguarsi a vicenda è più conveniente riversare sull' apparato pubblico i costi che nessuno vuole assumersi: investimenti, ristrutturazioni, riorganizzazioni produttive, mobilità del lavoro vengono prudente mente evitate; a causa di questa complicità lo Stato deve accollarsi il peso della forza lavoro in eccesso, attraverso la cassa integrazione, e dei salvataggi delle aziende fuori mercato. La partecipazione auspicata dalla sinistra non troppo maleducata trovava nel medesimo tempo interessanti applicazioni pratiche nella sfera della politica empirica soprattutto locale e dell'economia concreta soprattutto municipale: a tutti i livelli si veniva sviluppando un ramificatissimo intreccio che vedeva coinvolte da un lato le amministrazioni decentrate e dall'altro le centinaia di associazioni economiche che raggruppavano le varie categorie industriali, artigiane, professionali, le reti cooperative ecc. Praticata in modo sistematico, la ricerca di simbiosi fra politica ed economia ingabbiava ogni ambito decisionale e operativo. Si trattava dello specchio municipale (provinciale, regionale) di uno schema che si era già affermato su scala assai più ampia al centro, ma con l'aggravante morale, o se si preferisce di gusto, che illobbismo dell'ultima provincia. pur rispondendo com'è ovvio a squisite logiche di potere e di interesse, veniva infiocchettato al momento buono con il rituale nastrino democratico-partecipativo. E' chiaro che gli appalti tele guidati non rappresentano una prerogativa isolata né di quel periodo, né di quelle giunte, né di quelle confederazioni produttive. Tuttavia riesce difficile individuare momenti più alti di blocco del mercato, di gestione pilotata della concorrenza, di predeterminazione distributiva di profitti e perdite. La paura delle follie del mercato giustificava il ricorso alla camicia di forza municipalizzata. 6. E a questo punto forse non giunge inopportuna una parentesi. Chissà se è per un semplice gioco del caso che da noi le rivolte del Sessantotto abbiano perduto rapidamente le venature anticonformiste, individualiste, «antiautoritarie», spontaneistiche, ludiche, che pure si erano manifestate con esplosività nei campus americani, alla Sorbona e lungo il Boulevard Saint-Michel, e perfino alla Freie Universitat di Berlino, per precipitare nelle plumbee atmosfere dei collettivi, dei comitati, delle giunte, del «lavoro politico». Sta di fatto che con estrema velocità l'intonazione politica delle avanguardie si spostava. Dallo charivari di piazza alle tetre confabulazioni di cellula; dalle sfrenatezze «liberatorie» del movimento alle efferatezze militanti dell' auto segregazione cospiratoria nelle sedi politiche a porte sbarrate. Occorrerà aspettare il Settantasette per ritrovare qualche imitazione della carnevalesca enigmistica intellettuale del Maggio parigino («Lama non l'ama nessuno», «Zangherì, Zangherà, Zangheriamo la città», «We want Zangheri for Pepsodent»), ma va aggiunto che il post-dadaismo degli indiani metropolitani e dell' ala creativa e dell' autonomia si esprimeva quasi sempre in una risata torva, non esente da retropensieri irresponsabili fino alla ferocia. Eppure, di Lotta continua si ricorda oggi soprattutto con indulgenza l'ultimo periodo, quello dell'impressionismo esistenziale, un movimento che era un mobilissimo sedimento di stati d'animo. Pochi ricordano invece i primordi, fatti di una militanza tetra e minacciosa, resa visibile dai servizi d'ordine e dagli slogan sugli striscioni («Solgenitsin, Breznev ti ha esiliato, il proletariato ti avrebbe fucilato»). Ancora nel novembre 1977 la lettera di un militante al giornale del movimento definisce la strage di Lod compiuta in Israele da un commando dell'Esercito Rosso giapponese «un' azione di guerra contro il nemico di classe». Riesce pressoché impossibile spiegare come si sia potuti passare dalle fibrillazioni «postmaterialiste» di fine anni Sessanta alle truci litanie dei primi Settanta. Un'intera generazione, cresciuta nella timida democratizzazione del petting, adottava senza mediazioni la filosofia della spranga e la libido vicaria del passamontagna. La festa di massa per l'appena sfiorata liberalizzazione dei costumi si rovesciava in lugubri cerimonie da catacomba. In molti casi il modello aggregativo diventava il nucleo combattente, l'unità paramilitare, secondo i criteri rigidamente gerarchici dell' avanguardia resistente, con le sue uniformi, i suoi gradi, i suoi codici, anche quando le uniche armi erano quelle della critica stracciona. E lo stesso linguaggio tendeva ad assumere connotazioni adeguate alla sicurezza d'acciaio della coscienza militante. Nel paese più sgangherato fra quelli avanzati, ancora privo di un'integrazione nazionale effettiva, sfilacclato nelle burocrazie, mediocre nella cultura, governato da notabili pasticcioni, ci si comincia ad appellare in modo sempre più fastidioso al «rigore» delle analisi, alla «scientificità» del metodo, all'implacabile precisione chirurgica della «dialettica», ai teoremi infallibili della «ricomposizione». Ma anche questo si può interpretare come sintomo di uno smodato e incredibile desiderio di appartenere, di riconoscersi; voglia di spazi chiusi e tutelati da un pensiero e un lessico comune: peccato solo che il mastice della membership fosse composto da un dottrinarismo impenetrabile che concepiva il mondo come guerra civile e che prometteva piombo non solo, come ci si poteva malauguratamente aspettare, al «nemico di classe», ma soprattutto fucilazioni ai «traditori» e ai «rinnegati» («Picconeremo Colletti»). Il tribunale della Storia, autoconvocatosi in una miriade di sedi fra Voghera e Crotone, non aveva esitazioni a emanare sentenze capitali in nome del proletariato internazionale con lo stesso distratto accanimento con cui un tassista auspica il plotone d'esecuzione contro l'assessore al traffico per il cattivo funzionamento di un semaforo. E tuttavia, che fatica «partecipare», che psicodramma quotidiano la militanza, malgrado i risarcimenti e i crismi dell'identità: un'infelicità collettiva senza scampo sembra il prezzo da pagare obbligatoriamente al compimento della democrazia, ovviamente quella vera, sostanziale, progressiva, proletaria, non il vuoto simulacro procedurale organizzato dal complotto della borghesia sul Sunset Boulevard del capitalismo avanzato. Con un madornale transfert i luoghi e i gesti della passione vengono ricollocati nelle sedi logistiche del movimento. Studenti privi di futuro, Lumpen senza presente e giovani operai senza passato «espropriano» case d'affitto e insediano «comuni»: i documenti lasciati in abbondanza dalla grafomania dell' epoca spiegano che condividere lo stipendio del compagno che lavora in fabbrica è un efficacissimo modo non soltanto per tirare a campare, ma soprattutto per «smontare» la struttura capitalistica del salario. Ma anche l'italiano democratico medio di allora non sa resistere a nessun inferno, purché di gruppo e di sinistra, pur di guadagnarsi l'iscrizione al club delle buone intenzioni: «In Italia, dunque - scriveva Ernesto Galli della Loggia nel 1980 - la modernizzazione dei ceti medi, che nella sostanza corrispondeva a un loro adeguamento ai modelli propri delle democrazie capitalistiche avanzate e della loro cultura, si presentò invece con un marcatissimo connotato ideologico e politico che si voleva e si diceva "di sinistra", cioè contrario proprio a quanto stava dietro a quei modelli». E poiché «di ogni aspetto arcaico, ingiusto, inefficiente, o semplicemente sgradevole dei rapporti e dell' organizzazione sociale la colpa sarà data regolarmente al preteso fondamento "capitalistico" dei medesimi ... mentre di ogni speranza di mutamento, anche delle più fantastiche e rocambolesche» viene investita la Sinistra, non c'è da stupirsi troppo se i suddetti ceti medi si lasciano afferrare da una sindrome fra il narcisistico e il frustrante, che ingloba aspirazioni a «fare scoppiare la coppia», a superare in un «altro» progetto di relazioni personali l'alienazione tipica della famiglia borghese, e magari a dare un contributo psicologico all'imminente abbattimento dello stato. Come in un colossale gioco di simulazione, l'Italia interpreta in massa «Ecce Bombo». Discute, «fa autocoscienza», entra in crisi ogni sera nel soggiorno di casa dopo il telegiornale. 7. Su un povero paese che non aveva usufruito dello sfogo catartico di una rivoluzione, che non aveva interiorizzato la democrazia come sistema, che rifiutava retoricamente il consumismo salvo poi rivendicare en revolté il diritto ai beni da supermarket e comunque senza avere ancora sperimentato standard di consumo (o più semplicemente di benessere) europei, si spandeva la luce artificiale di un conformismo di segno nuovo, in cui non era difficile scorgere germi neanche troppo larvati di autoritarismo, di una convenzionale quanto complessata ripulsa delle differenze connaturate a processi tipicamente moderni come la crescita economica, l'acculturazione di massa, la trasformazione degli stili di vita. L'unica risposta ai drammi quotidiani della modernità era la rivoluzione. E purtroppo, alla retorica (alla via di fuga) della rivoluzione cedevano tanto gli operai-massa dell'Alfa Romeo quanto le caste degli intellettuali, dei giornalisti, degli scrittori, dei maestri d'opinione. Anche se ormai sembra di fare dell' archeologia, non andrebbe dimenticato che per un troppo lungo periodo settori tutt' altro che marginali dell' intelligentsia rimasero omertosamente neutrali di fronte al più cruento e ottuso attacco organizzato contro il sistema democratico. Uno storico del futuro potrà chiedersi forse che relazione c'è fra l'enfasi «democratica» che percorre i Settanta, stereotipata fino a rinsecchirsi in formule irrisorie, e la contemporanea aggressione operata contro la democrazia concreta, insediata costituzionalmente. E la classica domanda senza risposta, ma con mille ipotesi proponibili: fra queste, si può ricordare come emblematico il gesto di quel professore di sociologia, a Trento, che durante l'autopresentazione del corpo docente agli studenti inalberò il pugno chiuso nel saluto internazionalista: soltanto per un attimo, come in un fermo-immagine istantaneo, sufficiente a far percepire la propria solidarietà di classe ai «proletari» raccolti r:ell' aula magna ma non a farsi identificare dagli emeriti colleghi. E proprio una forzatura individuare in questo tic la collusione dell'élite, la sua furbastra viltà, la sua abdicazione civile? Pur di non assumersi l'irritante responsabilità di essere classe dirigente, l'interprete medio della Bildung italiana, ossia l'impiegato dello stato al massimo livello, strizzava l'occhio alla rivoluzione: non si sa mai. Fine della parentesi. 8. A pochi veniva in mente che il più elevato livello di modernità e civiltà del decennio era stato raggiunto con il referendum sul divorzio il 12 maggio 1974, e cioè attraverso una competizione che aveva diviso anziché unire, che aveva attraversato le coscienze e stracciato le logiche di partito; e nemmeno che sui diritti civili, cioè su un fatto giudicato così evasivamente «sovrastrutturale», potevano essere rifondati diversi progetti in grado di far coincidere in senso moderno lealtà intellettuali e urgenze politiche, pragmatismi e idealità. Ma tant'è, ciò che conta è fare parte di qualcosa: e si partecipa, in effetti, dappertutto e in ogni occasione. Nelle rivendicazioni sindacali, nelle manifestazioni per il 25 aprile, negli scioperi, nelle indignazioni, nelle recriminazioni, purtroppo nei molti funerali. E tuttavia, seppure a fatica, seppure nostalgicamente ossessionato dal richiamo della tiepida Gemeinschaft dei sentimenti comunitari, il paese cresce: cioè si differenzia, nel costume, nelle preferenze, nel consumo, nei comportamenti. Alle austere lezioni del Pci di Berlinguer (e di Franco Rodano) si contrappone la nevrosi della società reale che, in attesa del collasso sempre rinviato del capitalismo e insensibile alle ombre proiettate dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, decide di partecipare a modo suo: con i televisori, le automobili, le pizzerie, le vacanze più o meno intelligenti, i mangianastri, gli impianti hi-fi. Era il sintomo di una sfasatura, se non di una schizofrenia, tra privato e pubblico, per cui cittadini perfettamente in grado di intuire le leggi della micro e della macroeconomia, e dunque di «gestire» individualmente passaporti e viaggi, mutui bancari, programmazione dei consumi e pianificazione degli acquisti in tempi di inflazione elevata risultavano poi paralizzati al livello (a qualsiasi livello) della rappresentanza e della decisione politica. Per ristrutturare un chiosco occorre come minimo un' assemblea di quartiere, perché pur di non decidere la comunità è chiamata a partecipare a tutto. Assemblee rionali, consigli civici, comitati di periferia celebrano incessanti riti unitari: attraverso di essi passa l'indecisionismo. Che si debba asfaltare un'aiuola o spostare un garage, la maglia ferrea del coinvolgimento non lascia scampo: mentre molte città, anche amministrate da giunte di sinistra, vedono accatastarsi autentiche turpitudini urbanistiche, deliberate verticisticamente con il collateralismo interessato di molti «maledetti architetti» di gran moda, per le inezie si chiede la mobilitazione, il confronto, il dibattito. Misure modeste come la pedonalizzazione di un centro storico, da affrontare con una decente misura di pragmatismo e di competenza tecnica, devono ottenere l'imprimatur «popolare» del referendum cittadino. E in pochissimi si prendono la briga di segnalare gli aspetti di manipolazione sovietica di simili consultazioni referendarie, che abbinano il massimo di intenzione generica con il minimo di contenuto tecnico specifico (salvo poi dover ogni volta ridiscutere le misure adottate con le consorterie mercantili colpite dai provvedimenti). E che dire dell'istituzione scolastica, che alla farragine della propria struttura organizzativa e all'insufficiente qualità professionale media dei suoi operatori aggiunge la confusione «politica » dei decreti delegati, che introducono nuove stratificazioni di rappresentanza, di controllo, di burocrazia, oltre che ulteriori palestre per l'esercitazione declamatoria? 9. Come era stato insegnato, nel teatro della Storia ciò che si allestisce in prima come tragedia si replica per gli abbonati del secondo turno come farsa. Per un'ironia della storia, o forse più realisticamente per un'astuzia della politica, il modello della partecipazione a tutti i costi, alimentato in modo strumentale dalle fasce superiori della classe politica, e vissuto di volta in volta emotivamente dalla base e convenzionalmente dai collegi elettorali, si è poi ribaltato vistosamente in una parodia di se stesso, ad esempio, in diversi settori del servizio pubblico e segnatamente in alcuni segmenti delle strutture di Welfare. Nel gioco di rimbalzi incongrui fra i poli classici della rappresentanza e della partecipazione, è emersa piano piano una configurazione originale, dai tratti ambigui ma dagli scopi chiarissimi, che è sintetizzabile nella «formula UsI». Per non pochi aspetti, il nuovo schema è protervamente geniale: un apparato pubblico viene colonizzato dagli organismi di partito (la partecipazione politica, almeno formale, è assicurata); ogni cittadino dotato di reddito «partecipa» per obbligo in quanto contribuente. Che poi sul piano pratico 1'efficienza dei servizi della sanità nazionale sia oltremodo scadente, che le prestazioni risultino penose, che le competenze professionali vengano generalmente mortificate, che lo scialo sia garantito, tutto questo rappresenta solo una serie di corollari, per quanto grotteschi, di un'idea che viene da lontano.
Il Mulino, 03.1990 - 04.1990
Viaggi di Vertone: la Russia dopo l’Urss
«Sta crescendo in Urss una massa di manovra di scontenti che vogliono una meritocrazia senza meriti ma non rinunciano all'eguali tarismo senza equità, vale a dire al diritto di lavorare poco e male e al privilegio di non doverne rispondere a nessuno»: è questa la sentenza sull'Unione Sovietica certificata da Saverio Vertone nel suo nuovo libro Il collasso. Verdetto senza appello. Ma se dal suo viaggio, compiuto fra marzo e luglio dell'anno scorso, Vertone avesse tratto solo un catalogo di disfunzioni, fondato sugli immancabili paradossi che alimentano la ricca aneddotica attuale sulla débacle del socialismo reale, questo diario russo non farebbe che aggiungere eloquenza d'autore all'ormai vasta letteratura sul disastro-Urss; mentre in realtà Il collasso lascia trasparire fin dalle prime pagine un tentativo di interpretazione assai più flessibile e ambizioso. L'impero del Male di reaganiana memoria non esiste più: «La Russia comunista non è cattiva, è fallita». Sulla base di questa disarmante presa d'atto, Vertone ha scritto un libro seguendo una prospettiva -è questa la prima novità - che non si lascia attrarre completamente nell'orbita della figura e dell'azione di Michail Gorbaciov, il monarca che regna su un bowling geopolitico in cui ormai «i birilli sono tutti a terra». La personalità del grande comunicatore, dell'uomo che «sembra possedere la misteriosa capacità di trasforma re in successi internazionali i suoi insuccessi interni» non riesce a esaurire la sua curiosità. Il suo vero obiettivo di viaggiatore intellettuale, che sa circoscrivere gli indizi più sottili per poi penetrare in realtà enormi e complesse, e non di rado madornali, consiste piuttosto nello sforzo di esplorare fino in fondo una società. Anzi, potremmo dire, il paradigma di un contratto sociale. Terribilmente fallito, come si diceva, o viceversa riuscito con implacabile perfezione. In ogni caso, impazzito. Il contratto sociale Soviet Style si basa com'è naturale su uno scambio: mentre lo Stato ha organizzato la concretissima finzione storica del potere del proletariato, «il popolo si è preso la sua fetta di potere... e lo ha usato per come sapeva e sa usarlo, vale a dire per lavorare il meno possibile, secondo il suo cieco interesse immediato». Nei settant'anni dall'Ottobre 1917, l'Urss è man mano sprofondata in una stanchezza sempre più torpida. Mentre i sovchoz e i kolchoz diventano monumenti post-ideologici dell'improduttività e dell'irresponsabilità collettiva, mentre da vent'anni, dicono le ufficialissime «lzvestija», la durata della vita media addirittura diminuisce, e Gorbaciov riesce solo ad accusare «un male misterioso, inspiegabile, che avrebbe colpito la società negli anni Settanta e che sarebbe estraneo al sistema sovietico», l'unione delle quindici repubbliche e delle infinite nazionalità, etnie, culture, religioni, abituata a una santità folk non esente da barbarie atavica, lenisce la propria sofferenza per il desencanto ideologico dormendo: la gente capisce, dice Vertone, che la festa è finita; è consapevole che sarà più difficile uscire dal socialismo di quanto sia stato entrarvi. Sospetta oscuramente che occorra smontare l'immenso palcoscenico «sul quale per settant'anni politbjuro, Stati Maggiori, polizia segreta e masse proletarie hanno recitato, qualche volta credendoci, più spesso credendo di crederci, la parte eroica dei costruttori del comunismo»: ma non si muove. Dormono tutti, anche sul lavoro, operai, commesse, tassisti, camerieri, «forse per compensare con un nulla di fatto il valore nullo, o quasi, della moneta con cui si è pagati»: il potere che il popolo si è ritagliato consiste nel ridurre al minimo i propri doveri di lavoratori nell'inutile attesa «che qualcuno (Dio, Gorbaciov o l'Occidente) riempia i negozi e soddisfi al massimo i propri diritti di consumatori». In questo stato di attonita frustrazione permanente, il consumismo all'occidentale si dispiega come un valore metafisica ( «addirittura un'utopia»), proprio perché gli scaffali delle botteghe sono vuoti. E se la perestrojka annaspa, se gli economisti dello staff gorbaciovia no come Aganbegjan e Smelev paragonano ormai l'economia sovietica a un aereo in stalla che comincia a cadere, nella società civile in pochissimi sono disposti ad ascoltare e a darsi da fare per salvare il salvabile: «Gorbaciov ha un bel dire che per avere il dentifricio bisogna produrlo. La gente gli risponde che per produrlo deve potersi lavare i denti». Così il cerchio si chiude. «La scoperta, a quanto pare conturbante, che i diritti dei cittadini in quanto consumatori tendono a coincidere con i loro doveri in quanto produttori, è recente anche in Italia, dove ancora dieci anni fa Bruno Trentin considerava il salario una 'variabile indipendente'. Ma in Urss è nuovissima e molti la considerano una diabolica invenzione di Gorbaciov». Il contratto sociale sovietico, che si era alimentato della generale corruzione negli anni sordi dello Stato consortile gestito da Breznev e dalle sue mafie, si è alla fine avvitato su se stesso generando una rovinosa implosione di risorse, energie, intelligenze. Intorno al faro del socialismo è scesa la foschia indolente dell'accidia di massa. Al punto che per impedire la bancarotta non sarebbe sufficiente neppure un violento contraccolpo autoritario: «Lo stalinismo è stato un particolare miscuglio di terrore e di speranza. Oggi le speranze sono finite per sempre. Rimarrebbe solo il terrore. E il terrore, da solo, non basta». L'ipotesi del colpo di mano autoritario deve essere stata discussa, nelle stanze segrete del potere, nei santuari dove l'élite intellettuale, separatasi dalla società, si è racchiusa: «nel Pcus, nell'Accademia delle Scienze, nell'esercito e nel Kgb, dove si possono trovare, qua e là, specie nelle alte gerarchie, intelligenze taglienti, passioni minacciose, ambizioni segrete, insomma la sindrome perenne del sapere, del suo fascino e della sua pericolosa potenza». Ma per ora invece è passata la via di una democratizzazione disordinatamente octroyée, tanto tumultuosa nella sua espressività quotidiana quanto incerta nella strumentazione politica. Optando per le figurazioni simboliche della glasnost e della perestrojka, l'ultimo erede di Lenin «non ha scelto la libertà, ma la sopravvivenza». Tuttavia la volontaristica mobilitazione delle coscienze dettata dall'alto, il tentativo di aprire il mercato senza la chiave dei prezzi reali e di stimolare la competitività a stipendi egualitaristicamente pianificati lasciano drammaticamente inerti gli apparati nel loro rigorosissimo fatalismo di cifre improbabili e statistiche opportunamente truccate per risultare in regola con il Piano. Nel frattempo, in assenza di una vera opinione pubblica, in un'arena politica deserta di attori plausibili, il paese della «Terza Roma» (come il monaco Filofej di Pskov aveva chiamato Mosca), destinato a illuminare i popoli, ricade vittima di un'indole o un'attitudine assimilata nella lentezza dei secoli, cedendo al fascino consolato rio e alienante della segretezza, del mistero e del sospetto, cioè «il lascito dell'autocrazia bizantina, che Stalin e Breznev hanno portato alla perfezione». Una parte della Russia tende insomma a ripiegarsi su se stessa: rinascono serpeggiando insidiosamente nel corpo della società movimenti tradizionalisti come Pamjat, che riesumano perfino l'antisemitismo più volgare; deflagrano con premoderna intensità i conflitti etnici; e l'arcaismo di fedi e integralismi intorbidisce ogni possibile e ragionevole progetto di religione civile. «Oggi, a Mosca come in provincia, le chiese sono frequentatissime e a volte si riempiono di giovani e giovanissimi che, anche senza essere battezzati e senza credere veramente in Dio (oggi è difficile dappertutto, persino in Russia), ci vanno per far finta di credere in qualche cosa, per turare alla meglio un buco interiore che non sanno come riempire». La storia sembra vendicarsi. Sembra di avvertire nell'aria il vociferare dei populismi che hanno acceso il fuoco nella mente russa negli ultimi anni dell'Ottocento e in apertura dei nostro secolo; sembra di sentire l'eco dei poemi nazionali inneggianti alla «santa» miseria, gli aneliti di quell'ossessivo misticismo gnostico che poteva scorgere le tracce del divino nella corruzione più purulenta. Neppure la Rivoluzione era riuscita a spazzare via quello specialis simo impasto di degradazione civile e di autoesaltazione nazionali stica, tipico per esempio in Gorkij, che portava difilato alla deificazione del popolo come miracoloso polo di spontanea ener gia politica e culturale. «Tempo verrà - aveva scritto Gorkij - in cui tutta la volontà popolare sarà ancora una volta concentrata in un sol punto. Allora emergerà un potere invincibile e miracoloso e Dio risorgerà». Ricorda Mikhail Agursky (in La Terza Roma. Il nazional-bolscevismo in Unione Sovietica) che perfino esponenti di spicco della Russia controrivoluzionaria bianca (come Ustrjalov e Kljucnikov, quest'ultimo ministro degli esteri nel governo di Kolcak) furono affascinati dal mito del comunismo nazionale: se i bolscevichi avessero vinto, allora questo significava che la Russia aveva bisogno di loro e che la storia procedeva nella loro direzione: «Ad ogni modo, il nostro dovere è di stare con la Russia. Perbacco! Andiamo con i bolscevichi». La fascinazione della necessità storica attraeva anche i vecchi arnesi dell'hegelismo di destra: nel nome della sovrana iper-razionalità del reale, si poteva anche accettare la dittatura del proletariato se ciò significava il compimento, catalizzato dallo Spirito, del grande destino nazionale russo. Con i decenni, esaurito il ciclo della mobilitazione di classe, terminato lo slancio collettivo della guerra antinazista, spentosi l'entusiasmo del confronto globale, magari a colpi di Sputnik e di Vostok, con il mondo «imperialista», la violenza di un tremendo paradosso si è abbattuta sulle strutture in cui la proteiforme «anima russa» era stata materializzata nel popolo sovietico dal Verbo marx-leninista. Il popolo, privato della sua testa, ritiratasi nei privilegi della nomenklatura, ha fagocitato se stesso, completando un processo che non ha condotto né all'eliminazione della diseguaglianza né al benessere, e men che meno all'Uomo nuovo del marxismo realizzato. Ciò che ne è risultato, scrive Vertone, è uno smisurato dopolavoro: «un immenso Arci compunto e noioso», nel quale il popolo, ormai divenuto un'entità amorfa, cerca di approfittare delle mediocri opportunità offerte dalle condizioni politiche oggettive per continua re una grigia sopravvivenza scopertamente priva di futuro. Il sistema consente di tirare a campare. Per ora il contratto sociale firmato da un Rousseau delle burocrazie non si è ancora del tutto disintegrato: sopravvive a se stesso nutrendosi dei propri detriti e cercando di rimandare finché è possibile il conseguente rischio dell'intossicazione. «La Russia - confessa a Vertone in chiusura di libro un anonimo funziopario del micidiale Gosplan - è un grande poligono sperimentale. E immenso, e proprio per questo è l'unico posto al mondo dove si può provare tutto. Abbiamo perso quasi trenta milioni di persone per la collettivizzazione forzata, e altri venti milioni nella guerra che abbiamo dovuto sostenere per difendere i risultati di quel massacro. Ma siamo ancora qui. E così gli altri sanno quel che non si deve fare. Già una volta abbiamo salvato l'Europa dai Tartari. Adesso la salviamo dal socialismo». Ma è un salvataggio involontario, irriflesso, in cui il socialismo viene esorcizzato dalla sfiducia e invischiato in una fluviale disfunzione: allorché il processo di autodigestione del sistema si sarà completato, annullando le intelligenze e le capacità residue, dell'Unione Sovietica potrebbe restare, se è adeguata la diagnosi di Vertone, solo la lunghissima decadenza di un impero: qualcosa di non dissimile da un virtuale impero ottomano del terzo millennio. Saverio Vertone, Il collasso, Milano, Rizzoli, 1990, pp. 216, L. 32.000.
Il Mulino, 07-08 1990, Dalla lotta di classe all'invidia sociale
L’estinzione della classe operaia
Come il Romanzo, Dio, l'Ideologia, come diversi altri protagonisti della storia e del processo di civilizzazione, a un certo punto la classe operaia muore, e questa volta non c'è né un Musil né un Nietzsche o un Aron a redigerne l'atto di morte. Conta poco che i cinque milioni di persone che in Italia ne fanno parte continuino imperterriti o rassegnati a vivere e faticosamente a produrre: all'inizio degli anni Ottanta lo spirito del tempo decide l'estinzione di massa di un soggetto sociale e politico che aveva avuto una funzione cruciale nel miracolo economico e nella recessione, nei racconti collettivi e nelle realtà quotidiane. Come per la scomparsa dei grandi erbivori, l'impatto di un asteroide alieno, un radicale cambiamento climatico, l'apparizione di concorrenti più agguerriti nella struggle for life, oppure tutti questi fenomeni messi insieme, determina la scomparsa della specie. Così come si estinguono i dinosauri, il Cipputi in simbiosi con il tornio o la catena di montaggio svanisce rapidamente dalle percezioni della struttura psicologica collettiva: e con lui svaporano l'orgoglio operaio e le mitologie dell'operaio-massa, unitamente agli strumenti e ai simboli del potere che si illudeva di avere guadagnato: anzi, conquistato, secondo l'enfasi del lessico sindacale. Si dileguano conflittualità e assenteismo, consigli di fabbrica e ruolo di supplenza politica, sindacati e striscioni, manifestazioni e slogan. Figure prima di allora rispettate, blandite e sovente mitologizzate come i metalmeccanici e i tessili, i chimici o gli edili cedono il passo all'era della ristrutturazione dell'innovazione tecnologica, della terziarizzazione, della finanza. Non sanno ancora che sul loro cadavere si verrà completando una colossale spartizione, di cui non potranno essere che le vittime supine. Eppure, fino a pochi mesi prinia la classe operaia esisteva eccome; investito dal soffio vitale di una missione salvifica e redentrice nei confronti dell'intera società, il movimento operaio, con il suggerimento e il plauso dell'Italia marxisteggiante, poteva impersonare l'ultima epopea politica della modernità, cioè la lotta di classe. Che tradotta nelle ipermediazioni del sistema italiano poteva significare tanto la possibilità di dare una spallata a un Andreotti-Malagodi quanto l'opportunità di aggravare il costo del lavoro per unità di prodotto in misura indesiderabile per il duo Cadi-Colombo e per la Confindustria. Dall'autunno caldo in poi la retorica nazionale era stata dalla loro parte, dalla parte degli operai. Chi non parlava dei ritmi di lavoro «disumani» alla linea di montaggio, dell' «autoritarismo» in fabbrica, di una «condizione operaia» giunta all'acme dello sfruttamento tayloristico? In realtà, soprattutto nei «dark satanic milis» della produzione di massa profetizzati da Milton, e specialmente nei reparti produttivi delle imprese multinazionali, la disumanità e la spersonalizzazione del lavoro erano piuttosto relativi, ed è probabile che l'investimento straniero in Italia mettesse in conto come fisiologica una bassa produttività relativa della nostra forza lavoro. Al punto che uno spirito sufficientemente critico e moderatamente scettico potrebbe chiedersi oggi se non ci sia una relazione magari di tipo causale, proprio «post hoc ergo propter hoc», fra il coro di lamentazioni sulla proclamata disumanità di ieri e la silenziosa rivoluzione successiva, quando grazie alle applicazioni della ricerca ergonomica e all'automazione, alla psicologia del lavoro e allo studio disincantato della curva dell'attenzione si è giunti finalmente alla definitiva «Saturazione» dei tempi di attività. Per almeno un decennio un intero ceto sindacale e politico aveva vissuto di rendita sulla classe operaia. Per il Partito comunista essa costituiva una sicura riserva di caccia elettorale, con le fabbriche equiparate a santuari della socializzazione politica, agenzie dell'identità di classe, scuole elementari di partito. Per i sindacati, le aziende si erano rivelate il terreno ideale per uno scontro globale di potere i cui cardini erano le finzioni persuasive e demagogiche dell'unità e dell'uguaglianza, dell'abbattimento coatto delle differenze, e soprattutto del disprezzo per ogni rivendicazione o tentazione «salarialista». Il disprezzo per i soldi merita probabilmente un modesto approfondimento, perché è rappresentativo di una concezione largamente diffusa, anzi, dominante nel pensiero sindacale: secondo cui l'antagonismo universalistico, cioè per l'appunto «di classe», è preferibile al conflitto regolamentato degli interessi, su temi negoziali circoscritti. Il perché è chiaro: se le rappresentanze sindacali avessero chiesto in primo luogo aumenti retributivi, ciò avrebbe innescato, dopo gli inevitabili turbamenti confindustriali, un calcolo di compatibilità in cui entrambe le parti sarebbero state coinvolte ed eventualmente responsabilizzate. E in una logica di compatibilità, la domanda di «più salario» avrebbe ovviamente ricevuto come risposta la richiesta di contropartite da trattare su altri aspetti del lavoro: più produttività, maggiore flessibilità, migliore utilizzo degli impianti. Ci si sarebbe approssimati in questo modo a un modello negoziale in cui la componente schiettamente economica sarebbe prevalsa su quella politica: e il dramma ricorrente dei vari rinnovi contrattuali non sarebbe stato recitato dalle cosiddette «parti sociali», con la mediazione preoccupata del governo e del ministro del lavoro di turno, bensì da contraenti impegnati a discutere specificamente sugli aspetti concreti del lavoro. Via dunque le gabbie salariali, simbolo di un'intollerabile diseguaglianza su base geografica, avanti con il punto unico di contingenza: ogni contratto si rivela un'occasione strategica per introdurre nell'industria una serie di vincoli che con il miraggio di garantire in realtà mortificano. Attraverso l'illusione di tutelare di volta in volta le donne rispetto agli uomini, il neo-assunto rispetto alle aristocrazie operaie, l'operaio nei confronti del capitalista, il disoccupato di fronte ai già occupati (in poche parole il contraente più debole rispetto a quello più forte), di fatto si stende sul mercato del lavoro una rete di lacci e lacciuoli che rischiano di bloccare qualsiasi dinamismo residuo. Le norme che tutelano la maternità (le uniche al mondo, ricorda Fiorella Padoa Schioppa, che obbligano le donne a lasciare il lavoro due mesi prima e tre dopo il parto) riescono persino a bloccare l'ingresso nelle unità produttive della forza lavoro femminile fino al 1973, cioè in una fase in cui in tutti i paesi avanzati si assiste a uno spettacolare incremento dei tassi di occupazione delle donne. Attraverso la Cassa integrazione - lo ha spiegato in diverse occasioni Giuliano Amato - si instaura una muta alleanza impropria fra i presunti sfruttati e i conclamati sfruttatori, scaricando sullo Stato il costo di stipendi relativamente elevati e scoraggiando in tal modo sia la crescita dell'occupazione sia il perseguimento di economie di gestione. «La legge Prodi e la Cassa integrazione straordinaria - ha ricordato sul «Corriere della sera» nell'agosto dell'anno scorso l'ex ministro del tesoro - insegnarono a imprenditori e sindacati che era inutile farsi la guerra ed era meglio mettersi d'accordo sulla dichiarazione di crisi aziendale. A quel punto operai e fornitori li pagava lo Stato». Questo modello poteva adattarsi a meraviglia sia per il sindacato, che aveva sempre limato il conflitto d'interessi definendolo in funzione di ulteriori conquiste generali (l'occupazione prima di tutto) sia al Partito comunista, che ormai da tempo si era abituato a scambiare legittimazione contro riduzione dell'intensità del conflitto. Tuttavia questo statalismo implicito comportava conseguenze vagamente disastrose. Ad esempio, l'accento altamente negativo, quasi di tradimento sociale, che grava a quei tempi sul profitto rende assolutamente imperscrutabile il pensiero che le aziende nascono e si sviluppano dove trovano, condizioni adatte e soprattutto interesse a nascere e a svilupparsi. E il caso, ad esempio, del Mezzogiorno, che non si riesce a svincolare dal circolo vizioso fatto di cattedrali nel deserto più l'assistenza. La «società a somma zero» con cui Lester C. Thurow ha descritto l'età della stagflazione diventa nel nostro paese una parodia, in cui tutti fingono di cooperare in vista di un interesse ritenuto superiore. Un'eccezionale lungimiranza di facciata, la rinuncia alle differenziazioni salariali in nome dell'estensione della tutela, comincia a prendere i tratti di una straordinaria miopia. Che si tratti di un crudele errore sulla natura umana o di un'involontaria ma colossale imprecisione nella definizione dei processi sociali e del ruolo che in essi hanno i loro rappresentati, sta di fatto che i tre sindacati si rendono responsabili della prima grande dinamica di corporativizzazione della società italiana. Lama & c. probabilmente non se lo immaginano neppure, ma stanno evocando al tavolino il fantasma dell' organicismo. Gli operai vengono indotti dall'alto a operare uno scambio fra l'utile privato (il male) e l'interesse pubblico (il bene), e non c'è dubbio che quest'ultimo, per quanto remoto e problematico, viene fatto percepire come indiscutibilmente migliore sotto il profilo della qualità morale, civile, etica. Il prezzo di questo scambio non può non essere elevatissimo, perché implica la rinuncia unilaterale a più adeguati e moderni standard di reddito e di benessere: ma questa rinuncia viene surrogata con la soddisfazione (vicaria, impalpabile, ma per non pochi in prospettiva entusiasmante) di avere ipotecato un ruolo di primo piano nell'equivoca commedia degli equilibri più avanzati (o del nuovo modo di fare l'automobile) che ineluttabilmente, come una promessa della storia, sarebbe stata messa in scena nella società futura. Poveri ma buoni, antagonisti ma portatori di un antagonismo pensosamente responsabilizzato e già di stampo «governativo», gli operai non si rendono conto di essere messi a bilancio non già come una variabile dipendente con cui fare i conti, ma come un soggetto politico improprio, e in quanto tale immobilizzabile. Quando viene lanciato da Bruno Trentin l'infelice slogan del «salario variabile indipendente», la classe operaia comincia a entrare in agonia. Se gli stipendi costituiscono una grandezza immodificabile e inelastica, l'adeguamento del costo del lavoro ai livelli della competitività del mercato interno e internazionale si sposterà su altri fattori più duttili e facilmente manipolabili (finanza, recupero di produttività, ristrutturazione). A Luciano Lama sfugge, ma la classe operaia comincia ad assumere le sembianze di qualcosa troppo simile all'imposta di fabbricazione. Qualcuno provi a spiegare perché una vocazione di tipo superiore dovrebbe spingere le imprese a investire in aree e regioni dove la produttività è rilevabilmente più bassa della media nazionale e il costo del lavoro praticamente identico. Esiste certamente una dimensione sociale e «socializzante» dell'economia, e un' occhiata alla Soziale Marktwirtschaft della Repubblica Federale Tedesca da Adenauer a Erhardt, o da Brandt a Schmidt, avrebbe potuto suggerire alcune notevoli ipotesi su come promuovere il mercato senza strangolare i più deboli, o su come articolare il sistema di Welfare senza precipitare negli avvitamenti e nelle spirali viziose dell'indebitamento inefficiente e senza trasformare la società in un esercito di free riders. Ma lungo tutti gli anni Settanta si diffonde invece la tetra e provinciale sensazione che tutte le economie a capitalismo avanzato hanno ormai raschiato il fondo del barile: due shock petroliferi, il deficit energetico, gli sbandamenti dei petrodollari e il collasso degli equilibri monetari stanno lì a dimostrare che siamo alla vigilia del day after, e che il modello di sviluppo basato sull'accumulazione capitalistica è giunto alla fase terminale. A che serve allora preoccuparsi di dare fiato alle residue energie imprenditoriali? Nel tramonto dell'Occidente, il ruolo dell'Italia potrà essere tutt'al più quello di ricrearsi come riserva protetta, parco nazionale, laboratorio crepuscolare in cui si possa consumare l'eutanasia del capitalismo. Tuttavia, così facendo e così pensando si trascura un aspetto più sfumato ma non insignificante: vale a dire che probabilmente non tutti gli iscritti al sindacato e gli addetti alla produzione di massa avvertono come gratificante l'idea di rimanere congelati per tutta la vita al terzo livello grazie a un mansionario che garantisce l'impiego, in cambio dell'immutabilità delle funzioni e delle responsabilità. E tutto da dimostrare che possa ritenersi socialmente soddisfatto chi trova nella fabbrica un grande ospedale dove si deve permanere per decenni nella condizione dell'ammalato. In questo senso, la tuta di lavoro vale il pigiama del ricoverato. Nel cronicario di classe l'aspettativa di chances professionali, di carriera, di promozione delle risorse migliori e delle capacità comunque acquisite sul posto di lavoro è imbrigliata in un intreccio di regole che se da un lato promettono la sicurezza contro la perdita dell'impiego e la tutela contro una serie impressionante di sventure individuali e collettive, dall'altro azzerano le possibilità di crescita. I miglioramenti di reddito avvengono infatti esclusivamente attraverso l'anzianità e la contrattazione collettiva, gli avanzamenti di categoria sottostanno a un modello complessivo di relazioni industriali in cui le risorse umane costituiscono l'ultimo e tutt'altro che decisivo anello di una catena di mediazioni. La scelta di proteggere la classe operaia anziché di promuoverne la qualificazione anche selettiva manifesta a posteriori un oscuro vizio paternalistico, un ossessivo timore verso le differenziazioni e ogni genere di individualità, la nozione che i lavoratori erano massa da accompagnare per mano a «conquiste» lente e laboriose a cui non sarebbero mai arrivati da soli. Era questo il promesso «allargamento della democrazia», come con le consuete metafore spaziali si usava dire? Storie. Era il socialismo davvero realizzato su questa terra, il modello brezneviano tradotto nello stile italiano. La «condizione operaia» si iscriveva in una grigia quotidianità prolungata fino alla promessa-minaccia della pensione. E la catastrofe esistenziale, sociale, politica, economica di Cipputi e dei suoi colleghi acquistava contorni piuttosto horror perché proprio mentre i ceti per definizione produttivi, costruttori di manufatti, venivano consegnati alla mummificazione economica, la società italiana perseguiva al contrario - spesso riuscendoci, nonostante tutto - obiettivi di autopromozione, di mobilità, di diversificazione dei consumi e dei comportamenti. Le differenze omogeneizzate nel frullatore di un negoziato rissoso ma in fondo «istituzionale» o di una conflittualità pervasiva ma senza sbocchi esplodevano o si esaltavano invece nel magma ribollente della comunità egoista, maleducata e cafona, irresponsabile e arrabbiata, ma alla fine viva. C'è da chiedersi come sia potuto accadere che una fascia sociale le cui energie venivano represse ope legis abbia assistito senza protestare alla deflagrazione dei desideri altrui e al loro goloso soddisfacimento. Con un eccesso di ragione cinica si può pensare che mentre delegavano alle conquiste en politique la definizione del proprio ruolo sociopolitico, sul piano concreto i metalmeccanici duri e puri abbiano rincorso per via privata ciò che la virtù pubblica considerava poco elegante. E cioè che il soddisfacimento di quella ridda di bisogni, materiali e immateriali, ma comunque accessori rispetto al decalogo della moralità della sopravvivenza operaia, sia stato ottenuto in maniera informale attraverso l'intensificazione di attività complementari - il doppio lavoro - oppure approfittando del reddito aggiuntivo prodotto dai componenti del focolare domestico. Tuttavia, se questo è vero, implica anche una intensa redistribuzione spontanea delle risorse individuali, con conseguenze pregevoli dal lato dei livelli di benessere, ma tutto sommato irrazionali sotto il profilo dell' ottimizzazione delle capacità. Come ha mostrato a suo tempo Luciano Gallino, il doppiolavorista non cercava soltanto una quota aggiuntiva di reddito, ma tentava di ottenere fuori dalla fabbrica ciò che in fabbrica gli era negato, dal «padrone» o dalle rigidità imposte dal sindacato. In ogni caso, in questo modo svanivano tutte le mitologie incentrate sulla «solidarietà» operaia. Compresso e controllato l' egoismo in azienda, questo si diramava spontaneo e inarrestabile al di fuori dei cancelli. Per questo fa leggermente sorridere, ad esempio, la nostalgia manifestata in più di una occasione da Fausto Bertinotti (esponente della Fiom-Cgil) verso il clima che secondo lui regnava sul paese durante gli anni Cinquanta: vecchie case di ringhiera, comunità di vita fra poveri, pane e cipolla la sera in attesa dell'immancabile riscatto. Ma a parte che sotto l'etichetta populistico-moralistica della solidarietà si sono consumati (e si stanno ancora consumando) autentici misfatti redistributivi, sarebbe valsa la pena di ricordare, con Sergio Ricossa, che «l'altruismo è spontaneo ed efficace in piccolo, verso chi conosciamo e incontriamo e i cui bisogni percepiamo chiaramente, perché rivelati da un rapporto personale diretto dentro il quale germina con facilità anche la simpatia, se non l'amore. Nella grande società resta un posto per tal genere di soccorso, ma questo non è in grado di esaurire le esigenze di solidarietà poste da un'estesissima e complicata divisione del lavoro fra persone che molto indirettamente sono collegate, e spesso a loro insaputa (nel senso che non sanno chi individualmente rappresenti l'ultimo anello della catena di relazioni sociali). La grande società non ha sconfitto la miseria coi San Martino, che donavano metà dei loro mantelli ai poveri di passaggio, ma fabbricando milioni di mantelli interi a costi accessibili a tutti». Ancora. Al di fuori del razionalismo cinico, secondo cui i lavoratori hanno provato a ricavare in modo «selvaggio» ciò che non era concepibile guadagnare nei reparti, nessuna spiegazione della progressiva rassegnazione operaia è possibile, tranne quella che gli operai abbiano dawero creduto alla possibilità di rivincita futura, e che siano stati anch'essi vittime dell'utopia. Ma in questo caso il peccato di ingenuità sarebbe stato ancora più appariscente e grossolano, fino a rendere giustificabile il cumulo penitenziale di sanzioni che in seguito si è abbattutto sugli ex portatori della dialettica storica. Com'è noto, oggi una lira di aumento salariale pagata agli operai, alle aziende ne costa quasi tre, a causa degli oneri fiscali e contributivi ineludibili che gravano sul lavoro dipendente. Forse è meno noto che dall'autunno caldo a oggi nell'industria privata le retribuzioni a valore reale sono cresciute in misura assai contenuta, per non dire quasi nulla, a dispetto delle «lotte» e delle «conquiste» del movimento sindacale e dello spettacolare ritorno al profitto delle aziende italiane a partire dal 1982-83, e comunque in misura notevolmente inferiore alla dinamica degli aumenti nel settore pubblico. Nel frattempo il paese si è bloccato quasi del tutto. L'immigrazione dal Meridione si è fermata, e il mismatching, il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, ha assunto aspetti plateali, al punto che si è deciso che l'avviamento al lavoro della manodopera straniera è diventato un problema centrale, ad onta degli altissimi tassi di disoccupazione al Sud e fra le donne, e malgrado l'elevato numero di pensionati che potrebbero essere opportunamente riutilizzati. La corporativizzazione del settore pubblico presenta ormai aspetti patologici, e la sfida dei vari Cobas alla finanza pubblica si è tramutata in un vero e proprio ricatto ai cittadini. In questo scenario, a fine giugno si sono verificati i seguenti fenomeni: l) la rottura delle trattative sul rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici; 2) la disdetta della scala mobile da parte della Confindustria. Di conseguenza, Cgil, Cisl e Uil hanno chiamato il paese allo sciopero generale per l' 11 luglio. Lo sciopero è poi stato annullato, grazie a una mediazione del governo che ha promesso sgravi sugli oneri impropri per tremila miliardi. Ma il caso resta, e vale la pena di confermare che c'è qualcosa di paradossale, in una decisione simile. Al di là del fatto che come strumento di pressione lo sciopero generale appartiene al clima «contestativo» degli anni Settanta, di cui abbiamo già parlato, oggi risulta piuttosto sconcertante pensare di trovare uniti nella protesta, accanto all'avanguardia dei metalmeccanici, i dipendenti dell'industria privata e i dipendenti pubblici: come dire, i silenziosi Cipputi delle fabbriche e i vociferanti Cobas delle ferrovie, i protagonisti passivi del recupero di produttività e di efficienza e l'Italia disfunzionante delle corporazioni e delle clientele. Avranno avuto le loro ragioni i Trentin, i Marini e i Benvenuto a indicare la strada insidiosissima e arcaica dello sciopero, come si diceva una volta, «di solidarietà». Ma si dovrebbe anche spiegare che genere di solidarietà può esistere fra categorie appartenenti a due mondi in opposizione: le une, quelle che fanno parte del lavoro dipendente privato, iscritte in un vincolante calcolo di compatibilità economica, e le altre, quelle dei dipendenti del settore pubblico, che essendo sciolte da qualsiasi vincolo di economicità e di responsabilità hanno potuto esprimere negli ultimi anni le punte più inquietanti di particolarismo e di egoismo corporativo. La scelta dello sciopero generale ha rappresentato una specie di ritorno al passato, alla logica della contrapposizione globale (il «partito del lavoro» contro il resto del mondo) e di conseguenza alla confusione degli interessi. I motivi di questa strategia da parte di Cgil, Cisl e Uil si possono anche comprendere, se non condividere: estendendo e radicalizzando lo scontro, si può puntare forse a un certo recupero di rappresentatività e di legittimazione dopo lunghi anni di crisi del sindacato e l'emergere dei gruppi corporativi che hanno scalfito l'unità sindacale. Ma è anche opportuno rilevare che il ritorno all' «uniti si vince», alle parole d'ordine unitarie, si può verificare soltanto su una base moralistico-paternalistica, cioè componendo artificialmente sotto l'etichetta sindacale conflitti trasversali e differenze d'interesse ormai radicati nella realtà del lavoro in vista di un interesse comune qualitativamente superiore che le varie corporazioni hanno continuamente dimostrato di disprezzare. E stato proprio questo lo schema all'interno del quale si è sviluppato il pansindacalismo italiano dall'autunno caldo in poi, ed è curioso ritrovare oggi lo stesso errore di fondo che è stato alla base del declino sindacale a partire dall'inizio degli anni Ottanta. Tanto più che la miccia dello sciopero generale, cioè lo scontro sul contratto dei metalmeccanici, conteneva tutti gli ingredienti per un confronto spregiudicato a tutela degli interessi operai, degli ultimi mohicani da un milione e duecentomila lire al mese. Presa sul serio, l'ipotesi confindustriale di aprire una discussione sulla struttura del costo del lavoro e del salario poteva fare rimbalzare fin sullo Stato il problema della ·zavorra fiscale e contributiva gravante sulle retribuzioni. Decisamente, sarebbe stato piuttosto singolare, secondo il senso comune, trovare il «padronato» alleato ai lavoratori nella «lotta» contro lo Stato, cattivo gestore della spesa pubblica, e quindi anche dei quattrini rastrellati con le tasse degli operai. E difatti, ancora una volta le confederazioni hanno scelto la strada non della coincidenza degli interessi, bensl dell'alleanza di tutti con tutti, compresi i maggiori beneficiari della spensieratezza clientelar-corporativa dell'amministrazione pubblica. In questo modo, e senza essere profeti, si può prevedere che nessuno dei problemi che affliggono la classe operaia verrà risolto. E c'è di peggio: una volta attenuati i clamori, «la condizione operaia» tornerà a essere un tema sepolcrale, che non interesserà più nessuno. Eppure, ci sarebbe da dedicare qualche triste pensiero a un paese che tratta male proprio chi dà consistenza e pesantezza di realtà al benessere generale.
Il Mulino, 09-10 1990, Dentro la «cosa»
Fuga nell’avvenire. Il post-comunismo e il peso della cultura
1. Dopo un lunghissimo anno di discussioni sulla Cosa, viene il dubbio che sia stato dimenticato un elemento fondamentale, e cioè che il rinnovamento, la trasformazione, la rifondazione o se si vuole la metamorfosi del Partito comunista italiano non sono dipesi da una decisione autonoma e sovrana da parte del ceto dirigente del partito. Ci sono voluti alcuni eventi che è poco definire traumatici, attraverso una successione in cui lo sgretolamento del Muro di Berlino rappresenta certo l'episodio più spettacolare ma non l'ultimo sintomo della disgregazione finale di un sistema. Per ricapitolare, l'annuncio di Achille Occhetto alla Bolognina, il 12 novembre 1989, secondo cui nel Pci entrava in discussione «tutto», veniva sulla scia di un processo dissolutivo che aveva investito tanto il centro dell'impero sovietico quanto il suo antemurale esterno. I birilli del madornale bowling del socialismo reale crollavano ad uno ad uno addosso all'altro. Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Germania Orientale. Nel medesimo tempo, l'Unione Sovietica vedeva realizzarsi le conseguenze di cinque anni di «Era Garbaciov», quella combinazione di sprigionamento di energie sociali troppo a lungo represse e di mancata gestione che stava portando le quindici repubbliche socialiste allo sfacelo e forse alla fame. Per i comunisti italiani, è un punto d'onore negare a priori qualsiasi relazione fra il crollo dell'Europa comunista e la crisi del Pci. «Noi non abbiamo buchi nelle nostre bandiere», sostiene ancora oggi il suo segretario. Ma a quel punto, a Muro appena sbrecciato, solo un involontario eroe e martire dell'ortodossia comunista come Dario Cossutta poteva ancora pensare che il binomio di Glasnost e Perestrojka potesse costituire un nucleo di virtuali capacità autoriformatrici miracolosamente insito nel socialismo realizzato. Per tutti gli altri acquistava evidenza drammatica la dimensione di un fallimento complessivo, che oltretutto aveva la pessima caratteristica di verificarsi in contemporanea in tutte le province dell'impero, come se la mano del destino avesse incorporato nei totalitarismi comunisti una serie di bombe a tempo perfettamente sincronizzate. Nelle piazze di Lipsia e di Dresda la gente aveva fatto saltare il bunker dello stato anticapitalista, del presunto baluardo antifascista. A Berlino, Gorbaciov aveva ammonito il vecchio Honecker: «Chi tardi arriva, la storia lo punisce». L'erede di Ulbricht ovviamente non capiva, ma ormai una sentenza era stata emessa. Era evidente che la scossa tellurica nell'Europa orientale rischiava di sconvolgere la terra sotto i piedi anche al Pci. E a quel punto Occhetto non poteva tardare un minuto. La sua figura si tramuta in quella di un uomo che fugge inseguito da una colossale ondata di macerie. A dispetto dei molteplici «strappi» compiuti nei confronti dell'Unione Sovietica, per una parte tutt'altro che marginale del Pci il sostegno entusiastico alla perestrojka di Gorbaciov era servito effettivamente anche da contrappeso ai giudizi ufficiali del partito sul fallimento dei sistemi comunisti. Per un verso, la radikalnaja reforma gorbacioviana lasciava margini al dubbio o alla tacita speranza che non tutto, nell'esperienza sovietica, fosse da buttare; per un altro aspetto, si poteva poi cullare e diffondere l'idea che l'evoluzione in atto nell'Europa dell'Est fosse stata per così dire «anticipata» non solo dalle edizioni più recenti del Pci, diciamo dal Berlinguer che nel giugno '76 accetta la Nato, ma perfino dal Togliatti del Memoriale di Yalta. Il ripescaggio in extremis del socialismo reale, così operato, permetteva di riflesso anche una rilegittimazione della storia del Pci, in quanto precursore, se non proprio ispiratore diretto, del processo di democratizzazione messo in moto da Gorbaciov. È appena il caso di dire che si trattava di una classica fiaba di famiglia. Preda delle sue mitologie provinciali, il Pci era in ritardo sulla storia almeno dal 1959, l'anno di Bad Godesberg. Il «cambiamo tutto» di Achille Occhetto non poteva non avere l'apparenza di un salvataggio estremo, e quindi assai problematico. Ma i cornicioni pericolanti del comunismo incombevano, ed era urgente cambiare marciapiede alla svelta. 2. Occhetto si accinge ad attraversare la strada, e naturalmente sa benissimo di rischiare grosso. Il minimo che gli può capitare è di essere messo sotto dagli autisti dei vari tram chiamati desiderio, che sono così numerosi nella corsia di sinistra del partito. Per questo non può azzardare la via più semplice: indire subito le assise straordinarie, comunicare sbrigativamente il cambio del nome e del simbolo e indicare le linee fondamentali di un programma politico di stampo più o meno socialdemocratico. Non ha il carisma di farlo. E i vecchioni del partito tradizionale si allineano con il fucile puntato. «Costernante... », sibila a denti stretti Ingrao dopo aver letto la relazione del segretario alla direzione del 14 novembre. Nemmeno Alessandro Natta e Aldo Tortorella sono stati informati dell'avvio del nuovo corso, e se la legano al dito. Ma Occhetto è vittima in primo luogo di se stesso: della propria formazione, della propria cultura, del clima sessantottesco in cui è maturato. Forse è rimasto nostalgicamente legato al se stesso segretario della Fgci, e sogna anacronisticamente mobilitazioni «di massa», convergenze, dinamismi sociali, permutazioni e ibridazioni politiche a comando. Nell'impossibilità di rifondare il partito con un colpo di bacchetta, dicendo semplicemente: «Siamo sempre stati riformisti, adesso riconosciamolo ufficialmente e niente discussioni per favore», deve inventarsi una procedura infinitamente più complessa e ricca di insidie. Nascerà la Cosa, verrà immaginata la fase costituente. Il segretario si sente in obbligo di rilanciare il partito nel mercato politico, chiedendo i consensi di una vasta pluralità di soggetti: gli ambientalisti, le femministe, i pacifisti, la Pantera, i cattolici democratici. Grazie anche all'abilità del suo staff, che ha capito tutto del ruolo e dell'efficacia dei mass media, ogni giorno viene estratto dal cilindro un coniglio nuovo. Purtroppo però, rispetto a quegli anni formidabili in cui il ciclo di protesta in Italia raggiungeva il color bianco, la società civile si guarda bene dal mobilitarsi. Agli appelli della Cosa non rispondono i Verdi, che hanno già a disposizione non una sola bensì due formazioni politiche; i cattolici si rivelano come sempre anime piuttosto incerte; l'opinione pubblica ha ormai interiorizzato che nel nostro paese il sistema dei partiti è fallito, e si dimostra impermeabile alle promesse di partecipazione evocate dal partito e dal suo segretario. Il richiamo alla sinistra «sommersa e dispersa» va in breve a vuoto. Rispondono soltanto, e non a caso, gli intellettuali. 3. I limiti politici dell'operazione occhettiana erano già ampiamente palesi fin dai primi documenti consegnati alla discussione interna. Se la fase cosiddetta costituente chiamava a raccolta soggetti politici fantasma, l'innaturale mediazione esercitata dalla segreteria tra la vocazione pragmatica e «ministeriale» della destra comunista e il movimentismo «antagonista» della sinistra ingraiana veniva riassunta in un volontaristico progetto di alternativa senza alleati e privo di contenuti: a meno di non voler considerare come contenuti plausibili le emozioni amazzoniche e sahariane esibite quasi a ogni comitato centrale. Ma il risultato più insidioso della seduta collettiva di autocoscienza politica aperta nel Pci dall'estenuante discussione «sul nome e la cosa» è che un'iniziativa che individuava come obiettivo la trasformazione in profondità del sistema politico italiano si è risolta ben presto in una questione teologale da dibattere all'infmito nelle varie sagrestie della Chiesa rossa: dove i rinnovatori si sono trovati a dover fronteggiare la resistenza talvolta vischiosa (sul metodo, sulle procedure) e talvolta aspra e rumorosa (sull'appartenenza, l'ideologia, l'orgoglio di partito, il «bisogno di comunismo») di un partito che troppo ottimisticamente era stato trasfigurato in un'entità moderna, illuminista, non dogmatica. Almeno nella fase iniziale, tuttavia, la Cosa non dispiaceva al mondo della cultura. Cominciavano anzi ad apparire manifesti di sostegno alla svolta occhettiana, lettere pubbliche ricche di firme illustri. Poteva nascere davvero qualcosa di più di un flirt, un amore vero, fra gli intellettuali e la Cosa? Adesso si può rispondere di no, che non era possibile. li Pci si afflosciava, e al suo posto cominciavano a nascere le sette, le detestate correnti. Prendere posizione, in questa fase, era come schiacciarsi sul quotidiano: lo schieramento per Occhetto o contro di lui costituiva una sorta di ennesimo tradimento dei chierici, la rinuncia all'analisi intransigente per entrare nel giochino delle fazioni. E dire che c'era bisogno di un'analisi di lungo periodo della crisi comunista. Invece, la riflessione sul fallimento del socialismo reale è stata estremamente debole, al punto che lngrao, la Rossanda, Magri e tutta l'area del «Manifesto» hanno potuto rivendicare in tutta onestà la primogenitura della critica nei confronti dell'Unione Sovietica e dei suoi satelliti. Certo, Massimo Cacciari, dimettendosi dal comitato editoriale di «Rinascita» con Giacomo Marramao, Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co, aveva condotto la riflessione sul socialismo reale e sulla sua vicenda storica alla conclusioni più estreme e pertinenti. Ci sono guerre, aveva scritto Cacciati nella sua lettera ad Asor Rosa, e alla fine vinti e vincitori. Questa guerra «è finita con la sconfitta totale del movimento comunista. Chiamarsene fuori è patetico». Il Pci ormai da anni «si è trasformato in momento ( ... ) di blocco del sistema politico». Si sopportano tutt'ora i danni prodotti dalla «idiozia comunista nel volersi proporre come 'asse', 'sacra' tradizione, quando il re è nudo fino alle ossa da quindici anni almeno». Ma C acciari costituisce in tutto e per tutto un'eccezione. La media della classe culturale comunista, appena si tocca il vivo delle questioni, sembra inclinare piuttosto verso un'ostinata difesa dei sogni e delle mitologie che hanno come sfondo il comunismo, quel comunismo per lo meno come «orizzonte» o come «tendenza» a cui allude il più carismatico dei refrattari, Pietro Ingrao. A toccare in modo sacrilego il feticcio dell'utopia, a dire che stanno continuando a praticare una falsificazione, i vecchi ragazzi intoccabili della sinistra scattano di ribellione e di indignazione. Franco Fortini, per la violenza retorica, è un capofila di questa pattuglia. Ma fa parte del tono medio anche del comunismo via via più desencantado l'incapacità di rinunciare al sogno ad occhi aperti di una società progettata sulla concezione totalizzante del riscatto. D'accordo, il socialismo leninista si è sgretolato con tutte le sue menzognere promesse: eppure, come si fa a rinunciare all'idea di una salvezza collettiva, oltre il mercato, oltre la mercificazione, oltre l'anonimato del denaro? La difesa oggettiva dell'utopia calata dall'alto, attraverso la considerazione per la verità piuttosto ovvia che le democrazie liberali «non hanno risolto i problemi», non costituisce semplicemente il riflesso condizionato di una condizione individuale messa in crisi dal crollo dell'ideologia; è più verosimile come ipotesi che attraverso un'oscura e tenace resistenza al riconoscimento dell'errore, e quindi al cambiamento, si esprima per molti aspetti la difesa corporativa di un'intera categoria socio-culturale, dei suoi fondamenti di identità condivisa. A partire dai primi anni del dopoguerra, infatti, ha preso corpo nel panorama culturale italiano una specie di società eletta, divenuta in breve ampiamente maggioritaria nel suo campo, che è riuscita ad appropriarsi in larga misura delle leve della comunicazione e della trasmissione del saperè. In tal modo, l'intellighenzia di sinistra ha potuto conquistarsi una sorta di monopolio della verità e rendersene interprete di fronte al paese. Al di fuori dello stereotipo vidimato da sinistra esisteva solo l'errore, se non addirittura l'indecenza, la m alafede, la disonestà. Per decenni, un ceto in sé minuscolo, composto per lo più da famiglie e piccole compagini strettamente intrecciate e animate da comuni frequentazioni, ha preteso di imporre alla collettività italiana i suoi giudizi sulla cultura, su ciò che era giusto, sulle posizioni da prendere, orientando il gusto, gli stili di vita, le valutazioni politiche, definendo e giudicando gli standard intellettuali sul metro delle appartenenze. Questo «pensiero dominante» si è trasmesso per osmosi naturale, attraverso le case editrici e l'università, alle tradizionali fasce intellettuali non accademiche (insegnanti, giornalisti ecc.) creando una realtà sociale chiusa nel cerchio magico delle proprie frustrazioni, intensamente sicura della propria identità, della giustezza delle proprie posizioni e dell'inevitabile erroneità, se non peggio, di chi pensava in modo diverso rispetto alle conformistiche certezze «critiche» di massa. 4. Il peccato originale dell'intellettualità italiana è probabilmente insito in una cultura sostanzialmente elitaria, di fatto aristocratica: quella cultura italiana davvero egemone, composta da pochissime «famiglie», da reti parentali e amicizie, incredibilmente endogamica. Al cui interno riuscivano a convivere alcuni degli amici e dei collaboratori del «Mondo» di Pannunzio e i marxisti «illuminati» di buona educazione; ex azionisti e intellettuali snobisticamente vicini al Pci; gente di teatro, cinema, editoria, giornalismo che intesseva un fittissimo scambio provinciale di favori, recensioni e prefazioni, e poteva emanare approvazioni e scomuniche. Il cemento di questa società di ottimati era l' autoattribuzione di superiorità culturale e di eleganza morale, senza che simili doti si traducessero mai nello statuto giudicabile ( «contendibile», direbbero gli economisti) di una possibile classe dirigente. Sarebbe di qualche interesse cercare di capire se fu proprio nel nome di un condiviso stile oligarchico che all'interno di questo piccolo ceto poterono convivere tradizioni di pensiero così intrinsecamente conflittuali come quella liberale e quella marxista; e anche domandarsi se la convivenza non divenne in certi casi collusiva subalternità da parte dei liberaldemocratici più arrendevoli. Si può riconoscere senza difficoltà che «dittatura» di sinistra non vi fu, all'interno della sapientissima consorteria intellettuale del nostro paese. Ma resta da spiegare tuttavia come è accaduto che il senso comune della cultura «di sinistra» si sia diffuso egemonicamente nella società italiana fino a diventare il sigillo distintivo delle qualità più alte, il decoro, l'onestà, l'intelligenza. Perché ha conquistato inviati speciali e redattori di case editrici, professori di scuola media e loro allievi, precari dell'università e studenti, colletti blu e colletti bianchi. Per quale ragione insomma la modernizzazione dei ceti medi, cioè il loro adeguamento ai modelli tipici delle democrazie capitalistiche avanzate, è avvenuto sotto il segno di un fortissimo connotato ideologico di sinistra, in opposizione a tutto ciò che odorava di mercato, profitto, efficienza competitiva, riconoscimento e valorizzazione delle risorse individuali. E fino a che punto è giustificato il sospetto che un bilancio con il passato sia insostenibile non perché mette in discussione la storia, bensì in quanto disgrega il complesso di convenzioni su cui è stato costruito uno status. 5. La richiesta di «chiedere scusa», che molti hanno rivolto al Pci durante il 1989, costituiva semplicemente una polizza d'assicurazione contro un rischio molto temuto: e cioè che passata la bufera, sottoposto a maquillage il simbolo del partito, riorganizzata una carta ideologica finalmente presentabile, i vecchi tutori della verità alla prima occasione riprendessero a strillare dai loro pulpiti. Il pensiero che i soliti noti possano pronunciare a un certo punto la fatidica frase «noi l'avevamo sempre detto, avevamo ragione» può lasciare in effetti leggermente atterriti. Eppure qualcosa di simile si è già verificato. Se si rileggono le centinaia di pagine che Achille Occhetto ha prodotto nei dodici mesi della svolta, è pressoché impossibile sfuggire alla sensazione che con quelle frasi e quelle espressioni il segretario del Pci stia nuovamente salendo sulla cattedra: ammonisce, indica la strada, fa lezione. Per la verità ha abbandonato tutto il lessico marxista (al congresso straordinario del marzo 1990, a Bologna, la sua relazione introduttiva non cita mai il filosofo di Treviri), ma non certo l'intenzione pedagogica nei confronti del mondo e dell'opinione pubblica. La dichiarazione d'intenti proposta alla discussione di partito in occasione del cambiamento del nome e del simbolo contiene brani in questo senso assai significativi: il «Partito democratico della sinistra», nel linguaggio del segretario, si propone «di indicare la possibilità della salvezza del genere umano, indicando la via che conduce alla costruzione di un nuovo ordine economico e sociale». Nientemeno. E' la vecchia ubbia secondo cui senza progettualità non si può vivere: accontentarsi di migliorare il sistema capitalista attraverso riforme adeguate risulta insufficiente rispetto alle enormi aspettative di cui ci si è nutriti. Così come per Antonio Bassolino non si può rinunciare all'idea di «superare» il capitalismo, e per Ingrao deve persistere un orizzonte che contenga ribollenti o surgelati elementi di comunismo, anche per Occhetto il partito post-comunista non può rinunciare al compito di indicare e costruire un «nuovo ordine». Appunto per questo il riformismo deve essere inevitabilmente «forte», le trasformazioni della società radicali: cacciato dalla porta della storia, il Progetto rientra per la finestra. «La stessa ipotesi socialdemocratica - ha scritto Occhetto nella Dichiarazione d'intenti - della mera gestione del potere governativo in funzione di una più equa redistribuzione si trova oggi di fronte a nodi strutturali di dimensione sovranazionale e di tale portata da rendere impraticabili strategie di 'riformismo nazionale'». Ecco perché è necessario indicare la prospettiva del «governo mondiale», secondo quella iperbolica prospettiva cara al Pci, secondo la quale nessun problema può essere affrontato e nessuna soluzione adottata qui e ora, ma è più opportuno rinviare sempre e comunque a istanze superiori, a organismi e consessi possibilmente planetari. Com'è noto, agli intellettuali i progetti piacciono a dismisura, probabilmente perché ambiscono alla dimensione entusiasmante dell'ideale e non partecipano delle imperfezioni e della caducità del concreto. E in secondo luogo perché l'elaborazione del progetto consente di proiettare nel futuro in conti non fatti con il passato. 6. Se c'era un compito con cui l'intellighenzia vicina al Pci doveva misurarsi, era la stesura di un giudizio storico adeguato sui settant'anni di comunismo dalla Rivoluzione d'Ottobre ad appena ieri. Non si direbbe di aver sentito voci particolarmente significative sul tema. E pazienza per il segretario, che nei documenti ufficiali di partito deve limitarsi a stendere un referto burocratico, che sterilizza il fallimento delittuoso nell'Europa dell'Est in brevi analisi premurose di concludere che la colpa maggiore del socialismo reale è consistita nell'aver stuprato gli ideali purissimi della sinistra: «Le diverse forme di collettivismo burocratico di Stato hanno finito così per negare gli ideali del socialismo e per arrecare un danno inestimabile a tutte le forze che vogliono, come noi, mantenere aperta la via al rinnovamento della società». In realtà la questione che si pone oggi in tutta Europa, e quindi a maggiore ragione in Italia, date le dimensioni anomale del partito comunista locale, non riguarda soltanto l'eventuale risarcimento di danni morali che le sinistre potrebbero chiedere ai partiti comunisti dell'Europa orientale per avere essi mortificato le nobili ragioni della sinistra. Oggi, dopo la sensazionale fine della guerra civile europea, si fa strada un giudizio storico, politico e soprattutto morale che ha come unica fondamentale conclusione l'equiparazione del nazismo e del comunismo. Ciò non vuoi dire, ha spiegato Ernesto Galli della Loggia, «che fascismo e comunismo siano stati la stessa cosa. Vuoi dire che entrambi hanno rappresentato una minaccia egualmente grave per la libertà dei popoli d'Europa, che entrambi si inserivano entro concezioni dell'uomo e della società egualmente ostili ed inconciliabili rispetto a quelle della democrazia liberale. E che dunque, senza un eguale ripudio dell'uno e dell'altro, sull'esempio di quanto avvenuto da almeno mezzo secolo nell'universo ideologico anglosassone, non vi può essere alcun approdo storicamente stabile ad un regime politico che garantisca un livello decente di libertà». Non si può voltare pagina e promettere che il prossimo capitolo sarà migliore. Se c'è un aspetto che Occhetto, i professorini del Sì, gli intellettuali favorevoli alla Cosa, harmo voluto fermamente dimenticare è che le identità non si fabbricano con gli occhi speranzosamente rivolti al futuro e alle sue promesse, ma sono determinate obbligatoriamente dal passato. L'angelo di Walter Benjamin dovrebbe pure avere insegnato qualcosa. E nel passato del movimento comunista, come si è potuto osservare dopo l'apertura degli archivi all'Est, c'è di che coinvolgere anche il Pci, nonostante le strenue difese della sua peculiarità tutta italiana. Sino alla fine di gennaio, quando entrerà nel vivo il congresso del partito, non sapremo se il Pci sarà riuscito a trasformarsi effettivamente nell'annunciato «Partito democratico della sinistra». Ma in ogni caso sembra di poter notare che finora il prezzo pagato è stato eccessivamente basso. Troppe volte Occhetto, i suoi alleati e i suoi avversari interni hanno potuto allineare nei loro pensosi ragionamenti la bancarotta del totalitarismo sovietico con i problemi strutturali e congiunturali delle socialdemocrazie e delle liberaldemocrazie occidentali; troppe volte si è assistito alla declamazione di idealità future sottratte a qualsiasi vincolo di verificabilità. Sarebbe ora di ricordare, ormai senza nessuna asprezza, che non c'è metamorfosi senza una profonda catarsi.
Il Mulino, 01-02 1991
Che ne sarà della Democrazia cristiana
Perché parlare della Dc? Affrontare oggi la questione democristiana appare un compito vagamente smisurato rispetto agli strumenti analitici a cui ci si vorrebbe affidare. «In tempi in cui dalla politica non ci si aspetta niente di buono, Andreotti corrisponde bene all'immagine di uomo del tempo», aveva detto Italo Calvino: e il giudizio risultava forse più spietato per ciò che riguardava la politica che per la definizione dell'attuale capo del governo. Se dalla politica non ci si aspetta nulla, che cosa ci si aspetterà dal maggiore partito italiano? Per ragioni forse connaturate fisiologicamente all'evoluzione delle grandi formazioni politiche, la Dc si è trasformata progressivamente, anehe agli occhi di molti cittadini a essa non ostili pregiudizialmente, in un oggetto dai contorni troppo indistinti per risultare ragionevolmente giudicabile. La sua evidente sovrap posizione su ampie fasce della società italiana così come il suo profondo intreccio con il sistema politico e istituzionale sembrano impedire di fatto un'indagine puntuale su singoli temi e su rubriche limitate del «discorso politico» che essa rivolge al paese; esaminare dall'interno la situazione sul metro di un classico esame dell'organizzazione di partito si manifesta a priori come un approccio insoddisfacente, come se qualcuno volesse proporre una ricerca sul rendimento economico della Fiat attraverso l'identikit della strut tura aziendale vista come un'articolazione di capireparto e di personale tecnico ai vari livelli. Dal basso, lascia perplessi ogni eventuale tentativo di fotografare il partito dal lato della partecipazione, prendendo in considerazio ne indicatori come il numero degli iscritti o la loro suddivisione in quota parte tra le varie aree democristiane; dall'alto, non sembra più il caso nemmeno di ricorrere al tradizionale - e in fondo astratto - schema «poliarchico» che interpretava la composizione per correnti come l'esplicazione in blocchi di potere di realtà clientelari e fasce corporative «razionalizzate» nell'ampio spettro politico della struttura dirigente. A scanso di equivoci, sottolineo che ho parlato fin dall'inizio di «questione» democristiana per una ragione semplicissima e fondamentale: e cioè che una questione democristiana esiste ed è centrale nella vita italiana contempo ranea e per le prospettive del nostro paese. È, in sostanza, la questione di un partito autenticamente «pigliatutto», con un bilancio in attivo per un miliardo e 896 milioni, che raccoglie circa un terzo dell'elettorato, che fa da perno all'attuale alleanza di governo, che si ritrova dopo l'annus mirabilis 1989 e la svolta del Pci-Pds senza la tradizionale rendita di posizione anticomunista, che promette e non di rado mantiene (malgrado una costante propensione ai bizantinismi, come si è visto durante la crisi del Golfo) una certa affidabilità in politica estera più o meno nello stesso modo in cui promette e per ora ha mantenuto, in politica interna, di non produrre l'affondamento definitivo della nave Italia. Il modello democristiano: «Prendere o lasciare» Ci si potrebbe accontentare di questi esili dati di fatto, se non fosse che gli obiettivi e le responsabilità del primo partito di governo fuoriescono dalle rotte della navigazione a vista, o come suggerisce Ciriaco De Mita, dalle esigenze vischiose, attaccaticce del «tirare a campare». O perlomeno: per galateo si è ancora affezionati alla vecchia idea che i partiti, e quindi a maggiore ragione la Dc in quanto incarnazione in forma di partito dell'attitudine a governare, debbano possedere alcune idee-guida relative al modo in cui esercitare il mandato conferito dai cittadini elettori. Non si sussurra nemmeno più una parola impegnativa come progettualità, ma ci si riferisce almeno per convenzione a una serie limitata di finalità, che non siano del tutto slegate né dalla necessità di raccogliere il consenso dei cittadini né da alcuni semplici obiettivi di miglioramento della condizione del paese. Uno spirito quindi ben educato potrebbe chiedere con le buone maniere e senza intenti provocatori ai responsabili della Democrazia cristiana se hanno qualche nozione non eccessivamente imprecisa, per dire, sul risanamento del Mezzogiorno, sulla riformabilità del sistema tributario, della pubblica amministrazione, della sanità. A cui farebbe da contraltare, sempre sul piano dei fondamentali, una domanda su quale tipo di «prodotto politico» intendono offrire all'opinione pubblica, all'elettorato giovanile soprattutto, sempre beninteso che il prodot to non sia costituito dal piccolo cabotaggio volto a conservare un consenso di carattere più che altro inerziale. Ma anche quest'ultima è una via poco promettente. Il catalogo dei problemi italiani è talmente ampio e ricco, dal livello elevatissimo del debito pubblico agli standard piuttosto bassi di funzionamento dei servizi pubblici, che domandare una risposta alla classe politica costituisce un esercizio infruttuoso. Si rischia di ottenere una involontaria quanto meccanica risposta ideologica, la riemersione pavloviana del riflesso condizionato dovuto al fatto che i partiti italiani non sono stati in competizione sul come gestire il paese, e quindi disponibili a sottoporre al giudizio collettivo le misure concrete da elaborare per reagire ai problemi della realtà effettuale, ma sono stati invece rivali sul piano dello statuto fondamentale, dei pregiudizi e delle idealità costitutive. A partire dal 18 aprile 1948, in genere la Dc si è preoccupata di offrire agli italiani, e di farglielo sapere, un «orizzonte di libertà», o qualcosa di simile. Era un intento altamente apprezzabile. Ma dopo i primissimi anni di governo, in cui vennero costruite le intelaiature dell'Italia contemporanea, tutte le programmazioni divennero in breve altrettante occasioni perdute, sufficienti tutt'al più per alimentare i rimpianti degli alleati di centrosinistra; e i programmi di governo una serie di schede e indicazioni largamente svincolate dalla loro applicazione pratica e dalla valutazione della loro efficacia se non al momento delle verifiche e dei rimpasti, cioè della ricontrattazione degli accordi di governo. È arduo insomma portare la Dc sul terreno della discussione approfondita dei risultati dell'attività di governo, a meno che non si accetti il «prendere o lasciare» che riguarda il sistema italiano nella sua totalità. Questo tuttavia non è privo di conseguenze sull'identità stessa del partito: se si accetta la prospet tiva, suggerita talvolta esplicitamente anche da molti dirigenti democristiani di spicco, che l'azione di governo della Dc avviene entro i confini di uno spazio generico, nel quale si assiste di solito a un disinteresse di fondo per i termini concreti e ultimativi del governare, l'immagine dell'amministrazione democri stiana difficilmente potrà sfuggire a quella di un laissez-faire incessantemente mediato, teso soprattutto a garantire una continuità media delle condizioni del paese, ma con scarse indicazioni sulle priorità effettive, e quindi suscettibile di giudizi anche perentori sull'inadeguatezza della percezione dei problemi reali. Un osservatore che adottasse l'ottica dell'ingenuità potrebbe chiedersi qual è l'atteggiamento democristiano di fronte ai contenuti del governo, alle scelte e alle decisioni, e ricavarne per serie storica che la via Dc alla gestione del paese consiste nel subordinare ogni provvedimento a una concezione squisitamente politica (anche se nei termini di politique politicienne), in cui è prevalente la predeterminazione del consenso. Ciò stempera ogni soluzione nella contrat tazione, e, una volta che sia tramontata la posizione antisistema del suo massimo antagonista, rende manifesta la povertà culturale della Dc: un partito che si limita ad assecondare variamente le richieste di benessere del maggior numero possibile di elettori, le domande di sgravi fiscali della Confindustria e di aumento delle pensioni d'annata, tagliando la testa e la coda di ogni rivendicazione, non sembra candidarsi con prepotenza per governare nei prossimi anni la transizione all'Europa, al mondo, al Duemila. Potrà forse rivendicare una più consumata saggezza paternalistica rispetto alle velleità dei concorrenti politici, una consuetudine e un controllo del sottogoverno che altri non possiedono, ma si ritroverà scoperta, priva di punti di vista, non appena le scelte si faranno stringenti. Il partito delle correntzi cioè l'alternativa fatta in casa Allora non sembra tanto casuale che anche la configurazione del partito abbia perso gran parte delle differenziazioni a cui ci si era abituati (in realtà le distinzioni peqnangono, si acuiscono, proliferano: ma se ciò è vero sul piano individuale o di piccolo gruppo, e quando l'identità di corrente viene evocata nell'ambito di trattative negoziali o spartitorie, non risulta altrettanto vero quando gli schieramenti interni democristiani si definiscono coalizzandosi in funzione dell'esercizio della leadership del partito). In questo senso, le anime della Dc, che un tempo venivano date per numerose, oggi appaiono ridotte al minimo, accorpate in schieramenti non particolarmente differenziabili. Oltre tutto, se «il valore delle correnti - come ha scritto un insider come Marco Follini (L'arcipelago democristiano, Laterza, 1990) - ... era nella loro capacità di accrescere, diffondere, irradiare la presenza dei partiti in una democrazia che affidava ad essi, e soltanto ad essi, la funzione di collegamento tra la società e le istituzioni», nell'epoca di un giudizio popolare senza appello contro la partitocrazia, tutte le differenze, di fatto, evaporano. I commentatori provano ancora a distinguere fra il Grande Centro doroteo (o post-doroteo) e la sinistra. Ma chi è in grado di definire la differenza, poniamo, fra Gava e De Mita sulla base di solide opzioni governative? «Credo che le correnti non esistano più come tali», ha confessato De Mita: «Probabilmente sono rimasti i capicorrente, e bisognerebbe risolvere questa contraddizione». Difatti, l'idiosincrasia fra il centro e la sinistra Dc coinvolge quasi esclusivamente da un lato problemi di leadership interna, com'è naturale in qualsiasi organizza zione complessa in cui si svolgono lotte di potere, e dall'altro le questioni ormai vagamente irritanti del rapporto con gli altri due grandi partiti, il Psi e il Pds. Non è un segreto che la fortuna della Democrazia cristiana è dipesa a lungo dalla sua capacità di presentarsi, in un sistema politico bloccato dalla inutilizzabilità del Pci, come continuamente alternativa a se stessa. La rotazione fra i cavalli di razza, i patteggiamenti fra le correnti, le rotture e i riequilibri congressuali garantivano l'incessante rimessa in cartellone di uno spettacolo trasformistico che sembrava fungere in modo abbastanza efficace da surrogato di un modello di alternanza autentica. Questo articolatissimo sistema di potere e di rappresentanza permetteva da un lato di metabolizzare tutte le spinte centrifughe, e dall'altro di scaricare all'esterno, specialmente sugli alleati di governo, i propri conflitti e le proprie tensioni. La rottura di questo schema dell'alternativa per partenogenesi è dipesa soprattutto dall'irruzione di Bettino Craxi sulla poltrona di primo ministro. Il decisionismo craxiano, l'enfasi del segretario socialista sulla governabilità (che, non va dimenticato, nella percezione collettiva sono andati in parallelo con uno dei migliori periodi della vicenda nazionale) hanno determinato almeno due effetti: in primo luogo hanno dimostrato all'immaginario di massa che la scienza del governo non era infusa per sanzione divina nel corpo democristiano, e inoltre hanno posto allo scoperto la debolezza delle strategie consociative su cui la Dc aveva costruito la propria posizione nel nostro sistema politico e che consisteva nel considerare sostituibile - e quindi ricattabile - ogni alleato. Approfittando del proprio ruolo decisivo nella costituzione di ogni alleanza di governo, il Partito socialista ha potuto sviluppare una rendita che per lunghi tratti ha dato risultati elevatissimi. Contrattando la propria presenza nel pentapartito, grazie al proprio ruolo di partito di governo con in tasca la chiave dell'alternativa, il Psi poteva riscuotere dividendi inusitati sul piano della politica applicata. Ma soprattutto poteva esercitare un'originale ed efficace funzione di blocco verso ogni prospettiva tesa a limitarne il potere. La tradizionale propensione democristiana a risolvere per via consociativa ciò che sarebbe stato precluso dagli accordi espliciti di coalizione, e cioè ad ammiccare al Pci secondo convenienza, veniva tagliata di netto dai veti socialisti. La celebre «politica dei due forni», il capolavoro pragmatico e tattico della Dc andreottiana, consistente nell'uso e nella strumentalizzazione dei comunisti per ammorbidire i propri alleati, perdeva ad un tratto moltissimo del suo potenziale di stabilizzazione. Inoltre la «corsa al centro» aperta da Craxi poneva il Psi a diretto contatto con l'elettorato democristiano «laico» e intensificava il quoziente di concorrenzia lità dei socialisti rispetto alla Dc. Come rispondere a Craxi La risposta democristiana al partner rivale socialista si è sviluppata in due tempi e in due modi. Nel primo caso ha assunto la figura e i tratti politici di Ciriaco De Mita, cioè della sinistra democristiana. «Intellettuale della Magna Grecia», secondo la nota definizione di Gianni Agnelli, come segretario democristiano De Mita non appariva affatto un uomo politico banale. Aveva alcune convinzioni assolutamente rispettabili: che occorreva risolvere l'ano malia italiana di un sistema politico privo éli alternanza; che l'intero apparato pubblico e istituzionale del nostro paese risentiva i danni della mancata concorrenza fra raggruppamenti politici tutti legittimati a competere per assumere la responsabilità del governo. Tuttavia dal teorema dell'alternanza discendevano anche alcuni corollari per qualcuno meno nobili o apprezzabili. Le ipotesi demitiane di riforma elettorale, mutuate dalla riflessione di Roberto Ruffilli, presentavano il grave difetto di risultare insopportabili a Craxi, in quanto la costituzione di due grandi schieramenti alternativi sembrava strut turata apposta per azzerare le quote della rendita socialista. La stessa ideolo gia, se si può chiamare così, che animava la riforma di De Mita era soffusa di un visibile alone non propriamente filosocialista: in ogni caso la prefigurazione di due grandi forze parallele e non disomogenee, entrambe «popolari», entrambe attente alle esigenze e alle richieste di larghe fasce di cittadini raccolte da due costellazioni di partiti «di massa», appariva in flagrante e stridente attrito quanto meno con la fisionomia di leader nazionale, sfiorato da qualche evocazione carismatica, attraverso la quale si era imposta la «governabilità» craxiana. La parentesi del «governo di programma» con a capo De Mita, ambiziosa quanto si vuole sul piano politico generale, lasciava in realtà irrisolta la questione strategica del rapporto fra Dc e Psi. Ed era difficile pensare che proprio nella fase in cui il partito di Craxi era reduce dall'aver fatto il pieno alle politiche dell'87 intonando il leitmotiv della governabilità (erodendo quindi in misura sostanziale l'egemonia democristiana sull'amministrazione e introducendo di riflesso nel pentapartito una intensa carica di instabilità), la Dc accettasse passivamente la concorrenza socialista nell'occupazione del «centro» politico. La seconda risposta democristiana a Craxi assume le spoglie del Caf. Già a partire dalle elezioni politiche del 1987 non era difficile prevedere che se esiste uno «spirito democristiano» non avrebbe mancato di dare i suoi frutti. Lo spirito democristiano, la cui esistenza è deducibile dal comportamento del partito da De Gasperi in poi, si è sempre esplicato in atteggiamenti orientati alla cooptazione di alleati. In estrema sintesi, la vicenda democristiana nel dopoguerra è caratterizzata almeno da tre scelte strategiche di una certa esemplarità: dopo la rottura del patto «costituente» che comprendeva anche il Pci ecco la costituzione dei governi centristi con il coinvolgimento dei partiti laici; alla fine degli anni Cinquanta, quando sulla scia del miracolo economico appare opportuno integrare nello stato democratico le componenti operaie, si sviluppa il modello del centrosinistra; durante la stagione del terrorismo, e in una fase di pesantissima e opprimente crisi socio-economica, Moro definisce la solidarietà nazionale con l'apertura al Pci di Enrico Berlinguer. Si tratta di tre soluzioni che potranno essere discusse sul piano dei metodi, dei contenuti, delle finalità autentiche che le muovevano. Ma alla fine sembra impossibile attribuirle semplicemente a un disegno strumentale. O meglio: esistono certamente connotazioni strumentali nella distribuzione pilotata del potere, nello sterilizzare oppositori potenziali ed effettivi inducendoli a sporcarsi le mani attraverso l'associazione alle pratiche di governo. Ma è propagandistico ignorare un aspetto di lealtà democratica da parte della Dc, intensamente sentito dentro il partito: in ogni caso, per essere brutali, nella scelta fra il monopolio e la spartizione, la propensione democristiana ha sempre inclinato verso quest'ultima. A prendere per buono questo pur semplicistico modello interpretativo, risultava facile prevedere dopo le politiche del 1987 che le teorizzazioni di De Mita e il suo radicalismo non costituissero lo sfondo ideale per giocare in modo adeguato la partita con un Psi ancora in fase di crescita elettorale e in piena «corsa al centro». Oltretutto, costituisce una regolarità riscontrabile del comportamento democristiano che nelle occasioni che contano il partito ha schierato come registi non tanto gli atipici di talento, i profeti o i guastatori, quanto le personalità più rappresentative, i democristiani a tuttotondo. A guardare la realtà senza gli occhiali dell'illusione, De Mita si dimostrava come un leader troppo debole per controllare gli inevitabili attriti della nuova situazione. Debole perché troppo schierato, troppo ideologico e quindi prevedibile, prigioniero dei suoi stessi schemi politici. È anche per questa ragione che De Mita entra da segretario nell'ultimo congresso Dc e ne esce gravemente e platealmente sconfitto. Il sacrificio congressuale di De Mita, ordito dai neo-dorotei in nome del realismo politico, non costituiva soltanto l'approdo di un colpo di mano interno. Era piuttosto un segnale squillante, rivolto al Psi, che d'ora in poi il match per l'egemonia politica si sarebbe giocato su un campo completamente diverso: non più sui programmi, non tanto sulle alte progettazioni, bensì sulla ridiscussione di un accordo tutto politico. Governo e non governo La Democrazia cristiana degli anni Novanta comincia a organizzarsi dunque alla fine del decennio scorso intorno alla figura di Giulio Andreotti e di Arnaldo Forlani. Andreotti è uno specialista del giorno per giorno, capace di gestire qualunque situazione, dotato di una spregiudicatezza che per i detrattori è soltanto sintomo di cinismo, per i suoi «non avversari» tende sempre più insidiosamente ad assomigliare alla dote di uno statista. Sfoggia di solito un sovrano minimalismo: per lui, il sangue, il sudore e le lacrime sono sempre impastati con un tratto di scetticismo tiberina. D'altra parte, anche Calvino aveva corretto l'aspro giudizio che abbiamo riportato all'inizio: «Andreotti ha un fondo di cinismo che è certo un limite: ma è meglio il cinismo del fanatismo». Come ha scritto Miriam Mafai, il suo carattere peculiare «è la capacità di volgere a suo vantaggio situazioni e cose, si tratti della televisione come del centro-sinistra, dell'avanzata dei comunisti o della loro crisi, delle ambizioni di Craxi o di Spadolini». Arnaldo Forlani, per restare nel folklore, sembra la reincarnazione del manzoniano conte zio: «Troncare, sopire...». Ogni conflitto all'interno della coalizione di pentapartito è l'occasione per dispiegare una indelebile vocazione al mediare. Se durante l'era De Mita la rivalità con il Psi costituiva una intonazione di fondo, quasi un'eco interna all'alleanza di governo, e quindi il rapporto fra Dc e socialisti si svolgeva attraverso una conflittualità senza requie, con l'avvento del binomio Andreotti-Forlani il leader del Psi si trova davanti un muro di gomma, apparentemente in grado di assorbire tutte le spinte, di bloccare sul nascere ogni contropiede, di smussare tutti gli angoli. Era lecito prevedere tuttavia che questa situazione non contenesse in se stessa la ricetta di una bonaccia politica permanente. Eliminato o almeno fortemente attenuato un fattore di conflittualità fuori dal partito (grazie a una specie di Jalta all'italiana, un trattato globale che rinegoziava tutte le posizioni di potere) ci si poteva ragionevolmente attendere infatti che elementi di squilibrio e di vera e propria rottura sarebbero riaffiorati dentro la Dc. Andreotti e Forlani potevano riuscire nell'impresa di vincere le elezioni comunali a Roma, grazie anche all'attivismo senza quartiere di Comunione e liberazione, trascinando un «signor Nessuno» come Enrico Garaci al vertice delle preferenze per poi sacrificarlo senza troppi rimpianti a favore del candidato socialista Franco Carrara. Ma comunque non potevano illudersi che il patto con il Psi lasciasse silenziosa e passiva la sinistra. Negli ultimi mesi, l'esempio maggiormente significativo delle frustrazioni della pattuglia di De Mita è venuto nel luglio 1990 con la discussione parlamentare sulla cosiddetta legge «anti-spot», cioè la proposta di regolazione antimonopolistica dell'informazione elaborata dal ministro repubblicano Oscar Mammì. Il dibattito su questa normativa costituirebbe un eccellente caso di studio per mettere a fuoco i temi del ritardo legislativo, di una democrazia lobbistica, dell'interdipendenza del settore economico con i processi di articolazione politica e partitica. Rappresenta anche un'esemplifi cazione piuttosto straordinaria innanzitutto della capacità andreottiana di ridurre l'intensità del contenzioso politico fra i partiti attraverso il patteggiamento sulle misure di legge (e di conseguenza sugli impatti che esse hanno nei confronti della realtà economica: al momento opportuno, sembra confermarsi la vecchia propensione democristiana a ritenere il dato economico manipola bile in nome del consenso politico e delle relative necessità di mediazione fra i partiti). Ma è soprattutto la testimonianza che la Dc di Andreotti non significa semplicemente «non governo». Giulio Andreotti governa, altroché. Se ne sono avute diverse prove, ma almeno due sono state piuttosto piuttosto spettacolari: la prima proprio durante la battaglia parlamentare sulla legge Mammì, quando l'attrito fra demitiani e socialisti ha portato alle dimissioni di cinque ministri della sinistra democristiana. Nel giro di un pomeriggio Andreotti ha sostituito i secessionisti, estraendo dai propri miracolistici cassetti i nominativi dei sostituti e rimpastando il governo in pochissime ore. La seconda prestazione si è registrata con la relazione al senato 1'8 novembre 1990 dopo l'esplodere del «caso Gladio»: un discorso di algida rivendicazione del ruolo «professionale» di governo esercitato dalla Dc nell'ambito di relazioni e alleanze internazionali fissate nel clima della guerra fredda, punteggiato da insidiosi segnali rivolti alle file comuniste a proposito dì ciò che contengono gli archivi dei paesi dell'ex socialismo reale. Si può valutare in molti modi tanto la rapinosa fulmineità dimostrata dal capo del governo in una situazione che in altri momenti avrebbe potuto dare luogo a consultazioni fra i partiti e le correnti, a mediazioni e a trattative estenuanti, così come il gelido messaggio che le regole della politica non sopportano né dilettantismi né piazzate. E ci sono pochi dubbi che alla consumata abilità di gestire le crisi all'interno del pentapartito e nei confronti dell'opposizione corrisponde una prassi governativa, in particolare per ciò che riguarda la politica economica, che non appare ispirata da direttrici sicura mente e coerentemente orientate vèrso il risanamento del paese. È difficile non notare la schizofrenia di un comportamento che sul fronte interno, per ciò che riguarda soprattutto il deficit pubblico, tende a riprodurre una politica da anni Sessanta, riducendosi a misure tampone e non invece alla correzione dei meccanismi che generano i buchi nei conti dello stato; mentre all'esterno, sull'orizzonte europeo, adotta misure che comportano la fine delle tradizionali manovre di adeguamento del tasso di cambio, cioè di svalutazione, che avevano sempre costituito la risorsa estrema per restituire all'economia italiana una competitività continuamente a rischio. Questione cattolica, questioni cattoliche Ma Andreotti non è la Dc, o perlomeno non è tutta la Dc. Se l'obiettivo democristiano consistesse semplicemente nel durare, è probabile che fuori dell'andreottismo non esisterebbe una soluzione migliore per garantire al partito appunto la certezza di una durata. Tanto più che in molte occasioni si è avuta l'impressione che oltre la tattica quotidiana si delineassero anche gli indizi di una strategia andreottiana di lungo periodo: fondata su un giudizio, inespresso quanto crudamente pessimistico, sul sistema politico italiano e sulle sue possibilità di uscire dalla crisi che lo ha investito. Si spiegherebbe forse sulla stregua dello scetticismo di questa valutazione l'europeismo di Andreotti: un après mai l'Europe, che nella sua visione scettica potrebbe risparmiare agli italiani, oltre che il diluvio, l'improba necessità di provvedere da se stessi a governarsi. Un sentimento obiettivamente vicino alla coralità di un paese, come ha scritto Saverio Vertone, in cui «serpeggia la strana speranza che la total immersion nell'Europa possa liberare i cittadini dalla farsa delle Poste, delle Usi e delle Ferrovie, senza costringerli al dramma di dover pagare le tasse». Ciò non toglie che un grande partito, proprio perché è anche un agglomerato di correnti ognuna dotata di propri statuti etico-politici, non possa ridursi all'amministrazione quotidiana. Il cattolicesimo liberale non può accettare che la Dc diventi in tutto e per tutto una sorta di esteso comitato d'affari per assicurare tutt'al più la gestione day by day per mano sottogovernativa. In modo analogo, quelli che sono sempre stati i maggiori supporter di Andreotti, i cattolici intransigenti di Comunione e liberazione e del Movimento popolare, esprimeranno in futuro, come è già accaduto con il dérapage pacifista durante la guerra del Golfo, richieste che potrebbero determinare pesanti contraccolpi dentro il partito. C'è la sensazione che nel futuro alcune questioni di fondo, relative al radicamento della Dc nel paese, e soprattutto al complesso rapporto di interazione fra il partito e i blocchi di società civile a esso collegati, emergano con una certa forza: perlomeno fino al punto di meritare una riflessione. Che poi questa riflessione coinvolga un tema virtualmente drammatico come il mutamento in senso «moderno» di una realtà politica che è stata ancorata a lungo a organizzazioni e movimenti, come pure a sensibilità, mentalità e valori, che un laico giudicherebbe appartenenti a una fase politico-sociale «pre-moderna», ciò restituisce il rilievo culturale e anche una certa carica di dramma che i dilemmi democristiani assumono nell'ambito dell'attuale società italiana. In prima approssimazione, sembra lecito sostenere che una delle questioni ancora non analizzate completamente riguardi la condizione di un partito che si richiama espressamente alla concezione cristiana dentro una fase di trasformazione sociale che ha ampiamente e profondamente mutato, in termini di secolarizzazione, la nostra società. Estremizzato nei termini più semplici, l'itinerario democristiano dagli anni Sessanta in poi ha portato a definire il ·partito sempre più sul versante della caratterizzazione governativa piuttosto che sul piano dell'espressione confessionale. Al punto che in questo momento la Dc si trova davvero di fronte a una «questione cattolica»? Probabilmente sì. E, quel che agli occhi democristiani deve sembrare più preoccupante, sia a destra sia a sinistra. Cominciamo da sinistra, dove la situazione sembra più logicamente prevedibile. Il cosiddetto «disagio cattolico» era riaffiorato ben prima della crisi del Golfo e della guerra. Vale la pena di ricordare l'esperienza palermitana, il «laboratorio politico» dai tratti marcatamente clerico-populisti, che comun que ha portato la Dc di Leoluca Orlando a un clamoroso successo elettorale alle ultime amministrative. «Il passaggio della sinistra democristiana all'opposizione nel partito è stata accolta con sollievo e con soddisfazione dal mondo cattolico», ha scritto su «MicroMega» padre Bartolomeo Sorge nel marzo del 1990, quando il «paradigma Palermo» s mbrava ancora elaborabile dentro la Dc e comunque suscettibile dell'appoggio di settori della gerarchia cattolica. La fuoruscita dal partito di Orlando, e il successivo lancio della «Rete», potrà apparire un fenomeno politicamente - e domani elettoralmente - marginale, come si sono rivelate marginali e fallimentari in passato altre esperienze di scisma politico dalla Dc (forse ci si può riferire utilmente all'insuccesso del Movimento politico dei lavoratori promosso nel 1972 da Livio Labor). Ma non appare affatto un fenomeno marginale che la Dc andreottiana non abbia potuto metabolizzare l'eresia di Palermo attraverso il gioco negoziale di concessioni e risarcimenti politici in cui è sempre stata maestra. E ancor meno marginale appare la ventata pacifista che ha investito il tradizionale insediamento cattolico del partito. Non tanto perché abbia effettivamente posto le premesse per dividere il partito, quanto perché ha messo in discussione, forse per la prima volta, l'effettiva rappresentatività democristiana del mondo cattolico. Anche l'elettore cattolico medio, quello che non nutre particolari simpatie per le suggestioni di sinistra, si è trovato a dover fare i conti.con una inedita e sostanziale differenza fra le posizioni governative della Dc e quella di consistenti settori della gerarchia e degli ambienti cattolici. È sembrato che alcuni legami si stessero vistosamente allentando. Per una volta, il quietismo naturale della componente cattolica della società italiana è sembrato trovarsi istintivamente più vicino agli appelli alla pace lanciati da sinistra anziché al centro del partito, alle posizioni espresse per mano governativa. Su questo sfondo, assume una caratterizzazione più marcata la deriva di sinistra osservata nelle tante «lobby di Dio», nell'associazionismo, nelle comunità, nei settori del volontariato, nel mondo cattolico giovanile, nel vecchio cattolicesimo «sociale» delle Acli o del sindacato: la trasversalità intrinseca all'enunciato «contro la guerra» rende notevolmente più precario un rapporto che di certo era in crisi già da tempo (perlomeno dal referendum sul divorzio nel 1974), ma che in questo momento sembra tagliare fuori dal gioco soprattutto un giocatore, lo strumento principale che nel corso dell'evoluzione politica italiana era servito per tenere aperto il tavolo rispetto al cattolicesimo sociale, e cioè la sinistra Dc. A destra. Uso questo termine in funzione più che altro topologica, nella consapevolezza che «Il Sabato» e i ragazzi irresistibili di Comunione e liberazione rifiuterebbero - non irragionevolmente - una collocazione conservatrice. Tuttavia sembra sensato rilevare che il rapporto fra il cattolicesimo d'attacco del Movimento popolare e l'apparato democristiano poteva trovare un'integrazione soprattutto in una situazione di fluidità. Fintantoché ci si trovava di fronte a un panorama politico caratterizzato da una sostanziale genericità e asetticità degli obiettivi, sorretto specialmente dalla necessità di assicurare una stabilità politica grazie a un'alleanza dai contenuti non partico larmente impegnativi, il movimentismo di Comunione e liberazione risultava funzionale alle recite del teatrino trasformistico del pentapartito. Formigoni o Cesana erano autorizzati a lanciare slogan anche suggestivi sulla società e lo stato, ad aprire al Psi sotto la copertura di un andreottismo vissuto, ed è inutile che ciò appaia incongruo, come un Erlebnis di tipo carismatico, a partecipare alla lotteria politica democristiana con tutto il peso di una spregiudicatezza «politicista» che finiva per essere il contrassegno principale di un'identità e uno stile. Comunione e liberazione si proponeva come agente di una «prati cabilità» politica ad amplissimo raggio, in cui gli imperativi proclamati vigorosamente non precludevano inventività locali e adattamenti parziali. Ma non appena la guerra del Golfo ha posto in primo piano, insieme con il messaggio papale, una soggettività cattolica intensamente orientata a definirsi ancora una volta come alternativa interna al sistema dei partiti, è riemersa ancora una volta, con qualche sorpresa dei laici, una posizione terzomondista, pacifista, antiamericana, che ha squilibrato perlomeno i moduli interpretativi a cui si era abituati. In realtà, la posizione di Cl sul Golfo non faceva che portare alla luce i fondamenti che ne avevano determinato l'affermazione: fondamenti che erano disegnati, fin dall'origine, sul profilo di un estremismo realista, proprio nel senso della Realpolitik, declinato e proclamato in funzione propagandistica nella sua connessione strumentale con visioni integrali. Insomma, il successo di Comunione e liberazione era basato anche sulla capacità di spendere con la massima disinvoltura concezioni fondamentaliste come cartamoneta nel mercato politico corrente. Per questa ragione «l'antagonismo governativo» di Cl è saltato in aria sulla questione del Golfo, dal momento che Saddam Hussein non richiedeva esorcismi politici ma opzioni chiare e distinte. A questo punto, la catena di ossimori su cui Cl aveva costruito la propria progressiva fortuna si è spezzata, e la sua scelta di tipo filo-arabo e terzomondista si è posta in una contraddizione così netta con la leadership democristiana, fino al punto di fare sospettare una sorta di gioco delle parti fra partito cattolico e movimento di base: con la Dc di governo a condurre i necessari «affari sporchi» della politica, e Cl a tenere il piede nel magma antimilitare. Ma rispetto ad altri momenti, si è avuta l'impressione che lo spettro di differenziazioni nel mondo cattolico non costituisse più una ragione moltiplicatrice di consensi settoriali quanto la premessa di una molecolarizzazione dell'«ideologia cattolica» fino allo sfalda mento di quanto di unitario persiste sotto il profilo politico. Il vento del Nord Il pendolo democristiano fra le ragioni talvolta necessariamente brutali della politica e le aspirazioni terzaforziste dal basso è stato reso più mobile anche dalla scomparsa, per autodissoluzione, del Partito comunista. E' dipeso certamente da una fatale congiura della storia che il congresso di scioglimento del Pci e di fondazione del Partito democratico della sinistra sia avvenuto proprio nei giorni in cui più aspro era il dibattito sulla guerra; ma ciò non toglie che la crudezza delle scelte implicate dal conflitto abbia contribuito a rimescolare le carte, anche in seguito al sincretismo cristiano-pidiessino reso esplicito da Achille Occhetto, prima e dopo il congresso di Rimini, con l'adozione chissà quanto strumentale di stilemi wojtyliani. Rimescolamento che, al di là della contingenza politica, riporta in primo piano il problema della collocazione della Dc all'interno della repubblica dei partiti. È ormai inutile sottolineare il blocco del sistema politico-istituzionale del nostro paese. Ma è tutto da vedere che costituisca un esercizio futile cercare di porre sotto osservazione quegli elementi che nel medio periodo, in assenza di contromisure appena adeguate, potrebbero accentuare drammaticamente la sindrome italiana di dissoluzione nella stasi. Per la Dc, la minaccia più evidente è profilata dall'«aggressione» leghista. Per un «partito-stato» come la Dc il cuneo inserito dal senatore Bossi nel sistema politico è ancora più insidioso, in quanto si orienta al cuore di quello che si definisce «sistema di potere» democristiano. E anche al cuore dell'elettorato Dc: e in questo caso è curioso osservare un dispiegarsi del confronto perfino sul piano dei simboli, fra l'Alberto da Giussano e il Carroccio della Lega lombarda e lo scudo crociato democristiano, mutuato proprio dagli emblemi innalzati nella battaglia di Legnano (1176) dalle forze della Lega lombarda contro l'imperatore Federico Barbarossa. Ma c'è un altro aspetto che è stato valutato in misura insufficiente: la propaganda leghista ottiene i risultati più appariscenti, l'«effetto bulldozer» di cui ha parlato il senatore Bossi, in Lombardia e in altre regioni del Nord industriale, dove da tempo il consenso alla Dc è su livelli piuttosto bassi (se si prendono come riferimento le regionali del 1990, la forbice fra il voto democristiano fra Italia settentrionale e Mezzogiorno è di quasi 12 punti percentuali: 30% contro 41,8). Oltretutto sembra investire più direttamente proprio quelle aree produttive di più tradizionale insediamento «bianco» che avevano contribuito in modo decisivo alla tenuta elettorale del partito nell'ul timo ventennio. Ciò non è privo di conseguenze su un piano generale. Potrebbe prospettarsi in primo luogo uno squilibrio accentuato fra la consistenza democristiana nel Settentrione e la performance elettorale nel Sud. Quasi mai i partiti reagiscono con lungimiranza alle situazioni di difficoltà, ed è nella natura delle grandi macchine politiche adattarsi alle sfide scegliendo la linea di resistenza minore. Se questo fosse vero, sarebbe legittimo aspettarsi che la Dc, per mantenere gli attuali livelli di consenso, sia obbligata a tenersi strettamente aggrappata al Mezzogiorno. In tal caso, le illusioni sono inutili: esiste un solo strumento funzionale nelle condizioni attuali, ed è il mantenimento e lo sviluppo del sistema di trasferimenti pubblici, di erogazioni a pioggia, di spesa senza controllo dei risultati. Si tratta di una politica che viene da lontano, che si è dispiegata sia attraverso gli investimenti nel deserto sia mediante gli interventi straordinari in caso di calamità naturali e, ad personam, con le pensioni di invalidità o le assunzioni nell'amministrazione locale. Non dovrebbe sfuggire tuttavia che questa politica, la politica delle decine di migliaia di miliardi «per lo sviluppo del Mezzogiorno» che continua a essere sostenuta e argomentata da esponenti democristiani di notevole spicco no tabilare come Riccardo Misasi, si trova oggi al centro di un diffuso rifiuto da parte dell'opinione pubblica (anche perché non sfuggono le implicazioni di carattere illegale, e mafioso tout court, di un sistema politico che vive sugli appalti così come sulla dimensione clientelare). Qualora la Dc scegliesse, e sotto diversi profili si tratterebbe di una scelta non esattamente libera, di diventare il «partito del Sud», potrebbe entrare in fibrillazione, prima ancora che la sua rappresentatività nazionale, l'equilibrio interno al partito. Una progressiva meridionalizzazione dell'apparato, contemporaneamente al completamento del processo di subalternizzazione al Nord in seguito all'attacco delle Leghe, metterebbe in gravissima difficoltà proprio quelle fasce del partito che finora hanno potuto continuare a proporsi come esponenti di una modernità corretta da un dichiarato spirito sociale, in grado di amministrare localmente (come in molte zone della Lombardia e del Veneto) assecondando la crescita in modo non troppo diverso rispetto al più propagandato modello emiliano. Non è un problema da poco, e potrebbe diventare decisivo per sanzionare come si assesterà l'asse del partito al prossimo congresso, slittato dalla primavera all'autunno del '91. La candidatura di Mino Martinazzoli non sarebbe emersa - almeno a parere di chi scrive - se non fossero stati percepiti due fattori di rischio sicuramente di rilievo nella prospettiva democristiana. Il primo concerne la collocazione della Dc nel sistema politico. Anche se in questo momento riesce arduo ipotizzare con qualche plausibilità che cosa rappresenterà il neonato Pds rispetto agli altri partiti, ci sono pochi dubbi sul fatto che se si prende sul serio la metamorfosi comunista la Dc attuale - e poco cambierebbe con un Gava a capo di un rassemblement generale - corre il rischio di ritrovarsi schierata o schiacciata su una posizione conservatrice moderata che ampi settori del partito rifiuterebbero sulla base del richiamo alle ispirazioni popolari e sociali del partito. L'ipotesi di una segreteria Martinazzoli (eventualmente in ticket con un leader sindacale come Franco Marini) rappresenterebbe quindi il tentativo deliberato di rilanciare, se non la componente di sinistra, il suo potenziale di suggestioni politiche, al costo di procedere all'elezione di un candidato di minoranza (e quindi o di rimescolare le carte facendo saltare le alleanze attuali oppure attraverso un processo negoziale interno che assicuri punto per punto a tutto il ventaglio democristiano una redistribuzione di potere in tipico stile cencelliano). Il secondo fattore è rappresentato invece proprio dalla necessità di una risposta rapida e anche simbolicamente efficace alla minaccia delle Leghe. Così come nella seconda metà degli anni Settanta la segreteria di Benigno Zaccagnini rappresentò il tentativo di reagire al diffondersi di una valutazione negativa dell'opinione pubblica sulla consistenza morale del partito, oggi uno degli obiettivi più immediati della Dc è quello di tamponare le emorragie di voti che sono tanto più prevedibili quanto più il partito risulta identificato con il volto «romano» se non «irpino» della politica. Conclusioni Sono ormai passati quasi due anni da quando Giorgio La Malfa avvertì che il maggiore partito italiano aveva «raschiato il fondo del barile», e che Andreotti era l'ultimo democristiano per palazzo Chigi. Secondo il segretario repubblicano, c'erano ormai le condizioni per individuare un baricentro alternativo, imperniato su un'intesa fra le forze laiche e socialiste, nella prospettiva di governi che al momento opportuno potessero abbandonare questa «stremata» Dc al suo immobilismo. Il giudizio di La Malfa si situava sullo sfondo della vertiginosa caduta di Ciriaco De Mita, e di conseguenza del declino della sinistra democristiana. Per lunghi anni la sinistra Dc aveva ipotecato sul terreno politico un ruolo di cerniera fra il centro politico e il Partito comunista, che demandava al Pri la funzione di garante istituzionale dell'affidabilità democratica e occidentale del Pci. La guerra del Golfo ha reso evidente che nemmeno il neonato Pds riesce a proporsi come un attore presentabile per rinnovare la compagnia. Dal canto suo, senza il contributo della sua sinistra, la Dc rimane orfana delle ampie visioni e delle geometrie sistemiche attraverso le quali la «setta» di De Mita si era autonominata ultima interprete di un impegno progettuale complessivo e definita come serbatoio di intelligenza politica con una specifica vocazione alla direzione del paese. L'estrema flessibilità, la duttilità ameboide della Dc forlaniana e andreottiana hanno senza dubbio tolto dalla scena del pentapar tito conflitti, pregiudiziali, incompatibilità individuali, e infine anche tutti quei dottrinarismi che confluivano in una sorta di teologia della politica destinata poi a non sfociare quasi mai in misure coerenti e decentemente praticabili. Tuttavia ciò lascia impregiudicati i problemi intrinseci alla Dc, non tanto rispetto alla sua attitudine burocratico-amministrativa quanto alla sua identità come partito di massa. Sarebbe estremamente difficile, infatti, per una forma zione politica radicata in modo così complesso nella realtà italiana, qualificarsi soltanto nella chiave del primum vivere. In ogni caso, per il partito sarebbe un rischio troppo pesante se il realismo politico diventasse al suo estremo sordità verso il rumore di fondo che percorre la società: come abbiamo visto, una galassia politica come la Dc, per quanto incline, diciamo così, a cedere alle tentazioni e agli automatismi del potere, non può trasformarsi definitivamente in un consiglio d'amministrazione. Contro una tendenza del genere, la tradizionale articolazione della vita del partito (il gioco delle correnti, i ribaltamenti congressuali, le redistribuzioni delle tessere) appare ormai largamente insufficiente e troppo legata a una concezione meccanicamente professionalizzata della politica. Quale grado di plausibilità ha il wishful thinking, espresso di frequente almeno alla periferia del partito in combinazione con la disarmata convinzione dell'immutabilità, che auspica per la Dc una sorta di riprogettazione di medio lungo periodo? Uno spirito moderatamente scettico - di quello scetticismo che come si è visto abbonda nelle file scudocrociate - si premurerebbe di sottolineare che di «fasi costituenti» ne è già bastata una, negli ultimi movi mentati mesi: ma forse ciò che è risultato in larga misura dannoso per la trasformazione comunista, legata a un anacronistico schema di mobilitazione sociale e politica, si adatterebbe probabilmente di più all'organizzazione «debole» democristiana, proprio in considerazione dell'estrema, quando non di rado caotica, libertà che essa consente. Ma riprecisare i propri nessi con l'Italia contemporanea, drenare la società attuale raccogliendo e interpretan do ciò che si muove nell'ombra, le nuove sensibilità, i nuovi valori, i nuovi conflitti può apparire come un compito sostanzialmente troppo costoso per un'organizzazione di partito che colloca perlopiù nel breve termine il proprio riferimento privilegiato (o obbligato). Con ogni probabilità costituisce tutta via anche una delle pochissime strade praticabili per non sottrarsi al compito di indicare un ventaglio di principi-guida e di obiettivi che tengano conto delle punte di drammaticità che si manifestano nel paese. È insomma un processo di rivitalizzazione culturale tanto più necessario quanto più diviene plateale lo sfacelo della politica italiana, a cui non può sottrarsi nessun partito che non voglia ridursi senza scampo a pura somma di nomenclature. Comporta l'obbligo, in linea di fatto oltre che di principio, di saper ascoltare la società, coinvolgere le élite, discutere in profondità temi qualificati; e soprattutto pretende l'umiltà di domandare e assimilare apporti differenziati e non convenzionali, aria fresca fuori dal chiuso delle conoscenze e dei vincoli consortili. Si tratta almeno in parte dell'orizzonte in cui si era collocata la sinistra del partito, salvo poi amalgamare tutto ciò in un connettivo culturale di non eccezionale qualità e originalità, e senza sfuggire a molti peccati tipicamente democristiani. Ma si tratta anche di un problema strategico, ne siano consapevoli o no i vertici e i santuari del partito, che investe tutta intera la Dc, e ne condiziona in modo decisivo le prospettive. Alla fine, la questione democristiana sembra giocarsi oggi sull'alternativa fra le amorfe certezze di una persistenza priva di futuro e una certa assunzione di rischio per riproporsi come forza moderna, cioè non datata, di democrazia. Si può pensare legittimamente che su questo tavolo il giocatore preferirà rischiare poco per perdere il meno possibile. Ma davvero il paese deve escludere ogni possibilità di puntare appena più alto per tentare un risultato meno insoddisfacente per tutti?
Il Mulino, 03-04 1991, Osservatorio italiano
Il Psi dal movimentismo al temporeggiamento
La politica italiana sta per affrontare un passaggio delicato e fino a qualche mese fa considerato sostanzialmente implausibile. Nonostante qualche esile riscontro elettorale, conviene accennarvi con misurata cautela, sommessamente e con un filo di doveroso disincanto, dal momento che la realtà immobilista del nostro sistema politico si è già incaricata più volte di annichilire fino al ridicolo ipotesi e suggestioni di portata ben più esigua. Eppure, sono troppo numerosi e compatti gli elementi che inducono a pensare che siamo di fronte, per la prima volta nel dopoguerra, alla possibilità realisti ca del riequilibrio, o del sorpasso, a sinistra. Per essere accettata in tutte le sue conseguenze, questa ipotesi implica che al termine «sinistra» si attribuiscano confini giustificati più dall'eco della tradizione che dalla realtà corrente. Diciamo allora che grazie a una serie di circostanze in cui la grande storia ha congiurato con la bassa cronaca, il Partito socialista può guardare alle prossime elezioni politiche come a un appuntamento decisivo, nel quale si definirà in modo concretissimo la questione della leadership nell'ambito di ciò che convenzionalmente chiamiamo sinistra. Il sogno «mitterrandiano» a lungo cullato da Bettino Craxi, la sconfitta e il ridimensionamento del Partito comunista (o dei suoi resti deideologizzati) per consentire uno schema di alternativa a riconosciuta direzione socialista, appare a portata di mano. Per uno di quei paradossi che non sono del tutto infrequenti nella politica, questa inedita prospettiva è stata introdotta nel rango delle possibilità da una scissione a sinistra del Pds, dopo il congresso di Rimini. Dopo l'annuncio dello scisma nell'ultimo giorno del congresso, con il quale esponenti storici del Pci come Armando Cossutta e Sergio Garavini avevano dato vita a «Rifondazione comunista» come schieramento autonomo, soltanto lo sbandamento delle ultime ore congressuali e la sorpresa avvelenata della bocciatura di Achille Occhetto avevano fatto passare in secondo piano la secessione neocomunista. Nelle settimane successive, tuttavia, si è avuta la sensazione che l' atteggiamento di sufficienza con cui si era guardato alla diaspora dei cossuttiani fosse la sintesi di un modo di guardare alle cose della sinistra in cui dominava ancora l'idea di un Pci monolitico, capace di sterminare o ridurre ai minimi termini qualsiasi avventura massimalista al suo esterno. E invece, al posto del vecchio Pci unitario e compatto c'era ormai il nuovo Pds, nel pieno della sua lacerante crisi di identità e delle sue divisioni. Prima del congresso di autoscioglimento del Pci, leader come Giorgio Napolitano avevano parlato di un'eventuale scissione come di un'avventura «ultraminoritaria» e a priori perdente. Pochi giorni più tardi, quando il numero delle nuove tessere è balzato velocemente oltre quota centomila, ha cominciato a farsi strada la consapevolezza che l' «avventura» non si sarebbe risolta solo in un deprimente scontro legale avente come posta il copyright della falce e del martello: quello che si profilava era ormai un problema tutto politico, e di dimensioni largamente inattese. Le conseguenze della fuoruscita non si limitano infatti alla concorrenza fratricida esercitata da «Rifondazione» verso il Pds. Sul piano degli equilibri elettorali la formazione neocomunista può dare luogo a un autentico terremoto a sinistra. Se consideriamo che il Pds si trova presumibilmente in una condizione di cedimento, diventano importanti anche i numeri piccoli e piccolissimi: e sul filo dei decimali potrebbe giocarsi anche la posizione di capoclassifica nell'area della sinistra. Che questo avvenga attraverso una specie di dedizione minore del «sorpasso in discesa», oppure anche in coincidenza con una rilevabile crescita del Psi craxiano, non toglie nulla alla riscontrabile eccezionalità dello scenario che si dispiega sulla nostra politica. Potrà apparire una sofisticata astuzia della storia che ciò che non è stato possibile per mezzo di un riequilibrio alla francese, a «destra», per mezzo di una spregiudicata raschiatura riformista contro le incrostazioni ideologiche, possa profilarsi alla fine grazie alle combattive espressioni di una residuale quanto irriducibile nostalgia di comunismo. Ma rovesciando i fattori il risultato non cambia: e Craxi intravede la possibilità di riuscire laddove si erano dimostrate ampiamente insufficienti l'Onda Lunga e la Grande Riforma, il miracolo socioeconomico contemporaneo alla presidenza socialista dall'83 all'87, il sigonellismo e l'atlantismo, il movimentismo e la stabilizzazione, il decisionismo e la governabilità: cioè di diventare a suon di numeri il capo della sinistra italiana. Già: ma intanto? L'unità socialista e i complessi d'inferiorità Con ogni probabilità ci si è rapidamente dimenticati che nell'ottobre scorso, pochi giorni prima che Achille Occhetto presentasse alla direzione del P ci la sofferta «dichiarazione d'intenti» con cui si argomentava e si giustificava il cambio del nome e del simbolo del partito, Craxi aveva decisionisticamente cambiato l'etichetta del Psi sotto la dicitura di «Unità socialista». Era solo una specie di «mossa del cavallo» utile a spiazzare e mortificare la faticosissima scelta occhettiana del nome per la «Cosa»? Oppure contemplava un messaggio più sottile ed eloquente? E rivolto a chi? Se era un segnale, si rivolgeva in primo luogo alle forze miglioriste (e non a caso i Borghini e i Corbani, cioè l'ala socialdemocratica «dura», apprezzarono la capacità e lo stile di decisione rispetto alle allora perduranti vaghezze del gruppo dirigente comunista) e poi alle entità in disgregazione del Pci per segnalare che a sinistra un virtuale polo di aggregazione esiste solo ed esclusivamente intorno al Psi e al suo leader, e che ogni ipotesi di alternativa, per essere formulata realisticamente, deve fondarsi sul riconoscimento della leadership socialista. È un argomento, quest'ultimo, che sembra fatto apposta per accentuare le contraddizioni politiche nella casa ex comunista, dal momento che normalmente scatena fra le componenti del Pds accuse e controaccuse di subalternità a Craxi così come, sul versante opposto, di estremismo antisocialista. E difatti, nel teatrino politico degli ultimi mesi si è assistito a una plateale commedia degli equivoci, con Occhetto e i suoi a fingere di non capire che cosa significhi alla fine dei conti «unità socialista», e il Psi a fingere di non capire perché quelli non capissero. In questa commedia degli equivoci, vale la pena di chiedersi quali sono le ragioni di fondo di una simile incomprensione. Si potrebbe rispondere di primo acchito che la prolungata collocazione governativa del Psi, dal centrosinistra in poi, ha comportato a lungo nei socialisti un senso di inferiorità rispetto alla purezza «di classe» dell'opposizione comunista. Quando Francesco De Martino a metà degli anni Settanta elaborò la formula degli «equilibri più avanzati», non si preparava soltanto a ricevere la micidiale mazzata delle elezioni politiche del 18 giugno 1976 (con il Pci al massimo del suo rendimento elettorale e il Psi al minimo, «tre comunisti e mezzo per ogni socialista»), ma addirittura teorizzava - e la spia linguistica era la tardiva adozione di gergalità marxiste - il socialismo italiano in quanto «figlio di un dio minore», e di conseguenza, come si disse in seguito, «balcanizzato dalla Dc e finlandizzato dal Pci». Esprimeva cioè una condizione di handicap, interiorizzata fino a diventare ineluttabile propensione masochista. Lanciati «allo scopo di liberare il partito dalla gabbia dell'alleanza forzata con la Dc», ha scritto di recente Giovanni Sabbatucci (Il riformismo impossibile, Laterza, 1991), gli equilibri più avanzati, cioè la richiesta di coinvolgere il Pci nella maggioranza guidata dalla Dc, finivano «in realtà col suonare come un'implicita confessione di subalternità nei confronti di entrambi i partiti maggiori». Conoscendo come sono andate in seguito le cose, lascia vagamente increduli il fatto che lo stesso Craxi immediatamente post-Midas, presentandosi a un Andreotti che stava per formare il governo che apriva la stagione della solidarietà nazionale, si dimostrasse (stando ai diari publicati dall'attuale presidente del consiglio), rigido come il suo predecessore De Martino riguardo alla «condizione di non avere i comunisti all'opposizione»; e che due anni dopo, nella relazione introduttiva al congresso di Torino, il segretario tenesse una compunta linea di sinistra classica («Siamo certo interessati a frenare lo sviluppo bipolare attorno ai due maggiori partiti, ma ci proponiamo di farlo radicando ancor più la nostra presenza nel terreno storico e di classe della sinistra e non rifluendo su posizioni di equidistanza»). Altri tempi: per il Psi ciò che si stagliava sull'orizzonte politico era un arduo «primum vivere», nel contesto di una cultura che obbligava a continue deferenze agli idola classisti. Non appena avesse potuto ricominciare a filosofare, le conseguenze sui rapporti a sinistra si sarebbero rivelate demolitrici. Dal «Vangelo socialista» del 1978, che dietro la riscoperta di Proudhon e del pensiero eretico della sinistra elevava un'aspra polemica contro il comunismo leninista e l' ossificazione burocratica del socialismo reale, per almeno un decennio si sviluppa nel Psi una durissima critica della cosmologia e dell'iconografia comunista, da Stalin a Togliatti, da Lenin a Breznev a Berlinguer. Costruzione di un'identità Serve davvero, tutto questo, a indurre il Pci a qualche revisionismo significativo? L'impressione è che serva soprattutto come carta interna nella variegata compagine socialista. La polemica anticomunista diviene, attraverso scadenze piuttosto rapide, un mastice intellettuale d'appartenenza, una delle ragioni vicarie di identità per un partito già orientato verso pragmatismi e riformismi che offrono scarsa connotazione sotto il profilo ideologico. In effetti, il P si che esce dalla «congiura», dal «golpe» del Midas, è un partito che in un solo giorno a Palazzo ha psicanaliticamente «ucciso il padre». Dopo di che, al craxismo, al «nuovo riformismo» socialista che prende vigore negli anni Ottanta, si può attribuire tutto: «la qualifica di socialista è facoltativa» secondo l'ultimo Arfè, in quanto il nuovo partito «non ha più alcuna remora di natura dottrinale e alcun vincolo di programma», «è a gerarchie rigide, a istituzioni fluide, a organizzazione amorfa», «ha trasformato la sua tradizione in iconografia», al punto che «democristiani e comunisti assistono sbigottiti e sgomenti allo spettacolo imprevisto». Per l'ex direttore di MondOperaio Federico Coen, gli iscritti e i quadri «appartengono nella grande maggioranza ai ceti medi, tradizionali ed emergenti, e in parte considerevole al ceto professionale»; le relazioni con l'apparato sindacale sono flebili, soprattutto se paragonate al Labour Party o alla Spd: «per questo aspetto il socialismo italiano è affine ai socialismi cosiddetti mediterranei ma, a differenza di questi, ha una base elettorale non solo ridotta ma anche eccezionalmente instabile. Lo "zoccolo" su cui può contare in ogni elezione si aggira intorno alla metà dei voti raccolti. Il resto è voto d'opinione». E l'elettore socialista, secondo la comunista Mariella Gramaglia, è «insofferente delle tradizionali austerità democratiche, amante del denaro e del potere, infastidito dagli egualitarismi, innamorato del piglio e della baldanza altrui in quanto virtù-poteri che amerebbe avere per sé e in parte imita plasmandosi sui modelli che i media offrono». Sono citazioni tratte dal volume collettivo La questione socialista. Per una possibile reinvenzione della sinistra (a cura di Vittorio Foa e Antonio Giolitti, Einaudi, 1987) e come esempio di benevola critica «da sinistra» non c'è male. Ma essa non fa altro che contribuire a quella demonizzazione del craxismo, diffusasi in modo capillare soprattutto fra i militanti comunisti, che in definitiva costituisce l'altra faccia, quella negativa, di un'auto immagine del Psi che se si va formando si forma grazie anche agli attacchi a cui viene sottoposta senza tregua. Si instaura rapidamente una stretta connessione fra l'esorcismo contro il diavolo e il suo rovescio, l'idolatria. L'elettore, simpatizzante o militante socialista è déraciné dalle convenzioni della politica a causa delle terribili delusioni dovute prima alla superiorità politica, organizzativa, probabilmente morale del Pci, e in seguito alle frustrazioni subite durante la collaborazione nel centrosinistra, in quello che se in ogni caso fu «il governo più a sinistra del nostro paese» (Bobbio), rappresentò senza dubbio anche una palestra di compromissioni e disillusioni: per questo «rampante» elettore/ simpatizzante/militante, la rottura di una serie di tradizioni coatte, di concetti, di parole d'ordine ritenute vincolanti nel galateo della politica progressista contribuisce a istituire il proprio statuto politico ancor prima e meglio che le novità liberal enunciate nei programmi, la rinuncia a ogni residuo di mitologia marxista e la spettacolarità delle idee nuove. «Nel Psi attuale - scrive Ernesto Galli della Loggia pochi giorni prima delle politiche del giugno 1987 - si sono andati sommando e ingorgando molti pezzi d'Italia staccatisi da quel Paese ancora a suo modo compatto che era durato fino agli anni Settanta (ovvero nati proprio allora) perché resisi autonomi dalle tradizionali dipendenze ideologiche, morali, di costume. Questi pezzi d'Italia si sono innestati su un corpo politico ormai esangue che proprio in quel momento era ereditato da un giovane gruppo dirigente, figlio della sconfitta, al quale il passato non diceva e non poteva dare più nulla». Ecco allora l'inedita «sostanza antropologica» dei socialisti, «quel loro fare ribaldo e derisorio che pare talvolta dare sul picaresco e che del picaresco mima certa tolleranza e apertura culturali unite a inaspettati scatti di una generosità sbracata»; ecco «il loro gusto per tutto ciò che è mobile, nuovo, vivo e un po' plebeo, il loro gusto per la città e per la notte». La rottura delle convenzioni politiche Vampiri metropolitani come dice Galli della Loggia, «gente nova», come sostiene qualcun altro riferendosi a certe rapide fortune personali e di partito conseguite per via politica, «Moderns» secondo il settimanale «L'Espresso» nel 1988 (che si premura di appiccicare un perplesso punto interrogativo al titolo, e che parla di «alto tasso di enigma» a proposito della modernità di un partito «che dialoga con Cl ed è contro il nucleare, che difende gli interessi di Silvio Berlusconi e che lancia frecciate contro la legge sull'aborto»), i «neosocialisti» tuttavia hanno infilato pian piano una leva di potenziale efficacia destabilizzatrice sotto uno dei macigni più ingombranti dell'ideologia italiana del nostro tempo: vale a dire quel complesso di convinzioni secondo cui nel nostro paese esistono due grandi partiti, entrambi «popolari», di massa, estesamente insediati nell'ambito di un variegato spettro sociale e soprattutto radicati in una cultura che attinge (pur con una gamma di strumenti diversi) a valori tutto sommato omogenei. Si tratta di una classica equazione a due incognite da cui poi sono stati fatti discendere in linea politologica due risultati differenti ma in fondo complementari: uno, che per uscire dall'impasse, dal blocco, dalla dissoluzione politico-istituzionale occorre pensare a qualche cosa di non troppo dissimile da una Grosse Koalition fra Dc e P ci, in modo da ancorare il mutamento della società alle due piattaforme sociopolitiche più solidamente rappresentative; due, ed è un ragionamento più elegante e aggiornato, che il sistema politico deve essere ridisegnato con nuove regole maggioritarie per giungere a due schieramenti in competizione, ognuno egemonizzato da uno dei due partiti «popolari». Ma entrambe le soluzioni, sia quella auspicata ormai sempre più debolmente dagli ultimi orfani della solidarietà nazionale sia quella sostenuta (ammiccando al Pci-Pds) da Ciriaco De Mita sulla scorta delle analisi di Roberto Ruffilli, agli occhi dei socialisti presentano il non lieve difetto di produrre la fine prematura della cosiddetta «rendita di posizione» del P si, quella posizione centrale e dirimente nell'arco dei partiti che ha consentito a Craxi, per esempio, di giungere con poco più dell'undici per cento dei voti alla presidenza del consiglio. Non è affatto casuale in tal senso che le punte di maggiore rivalità si siano registrate, oltre che con il Pci, con la sinistra democristiana. La Dc di De Mita e di Bodrato è, proprio dal punto di vista dell' «antropologia», quanto di più lontano dal P si si possa immaginare. La sofferta e pensosa mentalità degli eredi di Moro, cultori di quella «politica come servizio» che male si attaglia a chi concepisce la politica come festosa prevaricazione o decisione comunque risolutiva, sembra fatta apposta per entrare in rotta di collisione con la linea di navigazione socialista. La raffica di più di duecento bocciature parlamentari nel corso dei quattro anni della presidenza Craxi può spiegare meglio di qualsiasi argomentazione di alta politica l'incompatibilità quasi fisiologica che si stende fra il Psi e la sinistra democristiana e li pone in rumoroso attrito. Ma anche questa guerra di logoramento è solo uno dei sintomi che illustrano la novità abnorme rappresentata dall'irruzione del Psi craxiano nel villaggio politico italiano. Una novità di carattere comportamentale così come culturale. Il fatto è che nella sua grande maggioranza il ceto politico del nostro paese era assolutamente coeso, legato a un codice condiviso che aveva consentito una crescente partecipazione «consociativa» alla gestione del potere. Il conflitto non veniva accettato come principio essenziale della vita democratica, bensì inserito in una complessa trama di mediazioni, e le istituzioni finivano per essere concepite più che altro come strumenti di produzione o camera di compensazione del consenso. Non è tutto: i canali culturali che collegavano la vita politica all'opinione pubblica tendevano a riprodurre automaticamente le grandi convenzioni su cui si reggeva il patto materialmente stipulato dai principali schieramenti politici. E queste convenzioni prevedevano che tanto l'area cattolica quanto l'area laica, così come in fondo l'area comunista, possedessero standard analoghi di legittimazione (nel settore dell'informazione, durante gli anni Settanta, ciò era puro senso comune, spirito del tempo, ideologia dominante, anche se con un più marcato birignao «di sinistra»). Si può verificare facilmente, a suffragio di questo argomento, che superato il periodo delle grandi scelte internazionali, negli anni Cinquanta, la polemica democristiana contro il Partito comunista ha assunto una netta coloritura ideologica quasi soltanto in funzione di richiamo, rastrellamento, o se si vuole ricatto, elettorale. Sul piano della prassi parlamentare, è più facile vedere Dc e Pci come operatori che condividono gran parte della scala di valori politici di riferimento e dei metodi di mediazione. E per quanto riguarda l'area laica, la vicenda nazionale ha visto certo il gran rifiuto di Giovanni Malagodi verso il centrosinistra e le nazionalizzazioni, ma ha registrato anche il paziente e insistito ruolo dei repubblicani rispetto ai comunisti, sempre attesi a una mutazione genetica che li potesse trapiantare senza rischi di rigetto nell'ambito governativo, con il Pri a fare da marchio di garanzia liberaldemocratica. Ormai sono fin troppo numerosi coloro che pensano che il sistema politico italiano ha subito il condizionamento derivante da una specie di vizio ciellenistico di fondo, che ha esaltato le caratteristiche collusive di una classe politica propensa a ripartire il potere piuttosto che a rischiare in proprio sulla base di programmi vincolanti e contendibili. E si accetti o no la tesi di questo peccato originale che continuerebbe a dare luogo a connubi non sempre casti, sta di fatto che l'arrivo del Psi «nuovo» sulla scena è stato percepito da ampi settori della politica e della cultura come il principio di uno scardinamento delle regole, scritte e non scritte, su cui si è articolato e sviluppato il sistema politico durante l'età repubblicana. Contro Togliatti e contro tutti: c'è del metodo nell'ostilità Ha scritto Angelo Bolaffi («MicroMega», 3/1986) che «l'accanimento feroce con il quale Berlinguer ha condotto la sua battaglia contro Craxi, venendo del resto ripagato con una violenza e brutalità pari se non superiori, non può essere ricondotto né a miserabile affare privato né semplicemente allo scontro fra due linee: si tratta di ... una Realrepugnanz, una vera e propria antinomia tra due opposte concezioni del mondo e immagini del rapporto tra sinistra e Moderno». Dal canto suo, rispetto al Partito comunista il Psi ha condotto una lunga campagna «antistalinista», esattamente simmetrica agli attacchi che il Pci rivolgeva a Craxi nel nome del tradimento di classe o della questione morale. Da un lato un intellettuale comunista come Alberto Asor Rosa, nella primavera del 1987, rintracciava infatti la direzione presa da Craxi nei seguenti itinerari: «il deciso superamento di ogni pretesa di rappresentare la classe operaia (alla quale, anzi, il governo Craxi ha dedicato una delle sue battaglie più decise, quella per la soppressione del punto di scala mobile); il desiderio d'interpretare le esigenze di benessere e di affermazione dei ceti usciti dalla rivoluzione culturale, informatica e dei servizi dei decenni precedenti; una sostanziale adesione alle politiche di espansione capitalistica, appena temperata da un giustizialismo abbastanza approssimativo»; dall'altro, il Psi preparava la lunga offensiva anticomunista che avrebbe assunto toni accesissimi durante il 1988, con una serie di convegni, articoli sull'«Avanti!», dichiarazioni pubbliche in cui ciò che appariva evidente, la polemica di ordine storiografico, costituiva solo la parte visibile di un'iniziativa che era diretta in modo tanto evidente quanto non dichiarato a delegittimare il Pci. A delegittimarlo in quanto l'attacco ai fantasmi staliniani, con la deliberatamente provocatoria immersione «nella lettura e nella rilettura delle carte che parlano di una storia ormai lontana» (come scrisse Craxi-Ghino di Tacco il 3 marzo 1988), stabiliva in realtà un decisivo linkage con Togliatti e con quanto «il Migliore» aveva rappresentato nella vicenda della sinistra italiana: sgretolare il togliattismo significava assestare un colpo mortale alla supremazia comunista, frantumarne l'identità, mettere in crisi la consapevolezza di superiorità, rigore, lungimiranza e sagacia politica che si associava al ritratto e al mito togliattiano. Il «duello a sinistra» riprendeva vigore: e che la posta in palio non fosse data propriamente dagli eventuali esiti storiografici della campagna antistalinista è certificato dalla posizione via via più critica assunta da Norberto Bobbio. «Il Psi si sta allontanando sempre più dalla tradizione socialista», aveva confidato nel 1989 il vecchio maestro in un'intervista alla «Neue Gesellschaft». E in una lettera aperta a «MondOperaio» (dicembre 1989), in risposta alle domande di Luciano Pellicani, aveva riassunto tutte le proprie obiezioni alla politica socialista. Si tratta di un documento che nella sua brevità può essere considerato un piccolo quanto intenso manifesto del «disagio socialista». La presunta modernizzazione, stigmatizzava Bobbio, è un bel programma per tecnocrati. Della giustizia sociale non si parla più. L'improvviso «interessamento di alcuni settori del partito per il mondo cattolico» risulta fastidioso «e per me incomprensibile». Il riformismo, forte o debole non importa, non vuoi dire assolutamente nulla. Ma il brano più significativo veniva quando Bobbio citava alla lettera le parole di un suo articolo precedente: «Non ho fatto mistero in questi ultimi tempi di essere in totale disaccordo rispetto alle requisitorie antistaliniane, antitogliattiane, antisovietiche in genere, alle recriminazioni, alle proscrizioni, ai reiterati processi in effigie, alle condanne di una storia terribile da cui peraltro siamo usciti vittoriosi ... Non sono mai stato stalinista ... Ma non mi è mai passato per la mente di scagliare il più piccolo sassolino quando fosse destinato non a formulare un giudizio storico ma ad alimentare una rissa politica». Evidentemente l'idea nutrita da Bobbio del confronto politico interno alla sinistra era completamente diverso da quella elaborata dal Psi. Il filosofo, fedele al suo dogma di non avere nessun nemico a sinistra, risultava ormai fuori linea. Le parole d'ordine unitarie erano dimenticate, e della vecchia aspirazione all'unità delle forze della sinistra non restava neppure il senso di colpa per averla rimossa. Lo sbigottimento per il craxismo e per certe sue caratteristiche ritenute laceranti, perfino violente rispetto alle consuetudini, è un sentimento trasver- sale, diffuso fra tutti gli schieramenti politici. Dopo il Midas, «il manifesto» scrisse che Craxi è «l' amerikano, il tedesco, ma anche il portoghese, l'israeliano e il cecoslovacco» e «il prediletto di un ambiente che va da Montanelli a un certo giro di ex comunisti specialisti in appelli per Solgenitsin». Dal che si capisce che il movimentismo socialista non atterriva soltanto i suoi rivali più immediati. Sconvolgeva in profondità, come ebbe a dire Claudio Martelli, i «tre ghetti» in cui erano state separate a suo avviso strumentalmente le culture: «di qui i laici, lì i cattolici, lì i marxisti». Il notissimo e discusso flirt socialista con Comunione e liberazione, avviatosi nell'estate del 1988 al Meeting ciellino di Rimini intitolato «Cercatori d'infinito e costruttori di storia», derivava proprio da questa intenzione di rimescolare tutte le carte: «Abbiamo bisogno di un partito socialista che sia insieme liberale e cristiano, che abbia una coscienza laica e una sensibilità cristiana», reclamava provocatoriamente Martelli, e tra il Psi e Cl c'è «un patrimonio culturale comune, venuto in luce anche sulla base della straordinaria lezione che ci è giunta dal dissenso nell'Est europeo ... Sia noi che loro ci possiamo definire post-marxisti». In realtà il «patrimonio culturale comune» comprendeva anche alcuni aspetti piuttosto utili anche in termini di politica applicata. Comunione e liberazione, come il Psi, aveva in orrore De Mita, le giunte anomale tipo il «laboratorio politico» retto da Leoluca Orlando a Palermo, il comunismo e i comunisti, le aristocrazie politico-intellettuali «azioniste». Ciò che come si è visto risultava incomprensibile per Bobbio («Politicamente i cattolici non esistono. Ci mancherebbe altro che oltre i democristiani e i catto-comunisti, ci fossero nel nostro paese anche i catto-socialisti. Fa parte della tradizione socialista un fermo e coerente laicismo»), costituiva invece uno strumento utilizzabile efficacemente nella lotta politica, tanto su un piano generale quanto per applicazioni più particolari. In termini generali, Martelli aveva buon gioco a spiegare le ragioni del suo avvicinamento a Cl: «In tutta Europa e in tutto il mondo cattolici e protestanti votano liberamente o per i partiti democratici o per quelli conservatori: solo da noi tutto è rimasto congelato dentro le varie culture dell'appartenenza». In conclusione, e passando al concreto, «scuotere certezze che hanno determinato anche riserve di caccia politiche ed elettorali non può che rappresentare un beneficio per la democrazia». Già, ma allo stesso modo i benefici per la democrazia a cui alludeva Martelli potevano essere considerati altrettante imboscate dai partiti egemoni che sulla cultura dell'appartenza avevano costruito le loro fortune politiche. Che si orientasse verso i santuari dell'elettorato democristiano oppure verso gli ultimi sacrari del comunismo italiano, la spregiudicatezza socialista veniva percepita ogni volta come un'insidia gravissima alla pace del condominio politico, soprattutto inedita e quindi non facilmente neutralizzabile secondo gli schemi consueti della cooptazione e della ripartizione contrattata del potere. Restava in bilico, come sempre, la terza area, quella laica. «La minaccia più grave alla sopravvivenza dei partiti laici centristi - ha scritto Martin Rhodes (Politica in Italia, ed. 1988) commentando le politiche del 1987, cioè le elezioni del grande balzo in avanti del Psi - è l'ascesa del Partito socialista di Craxi, un partito che, nonostante la propria debolezza organizzativa, ha ridefinito la natura della politica centrista in Italia. Così facendo, Craxi e il Psi hanno accentuato la crisi di identità di repubblicani, liberali e socialdemocratici, provocando in ciascuno di questi partiti una divisione interna tra filosocialisti e antisocialisti». Il terreno politico esistente fra cattolici e comunisti, che Ugo La Malfa aveva cercato di monopolizzare, secondo alcuni ormai appartiene di fatto e di diritto al Psi. Ed ecco allora la prospettiva, finora minoritaria nel Pri, della creazione di un'autentica terza forza, «anche con Craxi in veste di novello Mitterrand di una grande sinistra». Il conflitto fra coloro che intendono stringere i legami orientando il partito verso un polo di democrazia laicosocialista (Susanna Agnelli, l'ex ministro delle finanze Bruno Visentini, l'ex ministro delle poste Oscar Mammì) e gli esponenti contrari a questa ipotesi è ancora intenso, e si è rivelato con una certa drammatica evidenza con il caso Mammì durante la formazione dell' Andreotti settimo. Lo stesso Giorgio La Malfa appare ostile a un «asse» preferenziale con i socialisti; solo le disastrose posizioni assunte dal Pds a proposito della guerra del Golfo e le sue perduranti incertezze in ordine alla politica economica impediscono al segretario del Pri di procedere con determinazione verso quel progetto trasversale che egli considera razionalmente necessario nel futuro dell'Italia (con il sistema politico scomposto e riallineato sulla base del principio dell'accettazione del mercato: da una parte cattolici liberali, partiti laici, socialisti, ex comunisti «riformisti»; dall'altra cattolici integralisti/populisti, postcomunisti o neocomunisti situati sul fronte dell'antagonismo, area della protesta «anticapitalista»). Progetto che inevitabilmente stempera il ruolo del Psi nell'indistinto di un cambiamento culturale dagli spettacolari riflessi politici, con la spaccatura in due tronconi della Dc e di ciò che resta degli ex comunisti; e che probabilmente maschera la profonda diffidenza di La Malfa verso il Partito socialista e sulla prospettiva di un'alleanza diretta ed esplicita con il suo leader. Una straordinaria ostilità, diffusa in quasi tutti gli schieramenti, accompagna insomma l'evoluzione socialista dal 1976 a oggi. Incapsulato nella nicchia di orrore che suscitano i fenomeni inattesi e sconvolgenti, a sua volta il Psi viene non di rado considerato, come l'Alien di Ridley Scott, «ostilità assoluta». Questo principio di ostilità rende possibile suddividere diagonalmente il mondo politico in antisocialisti e filo-socialisti, e ad alcuni schieramenti o fazioni di definire su questa diagonale horror le proprie scelte politiche. Ma ha consentito anche al Psi, forse per la prima volta nel dopoguerra, di guadagnare un'identità. La Grande Riforma e il governo socialista Sono passati quindici anni dal Midas. Un anniversario può costituire un'occasione utile per formulare bilanci. Ma prima di procedere alla computisteria dei dati positivi e negativi, e di esaminare il saldo, varrà la pena di specificare che i quindici anni dell'era Craxi, questo «feudalesimo diffuso temperato dalla monarchia assoluta», non sono stati affatto un percorso lineare e conseguente, scandito da progressi necessari e deterministicamente prevedibili. Quando il Psi craxiano chiama a raccolta i propri intellettuali (Giorgio Ruffolo, Giuliano Amato, Gino Giugni, Federico Mancini, Francesco Forte, Franco Modigliani ecc.) per stendere il «Progetto per l'alternativa socialista», approvato al congresso di Torino del 1978, il clima è ancora dominato dalle nubi della solidarietà nazionale, e la necessità prioritaria consiste nello sganciarsi dall'abbraccio Dc-Pci. Il termine «alternativa» connotava in quel momento una scelta politica di grande prospettiva ma che nello stesso tempo doveva essere spendibile immediatamente sul mercato politico. Occorreva differenziarsi, proporre l'icona di un socialismo democratico ammodernato, senza nessun tratto di confusione con esperienze di socialismo reale e prendendo qualche distanza anche rispetto alle delusioni procurate dalle rigidità statalistiche delle socialdemocrazie europee. In realtà, a rileggere oggi il «Progetto socialista», «telaio di idee-forza per costruire una società socialista moderna», riesce difficile non provare il senso di un'intrinseca sfasatura: quasi in ogni pagina sono miscelati, o piuttosto emulsionati, elementi derivanti da una concezione liberal, sostenitrice di un pluralismo vivace e compiuto, ed elementi di stretta pianificazione figlia degli anni Sessanta, il Labour Party e suggestioni neomarxiste, i movimenti e le istituzioni, cultura riformista e cultura gauchiste. Ma in ogni caso il «Progetto», oltre che a mobilitare gli intellettuali (anche nell'esercizio critico successivo alla sua presentazione), serviva a segnalare che un partito già ampiamente inserito nei meccanismi dell'amministrazione, logorato sul piano politico elettorale e organizzativo da questa esperienza, sapeva produrre uno sforzo significativo per indicare che tipo di società aveva in mente, e quali modificazioni voleva introdurre nella dinamica socio-economica che caratterizzava la fine degli anni Settanta: per quanto viziato di enfasi o di astrattezza lo si potesse valutare, rappresentava tuttavia l'estremo tentativo di cogliere nella deriva alcune piattaforme «ideologiche» del cambiamento sociale e di fornire alcune chiavi e l'attrezzatura per interpretarlo e forse gestirlo. Bastano però tre o quattro anni perché il dibattito fra il «riformismo pragmatico» di Giuliano Amato e il «riformismo radicale» di Giorgio Ruffolo si esaurisca, sopraffatto da evenienze di maggior momento. Dopo le elezioni politiche del1979 (con il Psi per la terza volta consecutiva sotto il dieci per cento) salta per aria l'alleanza fra Craxi e la sinistra di Signorile, e nel rinnovato clima di scontri gli intellettuali fanno la loro parte: riunioni segrete, contestazioni contro il segretario, accuse a Craxi di incoerenza, mancanza di serietà, connessioni con poteri economici, svuotamento del partito, mentre «la ragione politica si corrompe nell'intrigo, la parola compagno assume una connotazione derisoria». Nel 1980 però il Psi è di nuovo nel governo, e nell'agosto del 1983 Bettino Craxi diviene il primo capo del governo socialista nella vicenda della repubblica. Il passaggio alla nuova fase «governativa» è sottolineato da due congressi (42°, Palermo 1981 e 43°, Verona 1984) e da un altro appuntamento fondamentale, la Conferenza programmatica di Rimini del 1982. Il «partito nuovo» nasce da questi meeting e il cambiamento di prospettiva è, questo sì, «radicale». Dal Congresso di Palermo in poi, la parola «progetto» scompare dal lessico socialista: da un lato, si comincia a inneggiare alla creatività spontanea, all'energia innata nella società e nella vita economica. Per il Psi che qualcuno comincia a chiamare «neoliberale», la dialettica fra stato e mercato tende a inclinare sempre più a favore di quest'ultimo, fino a considerare fattori ineluttabili di paralisi e di stagnazione le programmazioni pubbliche di lungo periodo. Dall'altro lato, occorre trovare gli strumenti perché la spontaneità sociale ed economica non venga mortificata da un sistema politico inadeguato, condotto al ristagno dai propri vincoli intrinseci: «I programmi del Psi - ha scritto Wolfgang Merkel (Prima e dopo Craxi. Le trasformazioni del Psi, Liviana, 1987) - non sono caratterizzati negli anni '80 da una esigenza di trasformazione della società, ma da misure atte a incrementare l'efficienza e la razionalità dell'attuale sistema politico. Alla rinuncia a interventi programmatori nell'economia ... si giustappone il rafforzamento dell'esecutivo centrale che ha ormai il compito di garantire la governabilità del sistema. Così, l'idea di una "società riformista" ... si è risolta nell'idea d'una "grande riforma" delle istituzioni politiche ... ». Anche se gli strumenti della Grande Riforma non sono mai stati specificati con esattezza, o si sono via via modificati in larga misura, l'idea craxiana della governabilità ha preso corpo sul campo, dall'83 all'87, cioè negli anni di Bettino Craxi primo ministro. Ad esempio, le argomentazioni di stampo neo-corporativo affiorate nella Conferenza programmatica di Rimini si incarnarono nel decreto sui tagli alla scala mobile del 14 febbraio 1984. Il San Valentino socialista spaccava il sindacato, metteva il Pci in un'opposizione non agevolmente sostenibile (e che lasciava trasparire significativi dissensi e malumori interni), e inaugurava un possibile «modello» che prometteva di governare insieme trasformazione e stabilità. Il fatto poi che per le 27.200 lire lorde del suddetto decreto si sia giunti al referendum del 9-10 giugno 1985, è soltanto un'appendice, e rappresenta una prova lampante della capacità di Craxi (si potrebbe forse dire: del Craxi di allora) di puntare alto, di scommettere tutta una politica su una questione probabilmente più simbolica che sostanziale. A proposito del decreto sulla contingenza infatti, tecnici del valore di Guido Carli o fustigatori della politica come Eugenio Scalfari avevano espresso giudizi freddini, considerandolo raffazzonato, più declamatorio che efficace, «un decreto piccolo piccolo»: in effetti, i tre o quattro punti di contingenza tagliati potevano significare una riduzione dell'inflazione compresa fra lo 0,5 e l'uno per cento, una quota non propriamente decisiva. Ma ciò che sfuggiva in giudizi simili era la portata suggestiva di un'ipotesi di sviluppo tesa a costituire il benessere, a distribuirlo in modo regolato, a «corporarlo» su base consensuale. Si trattava di qualcosa che magari oscuramente era in sintonia con l'umore collettivo degli italiani in quel momento: dopo i lunghi anni passati a liberare cariche di risentimento sociale e politico, tutto congiurava a favore di un governo che desse l'impressione di assecondare nuovamente la crescita, determinando con chiarezza rinunce e obiettivi. L'abbattimento dell'inflazione, il ribasso delle materie prime, il ritorno delle industrie al profitto, la terza Italia dell'imprenditoria diffusa, «l'industria oltre la siepe», il sommerso, l'occupazione informale, il design, il made in ltaly, la Borsa alle stelle e l'improbabile sogno del «capitalismo di massa» trovavano un principio di sintesi politica nella leadership craxiana. In questo senso, il referendum sul costo del lavoro del 1985, con la richiesta di legittimazione della politica economica del governo saltando alcune delle tradizionali mediazioni politico-sindacali, può essere considerato con qualche ragione un episodio di «democrazia plebiscitaria» ante litteram. Primi bilanci Secondo l'analisi proposta di recente da Sabbatucci, tuttavia, anche la prolungata presidenza socialista rappresenta un'occasione mancata: i risultati raggiunti dal P si negli anni Ottanta «erano ... ottenuti in base a una logica tutta interna al sistema politico vigente in oggi in Italia... Sfruttando tutte le opportunità offerte da questo sistema (che pure dichiarava di voler riformare) e diventandone il massimo beneficiario in termini di potere, il Psi finiva con l'identificarsi con esso e col precludersi la possibilità di intercettare l'ondata crescente di dissenso che proprio contro quel sistema andava montando» (Il riformismo impossibile, ci t.). Ci sono buone ragioni per considerare viziate dal senno di poi osservazioni di questo tipo: durante il quadriennio Craxi le prospettive potevano di fatto apparire assai diverse. Certo, un Asor Rosa poteva sottolineare che «Craxi ... ha dimostrato che quattro anni ininterrotti di governo sono di per sé, almeno in Italia, un valore. Mentre il governo, bene o male, ha governato, il paese è andato avanti, più o meno per suo conto, ma è andato avanti. Ma i socialisti, nel frattempo, non hanno modificato il sistema politico italiano: lo hanno soltanto "usato" ai loro fini. Il massimo di movimento potrebbe quindi essere soltanto l'immagine spettrale, fantasmatica, del massimo d'immobilità e di conservazione». Si tratta di obiezioni argomentate in modo eccellente dal punto di vista della teologia politica, ma piuttosto inessenziali se il compito è quello di giudicare dei risultati, a caldo. Se l'obiettivo imputato al Psi craxiano era la trasformazione di lungo periodo dell'Italia in direzione socialista e riformista, probabilmente il bilancio può apparire smilzo, e l'allegro falò degli anni Ottanta appunto uno dei tanti fuochi fatui prodotti dai resti del socialismo italiano. Se invece si guarda alle condizioni specifiche in cui il governo Craxi si trovò a operare, alla composizione del quadro politico, all'impraticabilità di alleanze con i comunisti per trasformazioni, come si diceva una volta, «di struttura», i risultati appaiono di profilo tutt'altro che ordinario. Si arriva al risultato (perfino stridente, nel nostro sistema intessuto di delicate armonie spartitorie), di vedere un socialista al Quirinale e un altro socialista a palazzo Chigi. Pura logica di occupazione e sfruttamento del potere? «Quando sento parlare, a proposito di Craxi, di una logica di puro potere, o di uno scontro di potere, provo una noia e un fastidio che nulla vale a curare», scrive su «MicroMega» (3/1986) uno degli aedi del craxismo, Giuliano Ferrara. Segue l'elenco degli effetti, di questo scontro per il potere, «quelli sì che mi interessano... L'Italia non è più democristiana. La leadership governativa del partito di maggioranza relativa è e resterà in discussione: da dogma si è fatta problema politico. Nell'industria di Stato, nelle banche, nel sistema dell'informazione, nell'economia privata è successo qualcosa. Il riassetto dei poteri, amministrati per decenni in regime di condominio laico-cattolico, ma sempre con una dominante democristiana da nient'altro limitata che da un diritto di veto comunista, è il tema vero che la presidenza socialista ha squadernato davanti ai nostri occhi». Secondo queste logiche di Realpolitik corsara si concepisce meglio anche lo stile di governo praticato dal Craxi dei medi anni Ottanta. Se «sovrano è chi decide nello stato di eccezione», c'è un altro caso davvero esemplificatore di questo stile, quello di Sigonella: «Craxi, l' amerikano, - commenta Adriano Sofri (La questione socialista, cit.) - espugna in un sol colpo il territorio su cui il Pci, nato col peccato originale d'essere un partito di Mosca, aveva costruito la sua faticosa identità: il risorgimentismo, l'indipendenza nazionale, la denuncia della sudditanza agli Usa. Craxi maneggia il caso Lauro e i suoi sviluppi come capo del governo e insieme leader dell'opposizione». Il leader Craxi ignora il blocco del sistema politico, taglia in due gli schieramenti come fossero di burro, sconvolge l'atlantismo tradizionale degli alleati laici, scopre le venature antiamericane che serpeggiano sotto la pelle della Dc, brucia la terra sotto i piedi del Pci. Per finire, dopo la crisi e il reincarico, legittima la propria (discutibile, eccome!) posizione con un discorso parlamentare di violenza inaudita, passato alla storia perché accomuna Giuseppe Mazzini e Yasser Arafat nella giustificazione della lotta armata per la sovranità nazionale. Forse a quel punto la sinistra sarebbe pronta a conferirgli un'investitura, se qualcun altro, a sinistra, possedesse analoga fantasia politica e decidesse che vale la pena di tentare un'alternativa sotto la copertura carismatica del capo del Psi. Ma è anche lo stesso Craxi che non se la sente di proseguire nelle scorribande movimentiste dentro il sistema parlamentare, e rinuncia alle occasioni di sconvolgere alleanze e rivalità cercando equilibri questa volta sì più avanzati con radicali e Verdi. Dopo un lungo attimo con il fiato sospeso, non succede niente. Il Pci è alle prese con il dopo-Berlinguer, e prepara la sua evoluzione fatta di ricorrenti involuzioni. Craxi, bocciata la «staffetta» di governo con la Dc, va alle elezioni, guadagna tre punti percentuali e se li mette in tasca. Poi si siede sulla sponda del fiume, e attende che la lunghezza dell'onda di piena socialista gli riconsegni quanto la contrattazione partitica gli ha nuovamente sottratto. Il riflusso e l'attendismo Ma il fiume è traditore: serpeggia, ristagna, imbocca cunicoli carsici. Alle attesissime elezioni europee dell'89, nonostantela sindrome cinese, l'effetto Tiananmen, mentre il Pci resiste più del prevedibile, il Psi cresce di uno striminzito mezzo punto; alle amministrative del '90, il Pci comincia a sgretolarsi, e il Psi pesca un altro mezzo punto. Anche se è l'unico partito a non perdere sullo sfondo dell'attacco leghista, l'onda è più lenta del previsto. Forse per questo motivo, Craxi si trova nella condizione di dover temporeggiare. Sul piano dell'immagine ciò non gli è troppo funzionale: che cosa rappresenta per l'opinione pubblica un «governatore che non può governare», un decisionista senza decisioni da prendere? È probabile che dopo avere movimentato dall'interno il sistema politico, per riprendere concretamente l'iniziativa gli occorra un avvenimento esterno, uno shock sugli equilibri dei partiti. Può essere la concorrenza del senatore Bossi alla Dc nell'Italia settentrionale, oppure il rapido degrado di un Partito comunista ormai sempre più ex. Sta di fatto che, nell'attesa della condizione più favorevole, deve annidarsi dentro il governo, tenere le posizioni, aggrapparsi all'alleanza con Andreotti e Forlani. La ricontrattazione complessiva del potere con la Dc è una specie di garanzia impropria per evitare che qualche sommovimento imprevisto o gli spasmi del sistema paralizzato producano un cambiamento di regole che il Psi giudica sfavorevoli. Dalla conclusione del «patto del camper» con Arnaldo Forlani, il segretario socialista entra definitivamente installo: priva la strategia socialista del suo strumento più tradizionale e sperimentato, vale a dire la rivalità con la Dc all'interno della medesima coalizione di governo. Per qualche tempo, sulla politica italiana si dispiegano gli effetti di un faticoso «trattato globale», una specie di] alta all'italiana, che ridisegna le posizioni dei due partiti, assegna i posti di governo, definisce gli accessi alle maggiori cariche istituzionali, e via via ricompone gli assetti in tutte le articolazioni degli organi pubblici, nelle amministrazioni locali, nell'informazione, nelle banche. La riconosciuta lealtà del Psi nei confronti dell'esecutivo sottolinea il rispetto degli impegni assunti nel nome della vecchia idea della governabilità, ma a questo punto rappresenta anche il coperchio sistemato ermeticamente sulle prospettive del partito. Anche quando manda in crisi il penultimo «esausto» governo Andreotti, a metà marzo 1991, Craxi deve comunicare all'assemblea nazionale socialista che la collaborazione con la Dc non è affatto esaurita e orizzonti di alternativa non se ne vedono. Per potere esercitare questo sfibrante surplace in attesa di occasioni più favorevoli, i socialisti sono obbligati però a rinunciare a qualsiasi spinta riformatrice sul terreno istituzionale. Anzi, il presidenzialismo socialista, tutt'ora non definito nell'ambito delle regole generali di un sistema politico rifondato, e non suffragato da ipotesi definitive di riforma elettorale, è servito soprattutto come deterrente rispetto alle riforme altrui. Il quesito di fondo della nuova condizione socialista lo ha posto sinteticamente ma in modo stringente Gian Enrico Rusconi ( «MicroMega», 2/1991): «Il Psi ha raggiunto la maturità necessaria a guidare l'operazione presidenzialistica? Oppure sta semplicemente sfuggendo all'esaurimento delle sue risorse?». Un possibile e approssimato schema interpretativo del comportamento socialista, intermedio fra le due domande estreme poste da Rusconi, è allora il seguente. Il Psi non può accettare una mutazione per partenogenesi del sistema politico che conduca a effetti per lui indesiderati. Deve attendere, avere pazienza, aspettare che si creino le condizioni per un'offensiva con ragionevoli probabilità di successo. L'attendismo socialista è stato più volte teorizzato a chiare lettere sulla rivista teorica del partito: «per l'Italia, - ha scritto infatti Salvo Andò su «MondOperaio» (aprile 1990) - riteniamo che bisogna guardare in due possibili direzioni. Una è certo quella del bipartitismo. A questo però fa ancora ostacolo un fattore essenziale: il fatto che in uno dei due possibili poli coesistono culture e in culture di governo ... l'introduzione di un bipolarismo coatto favorirebbe soltanto un polo dello schieramento, condannando l'altro alla lacerazione: alla vecchia lacerazione tra riformismo e avventurismo». Che è un bell'argomento ad un tempo per dirsi di sinistra, attribuire al P ci l'impraticabilità dell'alternativa, ed essere contrari alla riforma con premio di maggioranza alla coalizione vincente. Difatti, suggerisce Mario Patrono nella stessa sede (ottobre 1990), per accettare un modello liberale di alternanza, «al Pci ... ci vuol tempo, e forse un paio di elezioni da tenere ancora con la proporzionale: la quale, secondando le fasi fortemente dinamiche del quadro politico e dei singoli partiti, dovrebbe consentire al Pci di maturare quel processo di chiarificazione interna e di avvicinamento alle posizioni del socialismo riformista che costituiscono la premessa per una modifica in senso maggioritario della legge elettorale da fare in un disegno organico di riforme istituzionali». Ecco allora che il Psi dichiara a gran voce «incostituzionali, incostituzionalissimi », nelle parole di Craxi, i tre referendum elettorali promossi da Mario Segni; e più di recente un caso di «ubriachezza molesta» la volontà di tenere il 9 giugno 1991 l'unico referendum non bocciato dalla paternalistica sentenza della Corte costituzionale, quello sulla riduzione a una sola delle preferenze nel voto per la Camera (dimenticando, sulla scia della diversità del momento politico, che questa soluzione era stata indicata a suo tempo come uno dei punti fermi della della Grande Riforma socialista). E ancora, ecco il Psi assumersi la responsabilità di azzerare l'opportunità/rischio di riforme istituzionali, durante la complicata trattativa di aprile per la formazione dell'Andreotti settimo: ciò che era apparso come un paradossale miracolo della politica italiana, con la classe politica che accettava di autoriformarsi per superare il sistema di veti che essa stessa aveva posto in essere, cioè puntava su una soluzione miracolistica per l'incapacità di produrre soluzioni «normali», viene bloccato in extremis da Craxi con un rilancio del presidenzialismo, via referendum propositivo, inaccettabile per la Dc. Tutto comprensibile, tutto legittimo. Ma al prezzo di alcune conseguenze. Innanzitutto un legame sempre più intenso, che l'immaginario collettivo ha enfatizzato nel Portaborse impersonato da Nanni Moretti, con le zone d'ombra del sottogoverno. L'identificazione definitiva, da parte dell'opinione pubblica, del Psi come componente di quel «sistema di potere democristiano» che «MondOperaio» si affanna a censurare e di fronte al quale Giorgio Ruffolo non smette di sospirare. Su un piano più generale, l'accentuazione di uno statuto di rivalità rispetto al partner Dc - come ultima risorsa di differenziazione - che non mancherà di produrre ulteriori occasioni di disordine amministrativo nel finale elettoralistico della legislatura. E infine il sospetto più imbarazzante: vale a dire che per qualche misteriosa ragione il partito del movimento si sia trasformato rattrappendosi in fattore di blocco del sistema politico. Se si comprendono agevolmente le ragioni per cui il Partito socialista è diventato, da neo-liberale o neo-corporativo, neo-attendista, non è detto però che alla grandezza delle attese debbano seguire necessariamente risultati proporzionali. Temporeggiare troppo a lungo può risultare pericoloso, e difatti Craxi, nell'ultima crisi di governo, aveva tentato di andare subito allo scioglimento delle Camere e alle elezioni anticipate. Non gli è riuscito, e ora deve aspettare ancora. Intanto, il principio di novità politica, incarnato dal Psi negli anni Ottanta, gli è stato sottratto dalle Leghe (i «grandi eversori», come li ha definiti Giuliano Amato: ma un esorcismo non fa una contromossa politica). Per resistere i dodici mesi che mancano alla fine naturale della legislatura, Craxi deve proporre all'opinione pubblica una visione bifocale, capace di distinguere fra il ristagno di oggi e le promesse di domani: cioè brandire la soluzione presidenzialista a venire come l'unica svolta istituzionale capace di produrre una vera trasformazione; e nello stesso tempo convincere l'opinione pubblica che solo in nome di quell'altissimo obiettivo ha dovuto sottomettersi all'obbligo penoso di bocciare le bassezze riformiste degli altri partiti suoi alleati. È un esercizio di alta acrobazia, che in altri momenti si sarebbe giudicato facilmente come pretestuoso e condannato al fallimento. Ma nel clima di insofferenza per il sistema partitocratico, e considerando il probabile crescente desencanto di una sinistra sempre più frammentata e priva di leader veri, chi può giurare che rispetto al basso profilo degli altri partiti storici non risulti più attraente, mobilitante, «plebiscitabile» insomma, il funambolico, apparentemente schizofrenico, strabismo craxiano?
Il Mulino, 09-10 1991, Cattolicesimi italiani
La Chiesa e i partiti: tracce di un disegno politico
Fino a non molti mesi fa, in maggioranza gli osservatori, non solo laici, erano adagiati nella convinzione stereotipata che la religione in Italia fosse un fenomeno sostanzialmente residuale, religiosità ridotta a una dimensione individuale, il brusio psicologico all'interno di una società scristianizzata, con scarsi e ininfluenti riflessi sulla dimensione politica. E che se la Chiesa produceva un impatto politico ciò avveniva in misurata e stringente sintonia con l'azione di papa Wojtyla, cioè su un orizzonte esplicitamente planetario, ora caratterizzato da toni carismatico-profetici (talvolta profetici anche nell' esplicarsi visibile della loro potenza simbolica), ora inciso nel vivo di questioni geopolitiche talmente ampie da risultare a lungo pressoché incomprensibili (dal momento che prima del 1989 nessuno avrebbe potuto ragionevolmente immaginare i portenti che si sarebbero osservati in Europa). Anzi, l'immagine esteriore del cattolicesimo italiano risultava schizofrenica proprio per la fortissima efficacia internazionale del papato wojtyliano e la bassa intensità apparente del ruolo cattolico all'interno dei confini italiani. Un'opportunità politica per la Chiesa Il primo shock contro le certezze collettive si è verificato con lo scoppio della guerra del Golfo. Risulta adeguato parlare di un trauma perché il conflitto in Medio Oriente ha posto il nostro paese di fronte all'imprevista constatazione che il mondo cattolico esisteva davvero. Che le parole del papa producevano conseguenze assolutamente inaspettate. Che il pacifismo cattolico costituiva una realtà politica dalla consistenza tutta inattesa. Di fronte a questa constatazione così sorprendente, quello che per comodità, prescindendo dalle sue sfaccettature, chiamiamo il mondo laico, ha avuto due reazioni distinte: dapprima ha manifestato stupore, come succede di fronte ai prodigi; subito dopo è caduto preda di un riflesso condizionato nella cui ultima sequenza si esprimeva un riscontrabile senso di timore. Alcuni osservatori, in quanto erano completamente estranei a quel mondo, si sono davvero spaventati, di fronte all'imprevisto riapparire di un fantasma: salvo poi, con un esorcismo intellettuale piuttosto tipico, trasformarsi rapidamente in esperti della reviviscenza cattolica. Vale la pena di sottolineare qualche passaggio significativo. Ricordiamo tutti, durante il conflitto contro Saddam Hussein, le parole di Giovanni Paolo II: la guerra bollata come «avventura senza ritorno», poi una precisazione con il monito alla ricerca di una pace «giusta». Non è il caso qui di condurre un'esegesi sul significato reale delle espressioni del pontefice: si deve però porre in evidenza che, comprese o strumentalizzate, le parole del papa provocarono alcuni effetti immediati e appariscenti. Diventarono con estrema rapidità la parola d'ordine, oltre che di larga parte dei movimenti cattolici (non solo di quelli di sinistra), anche del nascente Pds. È noto che al congresso di autoscioglimento del Pci a Rimini la posizione pacifista espressa da Achille Occhetto sulla guerra era stata interpretata come la fine di qualsiasi realistica prospettiva di alternativa per i prossimi anni, e di conseguenza poteva significare il drammatico autoisolamento di un partito che si stava rifondando per entrare a pieno titolo nella partita politica. Sotto questa luce si può giudicare opportunistico quanto si vuole il «papismo» di Occhetto, un tentativo di riallacciare nella società e all'insegna di un insospettabile vessillo ideale il filo che gli stava sfuggendo nel campo più strettamente politico. Ma non è questo che conta. Ciò che importa è che in molti si convinsero che la posizione della Chiesa non rispondeva a una logica sua propria, ispirata dalla teologia o modellata dall'etica cristiana, ma era più propriamente il risultato di un sottile e spregiudicato calcolo politico. Secondo questa linea di ragionamento, il papa, la Conferenza episcopale, la gerarchia cattolica avevano individuato nel panorama del nostro paese una finestra di opportunità. Avevano intuito che nella società italiana esisteva un vuoto politico, ideologico, morale, e avevano deciso di occuparlo. Ovviamente non si potevano ancora conoscere le forme che questo calcolo avrebbe potuto assumere sul terreno concreto, ma adottando questa chiave di analisi molti elementi inducevano a pensare che la Chiesa avesse deciso di aprire una partita strategica di lungo respiro. Cattolicesimo e politica: due instabilità Gli indizi, o le opportunità verificabili, di un disegno strategico si profilavano numerosi e almeno in apparenza stringenti, per quanto estrinseci alla Chiesa. In effetti, la distanza ormai plateale fra politica e collettività può rendere appetitoso lo spazio pubblico che si è spalancato fra cittadini e classe politica. La crisi del Pci, prima, e l'insufficiente slancio del Pds, poi, hanno contribuito a rendere orfana buona parte della sinistra (senza dire del collasso ideologico del comunismo). L'insofferenza di parte del mondo cattolico per il metodo di governo andreottiano ha aperto altri spazi. Si può dire che nasce a questo punto quella che si potrebbe definire la «paura laica». Se la Chiesa si mette a fare politica, quali saranno i risultati di questa presa di iniziativa dentro una situazione istituzionale che non è caratterizzata né dalla solidità né dall'efficienza? Saranno inevitabilmente destabilizzanti, se è concessa una instabilità ancora maggiore in una realtà già ampiamente destabilizzata. In realtà la tesi del calcolo politico si regge su elementi che a un esame più ravvicinato risultano in sostanziale contraddizione. Certo, la Chiesa può suscitare del movimento e trovare sponde e connessioni dentro certi partiti (o in alcune loro correnti). Ma non si va lontano dal vero dicendo che in questo momento chi dovesse scommettere sui partiti rischierebbe di firmare cambiali che minacciano di finire in protesto. In parallelo, scommettere sulla società, sull'associazionismo, sui movimenti, sul volontariato, proprio a causa della distanza fra società e politica, rischia di rivelarsi una scommessa di periodo troppo lungo per avere una valenza politica praticabile in termini ragionevoli. In ogni caso, la situazione non era più immobile. Il «disagio cattolico» era affiorato già da tempo, la distanza dalla Dc di alcune componenti del cattolicesimo italiano si era certamente approfondita. In prospettiva, la fuoruscita di Leoluca Orlando dalla Dc darà pure luogo a un fenomeno marginale politicamente ed elettoralmente, ma riesce difficile, ad esempio, definire marginale il fatto che la Dc andreottiana non sia riuscita a metabolizzare l'eresia palermitana e la Rete attraverso il consumato gioco negoziale di concessioni e risarcimenti politici che ha sempre contraddistinto la sua azione nei confronti delle potenziali eresie politiche ai suoi danni. E ancora meno marginale appariva la ventata pacifista che aveva investito il tradizionale insediamento democristiano nel cattolicesimo del nostro paese. Soprattutto perché ha messo definitivamente in discussione, e profondamente, forse per la prima volta con tale intensità, l'effettiva rappresentatività democristiana del mondo cattolico. Anche l'elettore cattolico medio, quello di cui si presume che non abbia marcate simpatie di sinistra, si è trovato a dover fare i conti con una inedita differenza o sfasatura fra le posizioni del partito e quella di ambienti consistenti del mondo cattolico. È sembrato che alcuni legami si stessero di giorno in giorno allentando. Per una volta, il quietismo naturale, l'antibellicismo spontaneo della componente cattolica della società italiana, è sembrato trovarsi istintivamente più vicino agli appelli alla pace lanciati da sinistra anziché alle posizioni espresse per voce governativa. Associazioni, movimenti, la galassia del cattolicesimo sociale ha assunto una posizione divaricata rispetto a Andreotti. «Il pacifismo che è prevalso nel mondo cattolico - ha scritto Gianni Baget Bozzo - è un caso classico di sostituzione di un rigore etico a una fede che non sa più darsi motivazioni: è infatti sostenuto da tutti coloro che lo appoggiano con motivi che non si fondano sulla tradizione cattolica. Ma esso è divenuto un riflesso diffuso e l'obiezione di coscienza appare di per sé più nobile del servizio militare mentre il cristianesimo è visto spesso come una dottrina radicale del non uso della forza». Sta di fatto che questo «riflesso diffuso» almeno un effetto politico lo ha provocato: per una volta infatti è rimasto tagliato fuori e ridotto al silenzio lo strumento più tradizionale e sperimentato che nel corso dell'evoluzione politica italiana era servito almeno nominalmente a tenere aperto il dialogo con il cattolicesimo sociale: vale a dire la sinistra democristiana. Nello stesso tempo, a «destra», Comunione e liberazione cominciava a prendere le distanze dalla Dc, assumendo un atteggiamento di insoddisfazione che si sarebbe espresso nella non troppo celata «freddezza» riservata a Giulio Andreotti durante il Meeting ciellino dell'agosto 1991. In sé e per sé, dunque, l'impressione di un ragguardevole rimescolamento del cattolicesimo politico italiano era sostanzialmente adeguata alla realtà. Ma insieme con questa constatazione va posto in rilievo un aspetto di fondo, che forse non è stato sufficientemente chiarito: cioè che si trattava di un rimescolamento che non avveniva nel vuoto, ma si collocava bensì in sincronia con il processo dissolutivo del nostro sistema politico. Era, questa, la principale differenza rispetto alla diaspora cattolica della metà degli anni Settanta, che aveva trovato senza fatica punti di riferimento politici esterni alla Dc. Se ne poteva dedurre con una certa facilità che mentre un mondo si rimescola e un altro mondo sta procedendo, da tempo e sistematicamente, nel suo gioco con il suicidio, i punti d'incontro fra la Chiesa e la politica non potevano, in realtà, che divenire sempre più precari. Non si verificava affatto il mutamento di una parte, il mondo cattolico, che avrebbe potuto trovare approdi diversi su altre rive politiche, entro uno spettro politico dai confini stabili e dalle qualità definite. Ciò che si manifestava era piuttosto l'incrociarsi di due instabilità, di due fluttuazioni. Attenzione all' enciclica Non è il caso di avere fretta di trarre conclusioni ultimative, dal momento che questa intensificata fluidità, per l'appunto, non ha ancora trovato occasioni per delineare nuovi tipi di alleanza politica o per prospettare nuove occasioni di incontro politico fra cattolici e partiti diversi dalla Dc. Resta il fatto indubitabile, in ogni caso, che l'ondata d'urto provocata dal dibattito pubblico durante la Guerra del Golfo non è stata priva di conseguenze, dal momento che da allora in poi ogni pronunciamento della Chiesa, ogni presa di posizione dei vescovi, ogni discorso del papa è stato accolto con un'attenzione estremamente acuita rispetto al passato. Il caso più sintomatico, in tale senso, è stato quello dell'enciclica Centesimus Annus. Le precedenti encicliche di dottrina sociale (la Laborem exercens e la Sollicitudo rei socialis) avevano riscosso un'attenzione assai tiepida. Perfino una grande enciclica come la Slavorum apostoli (1985), che rivelava molto dell'atteggiamento del pontefice polacco verso l'Est europeo, era stata accolta e commentata quasi solo dagli esperti di cose vaticane. Enunciare le ragioni dell'improvviso interesse per la lettera pastorale emanata nel centenario della Rerum Novarum equivale per molti versi a stilare un catalogo di ovvietà. L'esaurirsi della sfida fra due modernizzazioni contrapposte, con la fine del socialismo reale e il crollo dei regimi comunisti (quelli che il cardinale Ratzinger aveva definito «la vergogna del nostro secolo»), e la «vittoria» del capitalismo, o meglio della società aperta; e tuttavia anche il tramonto piuttosto accelerato del reaganismo, consegnato velocemente a una fase storica conclusa. La Centesimus Annus faceva quindi da coagulo a una discussione che era nell'aria. A questo proposito, risulterebbe certo infantile dare voce alla polemica antiliberale sostenendo che anche il capitalismo «non ha risolto i problemi», dal momento che è fisiologico per le società avanzate che affrontato un problema se ne presenti un altro, o altri dieci. Tuttavia, con gli anni Novanta, dopo l'esaurirsi del decennio individualista e «rampante», sul capitalismo si è cominciato a riflettere. Nel momento in cui l'economia di mercato è uscita dalla sfera di un giudizio ideologico e si è accettato che fuori di essa non esiste sviluppo, si è cominciato a prendere atto che di capitalismi puri non ce ne sono: esistono varianti locali in cui l'economia privata si mescola con quella pubblica, esistono capitalismi intrecciati con il sistema bancario e le organizzazioni sindacali, esiste un capitalismo che corpora gli interessi innestandosi su modelli sociali a forte tenuta. E allora si è fatta strada la convinzione che interrogarsi sul capitalismo non significa più proporre l'illusione della «terza via» o fughe dalla realtà, bensì chiedersi assai più pragmaticamente qual è la forma di sviluppo economico e sociale più adatta a una distribuzione equa delle risorse disponibili, oppure, dicendolo con parole più contigue al lessico papale, alla salvaguardia della dignità della persona. È stato significativo in questo senso (anzi, di più: sintomatico) che un sacrario dell'economia capitalistica come il «Wall Street Journal» abbia accolto il messaggio papale in termini non sfavorevoli. Una sfida, ha commentato. Nel momento in cui nel mondo occidentale, ogni paese per suo conto, secondo le proprie tradizioni e culture, deve scegliere a quale modello di economia accedere, la posizione espressa dalla Chiesa ha fatto prima tirare a molti un sospiro di sollievo, visto che era sfumato il rischio di una anacronistica scomunica del mercato, e poi ha innescato un dibattito ad alta partecipazione. Certo, nel capitalismo ci possono essere «strutture di peccato», l' iperconsumo brutale che devasta l'ambiente, la riduzione dell'individualità umana a funzione anonima, l'annichilimento delle solidarietà. Ma ci possono essere anche risorse positive e meccanismi potenzialmente efficaci per migliorare il benessere delle persone e favorire l'aspettativa di intensificare la pienezza dell'esistenza. Tuttavia sembra di poter dire con qualche sicurezza che sul contenuto e sul significato dell'enciclica si riverberava soprattutto un certo senso di perdita, di spaesamento dopo il dissolversi da un lato di un punto di riferimento ideologico, e dall'altro il conseguente rimodellarsi della riflessione sulle società liberali. Una volta accertata la «superiorità» del modello occidentale, essa diveniva priva di termini di confronto; i fallimenti del mercato, e le ingiustizie pure e semplici, ne uscivano soli di fronte a se stessi: a questo punto la parola del pontefice si prospettava con una carica nuova. Se da un punto di vista di larga prospettiva ciò costituiva soltanto l'avvio di un dibattito politicoculturale destinato a coinvolgere anni, se non decenni, dello sviluppo intellettuale del nostro mondo, e a stabilire lo spettro delle domande «forti» relative alla civiltà occidentale, nel breve periodo, nel corso di una discussione pubblica breve quanto intensa, significava qualche cosa di assai più limitato e grossolano: vale a dire che la Chiesa si riaffermava come soggetto primario del discorso politico, e quindi confermava un proprio ruolo che la fatale disattenzione precedente faceva percepire sotto il crisma dell'inedito. Papisti e antipapisti Scendere sul terreno della minutaglia politica potrà sfiorare il grottesco, dopo le altissime poste messe in palio dalla Centesimus Annus. E tuttavia forse non è del tutto errato rintracciare proprio nel clima di attenzione e stupore che si è creato nella prima parte del 1991, in quella centralità della Chiesa ricostituita mattone su mattone dalle attese esterne, ben più che da un calcolo interno, le premesse per tentare di comprendere il succedersi di polemiche che hanno scandito i mesi successivi. Certo, esistevano anche più concrete e urgenti ragioni inerenti a uno scontro politico in atto. Era apparso chiaro, ad esempio, che sull'esito del referendum sulla preferenza unica alla Camera aveva influito in modo decisivo l'atteggiamento assunto dall'associazionismo cattolico, anzi, dall'opinione pubblica cattolica nel suo insieme. E si può attribuire a un'atmosfera di fatto preelettorale, con un Psi reduce da due gravi sconfitte politiche (referendum ed elezioni siciliane), l'attacco a freddo portato da Claudio Martelli durante il congresso straordinario socialista di Bari, svoltosi a fine giugno, contro il «nuovo temporalismo» cattolico (a cui fece seguito nella replica congressuale la precisazione craxiana secondo cui il Psi intendeva criticare non tanto il magistero ecclesiastico né tantomeno il papa, quanto un «clero politicante» che perseverava nel voler mischiare sacro e profano, fede e politica). Da queste attestazioni, nelle quali talvolta sembrava riecheggiare un'enfasi curiosamente ottocentesca, si poteva cogliere un senso piuttosto preciso. Vale a dire che il mondo cattolico, per il maggiore partito laico di governo, risultava attraente e politicamente praticabile fintanto che poteva essere considerato nei termini di una riserva indiana, popolata dagli ultimi esemplari di una civiltà in estinzione e quindi suscettibile di saccheggio elettorale. Il commentatissimo incontro del medesimo Martelli al Meeting di Comunione e liberazione nel 1988 era stato reso possibile dal fatto che in quel momento non si avvertiva traccia di un'azione della gerarchia che rivelasse disegni o progetti concorrenziali nella sfera della politica. Comunione e liberazione appariva quindi a un partito allora movimentista come il Psi un movimento che al di là della sua dichiarata affiliazione andreottiana non risultava «organico» a una definita strategia ecclesiastica. Non appena invece cominciava a prospettarsi il revival della Chiesa, scattava automaticamente il congegno di difesa «laico», che si traduceva immediatamente in segnale di battaglia politica. Tutto questo, malgrado risultasse oggettivamente arduo interpretare l'azione papale e le posizioni dei vescovi come una rentrée in grande stile nella lotta fra i partiti. Nei giorni dello scontro provocato da Martelli, una ironica dichiarazione del vicesegretario democristiano Sergio Mattarella sintetizzava alla perfezione l'intreccio fra religione e politica, magistero della Chiesa e logica di partito, ragioni alte della dottrina ecclesiastica e ragioni lievemente più basse della politica applicata: «Se c'è un'elaborazione veramente progressista sulla convivenza umana è proprio la Centesimus annus. Forse Martelli teme che la Dc traduca l'enciclica in iniziativa politica: se questa è la sua paura, è fondata». La polemica sul «papismo» era cominciata da qualche mese: aveva serpeggiato durante la discussione pubblica sulla guerra del Golfo, e aveva trovato il più radicale degli interpreti in Paolo Flores d' Arcais, che all'inizio di aprile, nel numero 2/91 di «MicroMega», aveva aperto il fuoco con un lungo articolo che diceva tutto già nel titolo: «Pacifismo, papismo, fondamentalismo: la santa alleanza contro la modernità». Nei giorni della guerra, cominciava Flores d' Arcais, «Karol Wojtyla, il papa del pacifismo, ha celebrato il suo trionfo più grande: la riconquista dell'Occidente. Unica autorità morale universalmente riconosciuta, le sue parole sono divenute il punto di riferimento obbligato di ciò che per convenzione si chiama ancora "sinistra", mentre nessuna critica esplicita si levava contro il suo discorso neppure dalle variegate sponde interventiste». Seguiva un catalogo degli «ismi» del Wojtyla-pensiero, dal pacifismo all'integralismo al fondamentalismo, che tuttavia sembrava esprimere soprattutto l'irritazione per l'abdicazione «papista» del Pds: «Di fronte alla crisi dell'Occidente, una risposta possibile esiste, e si chiama coerenza, non già rinuncia». Sembra di avvertire in queste parole soprattutto l'irritazione «laicista» e radicale per il dérapage di Achille Occhetto verso le posizioni papali, la presenza vagamente incongrua di D' Alema e Veltroni all'Angelus in San Pietro, l'entusiasmo da neofiti manifestato dal Pds dopo la propria mutazione genetica. L' «impegno unitario» dei cattolici in politica C'erano due prospettive, nascoste dentro il dibattito sul neo-temporalismo. Dopo l'offensiva di Martelli, Rocco Buttiglione, filosofo e ideologo di Comunione e liberazione, aveva intuito con lucidità che da parte del Psi, soprattutto da parte di coloro che con più calore avevano applaudito il vicesegretario, c'era stato semplicemente un errore di valutazione politica, «un rigurgito di visceralità anticattolica»: che tuttavia a suo parere portava a un solo esito, «serve a galvanizzare gli animi dei seguaci ma regala alla Dc l'unità politica dei cattolici». Mentre in un ampio articolo sulla «Stampa» del 6 luglio, Ernesto Galli della Loggia metteva in luce l'altro aspetto, vale a dire il formarsi di una posizione della Chiesa antagonistica rispetto al sistema politico: «In generale, la chiesa negli ultimi tempi si è offerta come non mai- e con successo del tutto inedito - nel ruolo di matrice, collettore e veicolo di opzioni eticosociali, molto spesso ad alto contenuto di conflittualità politica, non tanto verso questo o quel partito, ma verso quel che si può definire il regime politico nel suo complesso». Passata l'estate, proprio l'unità politica dei cattolici e la critica del sistema politico sarebbero divenuti i due temi su cui si è concentrata l'attenzione della Cei. Quando il 23 settembre il cardinale Camillo Ruini aprì una riunione del Consiglio permanente della Conferenza episcopale con una «prolusione» dedicata alla religiosità, alla fede e al sentimento morale degli italiani, ci fu una specie di risposta automatica, sia degli uomini politici sia degli organi di informazione, che interpretarono senza scampo il discorso del presidente della Cei come un sostegno all'unità politica dei cattolici entro il partito democristiano. In realtà, nelle dodici fitte cartelle lette da Ruini ai vescovi, la parte schiettamente politica era assolutamente minima. Nell'interpretarla, ci sarebbe voluta qualche precauzione. Si sarebbe dovuto ricordare che la libertà politica dei cattolici rappresenta ormai non tanto un problema, individuale e collettivo, quanto piuttosto un dato di fatto statistico, certificato dai risultati elettorali. Aveva scritto qualche mese prima Gianni Vattimo, quando infuriava la discussione su «papisti e antipapisti»: «È difficile credere che la forza elettorale della Dc dipenda ancora, come certamente dipendeva in passato, dall'appoggio del Papa e dei vescovi; un simile pregiudizio rispecchia forse solo una debolezza della cultura politica laica, che non riesce a figurarsi come mai la gente continui a votare Dc se non per qualche motivo superstizioso, o comunque extra politico, che le fa chiudere gli occhi davanti agli esiti disastrosi dei governi democristiani». Eppure la reazione al discorso di monsignor Ruini è stata pressoché unanime, da una parte e dall'altra, e perlo più priva di sfumature. In campo democristiano si è assistito alla consueta difesa d'ufficio; sul fronte laico si è gridato come al solito all'ingerenza. Ora, al di là dell'irritazione immediata che riescono a provocare gli interventi della gerarchia ecclesiastica sul terreno politico, forse sarebbe stata necessaria una maggiore prudenza. Si sarebbe potuto riflettere sul fatto che il cardinale Ruini è un politico troppo sottile per consegnare agli atti della Repubblica italiana qualcosa che assomigli seppure vagamente a una grossolana ingerenza politica. Il suo discorso, semmai, appariva insidioso per ragioni esattamente opposte a quelle per cui si è attirato le critiche generali. Ruini non aveva mai nominato la Dc. La sua sottolinea tura della «convergenza e unità di impegno dei cristiani» era riferita a una serie di valori («il primato e la centralità della persona, il carattere sacro e inviolabile della vita umana in ogni istante della sua esistenza, la figura e il contributo della donna nello sviluppo sociale, il ruolo e la stabilità della famiglia nel matrimonio, il pluralismo sociale e la libertà di educazione, l'attenzione privilegiata alle fasce più deboli della popolazione, la libertà e i diritti inviolabili degli uomini e dei popoli, la solidarietà e la giustizia sociale a livello mondiale»), valori la cui tutela o il cui perseguimento non sono aggiudica bili a priori come prerogativa di un singolo partito politico. Nella sua trasparente trasversalità, «l'impegno unitario dei cattolici nella libera maturazione delle coscienze» potrebbe essere accolto esattamente come ha fatto a caldo il parlamentare del Pds Carlo Cardia, il quale dichiarò di trovarsi concorde con Ruini nell'individuare un nesso vincolante fra cattolicesimo e politica. A un'analisi appena più approfondita, si sarebbe potuto sospettare che l'intervento della Chiesa fosse molto più sofisticato e importante di quanto appariva sui giornali. In questo senso, la prolusione del cardinale non sarebbe stata tanto pericolosa perché banalmente e anacronisticamente sembrava indicare nella Dc la mediazione politica necessaria fra Chiesa e mondo cattolico, bensì in quanto avrebbe annunciato un'assunzione di ruolo della gerarchia nella politica italiana con contorni completamente nuovi. Dalle parole del presidente della Cei si poteva pensare a una Chiesa che tenta di ergersi direttamente a protagonista del dibattito politico, non più usando come strumento la fiacca Dc dorotea, ma chiamando all' «impegno unitario» i cattolici presenti in tutti i partiti. Per ogni spirito laico, o comunque geloso delle distinzioni fra ambiti istituzionali differenti, un'ipotesi del genere può apparire in sé più preoccupante di qualunque volgare richiamo elettoralistico. Perché occorre tenere presente che, di fronte a una Chiesa forte e consapevole, si colloca un sistema di partiti avviati alla frammentazione e terrorizzati da ogni possibile perdita di consenso; e soprattutto un sistema di istituzioni allo sbando. E il pensiero di quali incontrollabili meccanismi potrebbe mettere in moto una specie di nuovo «trasversalismo» cattolico che guardasse prima al magistero della Chiesa che al significato civile della politica sarebbe stato sufficiente per giustificare ansietà molto più acute di quelle che si sono manifestate rispetto all'eventuale riapparire del tradizionale e conosciutissimo legame speciale della gerarchia con la Democrazia cristiana. Qualcuno può avere pensato che con una prova di flagrante esprit florentin monsignor Ruini avesse messo nel conto un messaggio a due livelli, in cui quello più basso poteva significare un monito alle parrocchie perché non si facessero tentare da esperienze politiche esterne alla Dc (vedi il caso della Rete), e che in fondo poteva essere percepito come un sottinteso invito alla comunità cattolica rivolto a porrele condizioni favorevoli per consentire all Dc di passare più tardi all'incasso elettorale. Ma che nessuno, sul fronte laico, abbia sospettato una portata maggiore nella posizione della Cei, risulta deludente fino all'imbarazzo. Esemplare di un plateale fraintendimento collettivo è stato il documento che il Psi ha inviato a Giovanni Paolo II, una irrituale e secondo il Vaticano «impertinente» dichiarazione di principi in cui si accusavano i vescovi di violare la Costituzione e il Concordato, il Concilio e l'enciclica Centesimus Annus. Rimasta in un'arena provinciale, la polemica laica non poteva neppure prevedere le evoluzioni successive dell'azione dei vescovi. I vescovi contro il «neo-feudalesimo» Così, le sorprese erano destinate a continuare. A metà ottobre, un curioso effetto di miopia incrociata a presbiopia ha indotto numerosi osservatori ad attribuire a un discorso del pontefice tenuto a Campo Grande, nel Mato Grosso, durante il tour brasiliano, il significato di una «correzione» rispetto a Ruini. «È un fatto evidente - aveva detto papa Wojtyla - che un'interferenza diretta da parte di ecclesiastici o religiosi nella prassi politica, o l'eventuale pretesa di imporre, in nome della Chiesa, una linea unica nelle questioni di Dio ha lasciato al libero dibattito degli uomini, costituirebbe un inaccettabile clericalismo. È anche ovvio che incorrerebbero in un'altra forma non meno pregiudiziale di clericalismo quei fedeli laici che, nelle questioni temporali, pretendessero di agire, senza alcuna ragione o titolo, in nome della Chiesa, come suoi portavoce, o sotto la protezione della gerarchia ecclesiastica». Liberali, repubblicani, Pds, missini hanno subito applaudito le parole del papa. Nel Psi le si è addirittura considerate come una risposta personale, al punto che Craxi ha rilasciato una dichiarazione di questo tenore: «Le inequivocabili parole di Giovanni Paolo II sul clericalismo degli ecclesiastici e dei laici chiudono una polemica spiacevole e anacronistica, che non si sarebbe mai dovuta aprire». Senza neppure sospettare l'asimmetria di tonalità delle sue parole rispetto al discorso papale, che conferiva al tutto una leggera ma percepibile sfumatura di surrealtà. Tuttavia che il mondo laico stesse davvero aprendo e chiudendo polemiche a vuoto, come un motore in folle, dovrebbe essere stato reso chiaro dall'ulteriore nota pastorale della Cei, resa pubblica il 12 novembre, intitolata «Educare alla legalità». Preparato dalla commissione «Giustizia e pace» della Conferenza episcopale, il documento costituisce uno dei più veementi atti d'accusa contro la situazione politica italiana che siano mai stati diramati ufficialmente dalla Chiesa. Conviene rileggerne qualche passo: «Affiora l'immagine di un risorgente neo-feudalesimo, in cui corporazioni e lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto stesso delle leggi, decise a ritagliare per proprio tornaconto un sempre maggiore spazio di privilegio». Si assiste a una «eclissi di legalità», in cui si affermano nuove e incontrollabili forme di criminalità, di fronte a cui «le risposte istituzionali sembrano spesso troppo deboli e confuse, talvolta meramente declamatorie ... Si tagli l'iniquo legame fra politica e affari. Siano facilitati gli strumenti di partecipazione diretta dei cittadini alle scelte fondamentali della vita comunitaria». Sergio Romano ha commentato con tempestività: «Documenti come "Educare alla legalità" si sono letti negli anni scorsi soltanto quando la Chiesa si è vista costretta a intervenire con il suo magistero morale nelle vicende delle più disastrate Repubbliche latino-americane» e che «per la prima volta dal Non expedit, e con tutt'altro spirito, la Chiesa italiana è scesa in campo contro la società politica». Già, ma con quale scopo? La Dc dopo la Dc? Avevo esposto all'inizio le ragioni per cui si poteva ragionevolmente considerare poco probabile per la Chiesa, e anche poco praticabile e scarsamente fruttuosa, la via di uno sbarco massiccio in politica: troppo distanti i partiti dalla società, e troppo distante la società dalla politica. Erano ragioni che potevano spiegare anche la sostanziale sopravvalutazione, quando non proprio una mancata comprensione, espressa dai laici nei confronti dei pronunciamenti di monsignor Ruini sull' «impegno unitario» dei cattolici in politica. Da un lato, infatti, l'ultimo documento pastorale, «Educare alla legalità», è sembrato assestare il colpo di grazia definitivo all'idea che esista un partito cattolico riconosciuto per sanzione ecclesiastica e che i vescovi facciano la campagna elettorale per la Dc. Tanto più che non si vede come l'asprezza della denuncia episcopale contro il collasso politico e civile dell'Italia non debba coinvolgere proprio il partito che ha governato durante tutto il dopoguerra e che quindi, secondo la formula di Bobbio, «è più responsabile degli altri». E difatti almeno all'inizio le reazioni degli esponenti della Dc al documento della Cei sono state estremamente caute, e colorite da un certo imbarazzo. Dall'altro lato, ci si può chiedere quale significato abbia l'intervento della Chiesa, in fondo se l'intensità della denuncia di un «regime» non sia il sintomo proprio di quella strategia di «invasione» del sistema politico di cui abbiamo già parlato. In ogni caso, il collocarsi della Cei contro il sistema politico rappresenta l'indizio di una scelta già effettuata. Quale sia questa scelta, è troppo presto per tentare di dirlo con sicurezza. Una delle prime interpretazioni è che la Chiesa abbia acciuffato per la coda il disagio, l'ansia, quasi il panico che in questo momento si diffonde nel paese, e se ne sia fatta interprete. In questo modo ha incamerato un patrimonio politico, che domani potrà spendere a piacimento, a mani libere. Scetticismo vuole, per chi guarda soprattutto al breve periodo, che alla fine questo patrimonio verrà fatto rifluire dentro la Dc. Dopo avere esorcizzato il mostro piovresco dell'Italia «neo-feudale», insomma, e avere contribuito all'ondata destabilizzante di disagio che agita l'Italia, è senz' altro possibile che in futuro la gerarchia ecclesiastica lasci capire ancora una volta che di fronte al possibile collasso, al trauma che chiede Cesare Romiti, allo shock che molti si aspettano o temono, l'unica forza politica in grado di assicurare una stabilità purchessia è inevitabilmente la Dc (e potrebbe addirittura darsi che non ci fosse bisogno di nessuna indicazione ecclesiastica, per giungere a una soluzione simile, dal momento che gli elettori sono rapidissimi a svolgere le loro deduzioni in proprio). Invece, secondo un'ipotesi più audace, la Chiesa potrebbe avere già scommesso su un'idea di raggio più ampio, che ha le sue radici nella premessa che fuori dalla Dc non pare esserci ancora un terreno politico favorevole (l'esperienza della Rete di Orlando sembra fatta apposta per intercettare voti che orbitavano intorno all'ex P ci, non per attrarre fasce di consenso democristiano). E allora potrebbe darsi che «Educare alla libertà» rappresenti il più forte segnale che sia possibile far pervenire alla Dc, un messaggio che in definitiva significa più o meno «rifondatevi». Angelo Panebianco ha indicato in prospettiva due possibili modelli evolutivi per la Dc: a un'estremità un partito di soli cattolici, integralista e in evitabilmente minoritario; all'altra estremità invece una formazione priva di stimmate confessionali, moderata e capace di rigore in politica, la Dc rimpicciolita in formato Mario Segni. Può essere che i modelli debbano convivere, sovrapporsi, confondersi: cioè può darsi che per ottenere una sorta di rinnovato avallo cattolico, per non essere più messa alla berlina come partecipe alla responsabilità dello sfacelo, per tornare a baciare l'anello e a godere della benevola attenzione della gerarchia ecclesiastica, la Democrazia cristiana debba raccogliere una specie di invito della Chiesa, per ora appena tratteggiato, a puntare le sue carte sul «modello Segni». Alcune parole di «Educare alla libertà», soprattutto quelle che si riferiscono a una più piena partecipazione dei cittadini alle scelte fondamentali della vita democratica sembrano lasciare trasparire una naturale, per così dire, «simpatia referendaria», quella stessa simpatia che è circolata ampiamente nelle parrocchie e nelle associazioni cattoliche durante la campagna per la consultazione sulla preferenza unica. Chissà, forse la Chiesa ha acceso un'ipoteca su un'altra Democrazia cristiana.
Il Mulino, 11-12 1991
L’ultima recita dei partiti
Un'atmosfera da ultima spiaggia si è diffusa durante il 1991 nel nostro Paese. È stata stupefacente e brutale la rapidità con cui la tendenza generale si è rovesciata. Il passaggio dal clima di festa collettiva degli anni Ottanta ai poveri saldi di fine stagione dei Novanta ha fatto mozzare il fiato, e ha riportato in primo piano il plumbeo clima dei tempi della stagnazione. Sono bastati pochi mesi, a partire dalla guerra del Golfo, perché quasi tutti gli indicatori economici assumessero un segno negativo; la cattiva congiuntura mondiale ha cominciato ad assomigliare minacciosamente alla recessione; i timidi segnali di ripresa nel corso dell'anno sono apparsi via via più contraddittori e deludenti. Alla fine, la situazione italiana si è configurata come una perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma politico pericolosamente vicino al collasso del sistema. Quel che forse è peggio, l'idea che l'Italia è un malato terminale si è diffusa irresistibilmente, permeando la collettività con quella che si potrebbe chiamare senza retorica una cultura del pessimismo. Aspettative tutte di carattere negativo sono divenute l'unico orizzonte visibile. Non è un caso che lo scrollone più appariscente, quello che è sembrato innescare l'alterazione di un sistema di equilibri ampiamente collaudati, sia venuto dai settori geneticamente filogovernativi, quelli dell'imprenditoria e dell'industria. Ma diverse altre linee di crisi, svariate linee di faglia di possibili sconvolgimenti tellurici, si erano manifestate sul piano politico con cruda nitidezza nel corso dell'anno. Il primo bruciante caso di shock politico si è registrato ovviamente con il referendum sulla preferenza unica alla Camera svoltosi il 9- 10 giugno. A distanza di tempo, e quindi dopo avere assistito a mente fredda al modo in cui la «repubblica dei partiti» è riuscita finora a metabolizzare l'esito referendario, a ingoiare il rospo senza per il momento strozzarsi, il festoso plebiscito della primavera scorsa, quel 95,6 per cento dei votanti che ha detto «sì» alla liquidazione del sistema delle preferenze, sembra assumere le spoglie definitive di una solo tempora nea rivincita, o vendetta, politica dei cittadini sui corridoi romani, sulle auto blu, sulla prevaricazione esercitata per via tangentizia o captando il consenso per via spartitoria e concessione monetaria. In ogni caso, a voler seguire lo schema iper-razionale che di solito viene applicato alle scelte elettorali espresse dall'opinione pubblica, se ne poteva dedurre che di fronte allo schiaffo di giugno i partiti avrebbero dovuto cercare di proporre come minimo una finzione riformatrice, per non esporre se stessi al rafforzamento dell'accusa che li bolla come agenti tutt'altro che segreti dell'immobilismo: altrimenti il capo di imputazione di miopia, insensibilità, chiusura, manipolazione della volontà popolare ne sarebbe disceso fin troppo naturalmente. Inutile dire che non è stato così. Come forse si ricorderà, il primo a cercare di mettersi in tasca l'attraente patrimonio politico del referendum fu il presidente della Repubblica: a poche ore dall'esito del voto popolare, Francesco Cossiga si presentò alla televisione di Stato, sostenendo con un certo inatteso vigore due tesi piuttosto discutibili, una probabilmente tattica, l'altra forse di maggiore portata. Secondo la prima tesi, il risultato del referendum e il conseguente cambiamento delle regole elettorali poteva delegittimare retroattivamente la Camera dei deputati (e fin qui si poteva semplicemente sospettare che le parole del capo dello Stato facessero parte di quella trama di dispetti e cattive relazioni che ha contrapposto il Quirinale e l'attuale Parlamento in questi ultimi due anni di legislatura). Invece la seconda argomentazione presidenziale era più capziosamente suggestiva, più insidiosa, e poteva prospettarsi nelle sembianze di una strategia sofisticata e ambiziosa. Dalla soluzione referendaria, infatti, il presidente della Repubblica faceva discendere immediatamente, come conseguenza automatica e necessaria, che il destino delle riforme istituzionali dovesse imboccare una strada plebiscitaria, praticata a colpi di consultazioni dirette del «popolo sovrano». Si trattava ancora una volta di una proposizione intrinsecamente discutibile, dal momento che, anche in una fase di tipo costituente, niente vieterebbe che proprio i partiti si presentassero tradizionalmente all'elettorato, ognuno chiedendo il consenso sulla base delle rispettive ipotesi riformatrici. E dunque l'indicazione accuratamente tempestiva della via referendaria per consentire ai cittadini di decidere «direttamente e immediatamente» sulle modalità della trasformazione istituzionale non costituiva affatto un dogma democratico. In quel momento, anzi, il sillogismo del capo dello Stato appariva soprattutto come la sponsorizzazione di progetti di parte, e non era molto difficile individuare quella parte nel Psi, e i progetti costituzionali nel presidenzialismo craxiano. I passi successivi dell'azione presidenziale sembravano confermare la consapevolezza di un disegno, non del tutto precisato ma per sommi capi intuibile. Tanto per cominciare, il messaggio del capo dello Stato sulle riforme istituzionali, più volte annunciato, rinviato, limato assiduamente, ma in buona sostanza ispirato alla scelta che a «convalidare, ratificare o scegliere» la costituzione della Seconda Repubblica fosse l'immancabile «popolo sovrano», piombava sulle Camere proprio alla vigilia del congresso straordinario socialista di fine giugno, confortando un Bettino Craxi reduce dalle due pesanti sconfitte al referendum sulle preferenze e alle elezioni regionali siciliane della settimana successiva, ma sempre convinto di poter restare ancorato alla propria scommessa, secondo cui esisterebbe una distanza crescente fra la maggioranza del Parlamento, legata a criteri di tipo rappresentativo, e la maggioranza dell'opinione pubblica, qualificata da una vocazione presidenzialista mortificata dalla resistenza vischiosa dello schieramento dei partiti. Si dà il caso, tuttavia, che in politica non tutti i conti tornino automaticamente: «Ai quadrati di De Mita - esemplificò una volta Giulio Andreotti a proposito di una presunta determinatissima volontà democristiana di "fare quadrato" contro gli avversari - manca sempre un lato»; a Cossiga e a Craxi erano destinate a mancare le condizioni che avrebbero potuto dimostrare l'esistenza in Parlamento di uno scontro così forte, di una divisione talmente lacerante da poter giustificare il ricorso alla sanzione dirimente della volontà popolare. Il presidenzialismo sarà pure maggioritario nell'opinione pubblica, ma in Parlamento risultò fortemente minoritario. Di fatto, la prospettiva delle riforme istituzionali, riaccesa nelle aspettative generali dalle cifre parlanti del referendum, sfumava tristemente, almeno per questa legislatura, per schietta responsabilità dei partiti, proprio nel pieno del dibattito alla Camera sulle 86 cartelle del messaggio presidenziale. È stato il segretario del Partito democratico della sinistra, Achille Occhetto, a contribuire a questo risultato, mentre si proponeva di tendere volonterosamente la mano al Psi: «Non solo non stiamo preparando accordi strategici con la Dc - affermò Occhetto nel suo intervento - ma anche per quanto riguarda la legge elettorale ci presentiamo con una prospettiva completamente diversa da quella che si configura attraverso la proposta democristiana». In realtà, si trattava di una tesi avanzata per banali questioni di politica politicante, dal momento che invece, a giudizio della quasi totalità degli osservatori, i progetti riformatori della Dc e del Pds apparivano, se non certamente identici, perlomeno analoghi, ispirati da una medesima logica di fondo. Si comprese in quel momento, senza neppure troppa sorpresa, che per l'ennesima volta al segretario del Pds non interessava tanto affermare un'ipotesi di riforma coerente ed efficace, funzionale a tutto il sistema politico, ma soltanto richiamare sentimentalmente «le ragioni della sinistra», e quindi rammendare a parole il consunto vestito dell'alternativa entro l'immaginario atelier in cui si confezionano le mitologie politiche italiane. Per dirla tutta, il neonato Pds immolava senza contropartite, con un atto di generosità non richiesto, il suo progetto di riforma sull'altare dell'alternativa di sinistra; come compenso di questo imprevidente olocausto ricavava il consueto miraggio del «disgelo» con i socialisti. Senza minimamente pensare, o perlomeno senza valutare fino in fondo, che l'unica leva che può realisticamente fare scattare l'alternanza, nel nostro sistema politico, è solo ed esclusivamente la riforma elettorale. Come conseguenza, alla fine della estenuante discussione parlamentare sul pensiero istituzionale di Francesco Cossiga, il tema delle riforme era ricondotto definitivamente entro le regole non auree ma certamente classiche del mercato e soprattutto del mercanteggiamento politico: Craxi contro la Dc, a cui aveva segnalato con vigore che il perseguimento della proposta fondata sul Cancellierato e il premio di maggioranza sarebbe stato recepito come la volontà di considerare esaurito il ciclo ormai trentennale di collaborazione con i socialisti; isolata drammaticamente l'ipotesi presidenzialista, con il presidente della Repubblica affiancato soltanto dal Psi e dal Msi; erratico e incerto il Pds, in bilico faticoso fra l'ossequio formale al principio della rigidità costituzionale (e quindi favorevole a un moderato revisionismo della costituzione), e le evasioni di fantasia a sinistra, che impongono di prendere in debita considerazione la volontà socialista di passare con uno spettacolare salto istituzionale alla Seconda Repubblica. In questo ritorno della tematica istituzionale dentro la contrattazione politica c'erano tutte le condizioni per capire che ormai la macchina politica italiana era divenuta un ferrovecchio frenato dalle proprie ruggini, in cui ogni manovra sui comandi portava solo all'aumento dei giri del motore senza alcuna conseguenza che non fosse un rumore sgangherato; qualsiasi tentativo di accelerazione provocava soltanto il surriscaldamento delle parti più esposte e usurate. Ma si dispiegavano anche diversi indizi, piuttosto coerenti a volerli leggere tutti insieme, che dovevano risultare vagamente ma sensibilmente destabilizzanti per la psicologia politica che regna nella penombra dei corridoi romani. Per la prima volta dall'avvio del centrosinistra si ponevano le condizioni e il problema dell'interruzione del rapporto fra la Dc e il Psi. Non un incidente di percorso, come accadde con l'Andreotti-Malagodi nel 1972-73, un breve ritorno al centrismo, e neppure la sostanziale perdita di peso governativo del Psi (un Psi drammaticamente sotto il 10 per cento dei voti) durante la vicenda della solidarietà nazionale con i comunisti nel 1976-79, ma una vera e propria questione di fondo, lungo la quale l'equilibrio politico del nostro Paese potrebbe essere alterato in termini strutturali. Le conseguenze del surplace che da questa constatazione è seguito fra i due maggiori alleati di governo ha avuto conseguenze nefaste sulla qualità dell'amministrazione. Occorrerebbe essere ciechi per non osservare che l'ultimo governo Andreotti ha come base di sopravvivenza una sola e sovrana regola: non toccare nessun nodo politico che esca dall'immediato. Lo si era notato fin dal momento della sua formazione, quando la questione istituzionale, che era stata posta (o imposta) dal presidente della Repubblica al centro della trattativa per la formazione dell'esecutivo, all'ultimo momento era stata «sfilata» e rimandata a tempi migliori, dato che sull'argomento non esisteva la minima possibilità di accordo fra i due partner principali della maggioranza. L'immobilità costituiva quindi una connotazione per così dire costitutiva dell'alleanza. Caso o necessità, infatti, la medesima trionfante tecnica è stata usata nei giorni convulsi che hanno portato alla redazione da parte del governo della legge finanziaria; l'unica manovra strutturale che avrebbe dovuto affiancare la legge di bilancio, vale a dire la riforma del sistema pensionistico, è stata messa da parte, dopo un'opposizione del Psi in cui molti hanno visto il peso decisivo di valutazioni di stampo elettoralistico. In termini di bassa cucina politica, è lecito pensare che alla fine il «no» socialista al progetto del ministro del Lavoro Franco Marini avesse fatto comodo anche ai democristiani (le pensioni costituiscono un argomento che brucia, sotto elezioni), come pure che il Psi avesse scommesso su un definito calcolo politico, secondo cui nessuna decisione di un certo peso va presa da un governo che non sia contrassegnato da un più distinguibile marchio socialista. Dunque si deve rilevare che una percepibile linea di crisi passa dentro il centrosinistra. Craxi tiene il Psi nell'esecutivo, ma solo per l'obbligo morale di «assicurare la governabilità». Nello stesso tempo, cresce il risentimento del Psi verso metodo e stile di Andreotti (lo si è visto benissimo nel corso del congresso straordinario barese, con la platea dei delegati che invocava una netta sterzata a sinistra). Da parte democristiana, analoga acredine viene nutrita verso l'alleato, insieme con il disagio provocato dal diffondersi di un umore politico che vede nella Dc il «regime», l'intreccio istituzionalizzato di corposi interessi clientelari, di grandi corporativismi garantiti politicamente, oltreché di minimi privilegi distribuiti a pelle di leopardo per ancorare l'opinione pubblica al consenso. Ma ci sono anche aspetti meno soggettivi che accentuano la tendenza all'instabilità: la fine del pregiudizio ideologico verso l'ex Pci esalta la fluidità del sistema politico; e se è vero che la politica, come la natura, ha orrore del vuoto, sul fronte di sinistra si apre un arco di opportunità politiche inedite, dovute al fatto che in prospettiva le formule delle alleanze di governo non appaiono più dettate implacabilmente da dogmi politico-ideologici stringenti. Finiscono le dighe, le rendite, ma finiscono anche le formule di coalizione obbligate. In sostanza, almeno fino a settembre siamo di sicuro entro una situazione caratterizzata da una immobilità parossistica, ma le vie d'uscita appaiono ancora praticabili. Tutto potrebbe ancora essere giocato en politique, se i protagonisti della politica decidessero di assumere una iniziativa. Ma non lo fanno. La classe politica italiana sembra assoggettarsi senza resistenza a due spinte esattamente opposte, l'istinto di conservazione e un'oscura volontà di autoannientamento. Mentre cominciano a cedere a uno a uno i pilastri che avevano sorretto l'evoluzione politica del Paese e accompagnato il suo sviluppo socio-economico, comincia all'improvviso ad allentarsi anche il patto che aveva unito gruppi d'interesse e partiti di governo. A metà settembre, il «partito dell'industria » alza il tiro cominciando a bombardare il quartier generale: fa sapere che ormai l'apparato industriale non riesce più a tollerare i costi del disfunzionamento. L'amministratore delegato della Fiat, Cesare Romiti, evoca la necessità di un imprecisato trauma, che possa schiodare il meccanismo politico. Eppure, benché i toni confindustriali diventino via via ultimativi, non si sente circolare una sola parola sul «come» l'attacco alla paralisi governativa possa tradursi in una spinta al cambiamento. La diagnosi fa aggio come sempre sulla terapia. Dal punto di vista del «regime», in assenza di indicazioni concrete, la storia degli ultimi decenni, da parte sua, autorizza a pensare che l'irritazione imprenditoriale non sia molto più che un episodio; malgrado infatti le ricorrenti lamentele delle associazioni imprenditoriali, che hanno costituito una sorta di basso continuo nella vicenda repubblicana, l'esperienza italiana è stata segnata da un accordo sostanziale fra ceto produttivo e classe di governo. Nulla di strano, com'è ovvio in una società avanzata. Dietro la parola d'ordine della ripartizione di competenze, «l'industria agli industriali, la politica ai politici», si è dispiegato un tavolo in cui si sistemava l'intreccio degli interessi comuni: gli industriali contrattavano sgravi fiscali, misure di sostegno agli investimenti e all'innovazione, politiche monetarie favorevoli alla competitività dei prodotti italiani, cassa integrazione e prepensionamenti, e i politici ricevevano un contributo diretto e indiretto dell'industria al mantenimento del sistema di consenso su cui si è basato il nostro Paese. La chiave di questo matrimonio d'interesse era data dalla premessa di perpetua immutabilità degli equilibri politici. In una convivenza obbligata, è opportuno ridurre al minimo l'intensità dei conflitti, e la mediazione, in una democrazia bloccata, diventa la regola primaria. Ma se la situazione si fa all'improvviso più fluida, in sé e per sé non ci sono più ragioni decisive perché il patto storico venga rinnovato come è sempre tacitamente stato rinnovato finora, insomma perché venga rinnovata gratuitamente la cambiale alla costellazione di potere fondata sulla Dc. Fino a pochi mesi fa, il sistema politico era irrigidito dall'inutilizzabilità del Pci. Oggi è ingessato dall'assenza di alternativa. Il «trauma» elettorale atteso e quasi auspicato da Romiti, come pure altre espressioni critiche verso il regime partitocratico, finisce inevitabilmente per precipitare entro l'assurda perfezione del congegno politico così com'è: un eventuale shock provocato da un voto di protesta significherebbe la crescita abnorme dell'ingovernabilità; il ricambio viene impedito dalle rigide norme di autoriproduzione che regolano l'esistenza dei partiti. La drammaticità della situazione politico-economica consiste allora nella somma di due fattori di segno negativo: da un lato c'è l'impossibilità di trasferire al livello della decisione politica le scelte essenziali per orientare nuovamente allo sviluppo la società italiana, in quanto il sistema dei partiti negozia ogni istanza smembrandola fino alla dissoluzione; dall'altro lato fa sentire i suoi ipnotici effetti l'incapacità di allestire quello schema di competitività politica, proprio delle democrazie adulte, che è l'alternanza. Tuttavia ciò che risulta alla fine più preoccupante è che in Italia non si sta combattendo una facilmente identificabile partita manichea fra i buoni e i cattivi. Il «contratto» stipulato nel tempo fra amplissime fasce sociali e la classe politica di governo è sempre operante, ed è basato su una generosa redistribuzione senza contropartite (attraverso i titoli di Stato, gli stipendi pubblici, il regime previdenziale, cioè attraverso una creazione fittizia di ricchezza e benessere) che ha colpito al cuore le regole fondamentali a cui dovrebbe attenersi una collettività. Sarebbe ingenuo non registrare che gran parte della società italiana è divenuta in tal modo speculare alla classe politica, perfettamente «irresponsabile» di fronte a se stessa, incapace di accettare il profitto come indicatore della buona imprenditorialità allo stesso modo in cui non sa più concepire lo stipendio pubblico come il corrispettivo di una prestazione, bensì solo come una erogazione automatica o un diritto dovuto. Date queste condizioni, comincia piano piano a chiarirsi il paradosso tipicamente italiano che vede un sistema allestito pezzo su pezzo per rastrellare consenso attraverso la magia della redistribuzione raccogliere alla fine il maleficio del disprezzo e del rancore dei beneficati; ma si ha l'impressione che i partiti di governo non siano nemmeno in grado di elaborare la risposta della protervia: cioè, state zitti voi, che ci avete guadagnato abbondantemente. Ascoltare il segretario della Dc Arnaldo Forlani che parla delle prospettive italiane equivale a un'overdose di Valium, che tuttavia non riesce più a risultare rassicurante. Tutto si intorpidisce, e il crampo della politica produce asfissia e spasmi tetanici. Il famoso disgelo a sinistra, atteso a ogni primavera per convogliare in una forza di governo i fiumiciattoli riformatori, si rivela come sempre un'illusione; l'azione degli altri partiti, se si esclude l'exploit contestatore di La Malfa, sul quale ritorneremo, è ininfluente. Così, durante il lungo autunno del 91, il rivolo del mugugno diventa un torrente impetuoso, lo sgocciolio della protesta una cascata. In novembre, a Brescia, le elezioni amministrative, convocate dopo una spaccatura all'interno della Dc che aveva reso la città ingovernabile, danno luogo a un risultato che appare immediatamente come il paradigma futuro e finale della dissoluzione del sistema politico. Anche se per poche decine di voti, la Lega lombarda diventa il primo partito. Perdono tutti i grandi partiti, Dc e Pds evaporano. Non si tratta più dei soliti «campanelli d'allarme», come per anni i giornali hanno titolato dopo le elezioni non appena aumentava l'astensionismo o qualche altra leggera forma di protesta. Quella di Brescia non è una febbricola, è potenzialmente una malattia letale. Il pensiero che alle prossime elezioni questo risultato possa essere duplicato su scala nazionale dovrebbe fare scattare le oligarchie di partito, indurre all'invenzione di contromisure. E invece, come al solito, sotto la paura niente. In Parlamento la discussione sulla legge finanziaria continua a rivelarsi quella trafelata disavventura fatta di ricerca di fondi attraverso misure come minimo problematiche e di assalti alla diligenza che era stata annunciata con largo e sconsolato anticipo. Sul piano delle contromosse politiche, il Psi propone nuovamente la soglia di sbarramento al 5 per cento (con una serie di correttivi piuttosto complicati), che tutti interpretano come un provvedimento ad personam contro il senatore Bossi. Tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre, la Democrazia cristiana tiene dopo dieci anni una nuova conferenza programmatica, nella quale la riorganizzazione del partito viene modulata in chiave (auto)illusionistica, come se esistesse ancora un terreno comune fra partito e società. Il Pds, in assenza di una politica, si attesta su un ruolo di difesa della legalità costituzionale minacciata dal presidente della Repubblica, e apre la controversa e discutibile (e contestata di fatto anche a Botteghe Oscure) pratica dell'impeachment contro Cossiga. Siamo paurosamente vicini al risultato definitivo della politica afflosciata su se stessa, implosa, pronta a precipitare nel collasso che la ridurrà a materia amorfa. Eppure qualcosa si muove. Si possono vedere almeno tre novità politiche di un certo peso: in primo luogo, anche per la sua platealità, il ruolo assunto dal presidente della Repubblica; poi, la posizione in cui si è collocato il Pri di Giorgio La Malfa; e infine la coalizione referendaria, che sta maturando una trasversalità inattesa e assume dimensioni e livelli di consenso inaspettati. Cominciamo dal Quirinale. La contabilità politica dice che il capo dello Stato, sotto il profilo politico, è da tempo uno sconfitto. Teneva a liquidare il Parlamento attuale, verso cui non ha perso occasione di manifestare la sua ostilità, e non c'è riuscito. Ha puntato alle elezioni anticipate, e invece la legislatura ha resistito. Ha cercato di fare saltare Andreotti imponendo una crisi di governo centrata sui temi costituzionali, e ha dovuto sopportare sia la formazione claudicante dell'Andreotti settimo sia che le riforme istituzionali venissero «sfilate» dagli accordi che hanno portato all'ultimo governo. Ha tentato di scuotere la scena con il messaggio alle Camere sulle istituzioni, e il risultato finale ha visto le ipotesi della Seconda Repubblica e del presidenzialismo confinate in una limitata minoranza del Parlamento. Ha varato l'operazione Curcio, cioè la soluzione di una grazia politica verso il fondatore delle Brigate rosse per chiudere i conti con le ombre del passato, provocando la ribellione non solo della classe politica ma soprattutto di quella «gente comune» a cui Cossiga ama riferirsi contro le oligarchie del potere. Il suo poker contro la corporazione dei giudici, che avrebbe potuto guadagnargli un piatto politico di eccezionale rilievo, è stato dissipato per la sua incapacità di uscire dalla logica della denuncia tonitruante e di stringere con pazienza alleanze ragionevolmente fruttuose. Non si è ancora capito del tutto che cosa abbia indotto il presidente, dopo cinque anni da notaio, a trasformarsi nel grande esternatore. Chi sottolinea il suo continuo oscillare fra pathos e prudenza, fra insulto e riconciliazione, fra attacco a freddo e successiva pacificazione ha considerato la frenetica loquela di Cossiga o come un caso psicologico (il che non ha alcun rilievo politico), oppure come una serie clamorosa di infrazioni del galateo politico. Tuttavia sarebbe una sottovalutazione consegnare l'uomo del Quirinale al puro folklore. Tanto più che, preso di per sé, il contenuto di molti pronunciamenti presidenziali è ampiamente condivisibile. E dunque occorrerebbe cercare di capire se esiste da parte dell'uomo politico Francesco Cossiga - non del suo alter ego che si dedica allo spettacolo - un disegno razionale che non sia stretto calcolo difensivo (alzare il polverone per esorcizzare i fantasmi che gli sono stati evocati contro come Gladio, il Piano Solo, la P2) né attribuibile ad alti e bassi dell'umore, né dovuto a un'urgenza di comunicare così spasmodica da abbattere le formalità della carica che ricopre. Se fosse uscito dal Quirinale dopo un settennato incolore, Cossiga sarebbe rientrato nei ranghi democristiani confinato in un notabilato senza gloria. Può darsi che in passato abbia nutrito qualche speranza di raddoppiare il mandato, cosa che oggi sarebbe impossibile senza accettare candidature e investiture vagamente imbarazzanti come quelle espresse sui manifesti pubblicitari dal Movimento sociale. Ma i mesi vissuti pericolosamente da «Externator», nonostante la «catastrofe stilistica » che gli è stata ripetutamente rimproverata, devono averlo convinto che il suo destino è tutto nella politica, altro che ritornare alla polvere degli studi universitari. Prima ha nutrito un rapporto simbiotico con il Psi, che però, pur facendogli continuamente da supporto, ha via via maturato una posizione di prudenza. Poi ha avviato una strategia di aggressione spregiudicata contro quello che chiama «il mio ex partito», cioè la Dc. Ormai potrebbe importare poco delle ragioni per cui il Cossiga presidente parla e agisce come ci ha abituati; forse sarebbe più interessante giudicare le sue azioni e le sue parole come le premesse di una sua nuova avventura politica. Non senza qualche ragione, benché suffragata soprattutto dagli effimeri dati degli indici televisivi di popolarità e dalle ambigue cifre dei sondaggi, egli si sente sorretto da un ampio consenso popolare. Intravede un proseguimento di carriera che lo sottrarrebbe all'anonimato politico. Forse non ci si dovrebbe stupire più di tanto se dal Cossiga presidente dovesse nascere il Cossiga capo-fazione. Potrebbe diventarlo addirittura di una nuova corrente democristiana, se cambiasse nuovamente idea sul partito da cui proviene e decidesse di scuoterlo dall'interno; ma anche fuori dalla Dc, come emulo populista di Leoluca Orlando in un movimento dai pronunciati caratteri antisistema e antipartito, o in una sorta di «Rassemblement du peuple italien» che si proponesse di coagulare la protesta in chiave cripto-gollista. Ma per giungere a una soluzione di questo genere (che forse potrebbe risultare non implausibile dato il tifo calcistico che riscuote ormai il «partito del piccone»), per sciogliere il tortuoso rapporto di amore-odio per la Dc, occorre appunto la determinazione di passare decisivamente, come Cossiga ebbe a dire una volta, «dalla commedia al dramma, dalla farsa alla tragedia», e finora invece abbiamo conosciuto soltanto il Cossiga a giorni alterni, oggi che promette di non firmare il decreto che prolunga l'attività della Commissione stragi, domani che all'ultimo minuto appone la firma, oggi volutamente a un passo dalla farsa, domani rischiosamente in bilico sulla tragedia. Per ora si può solo registrare che si è di fronte a una rappresentazione a sipario strappato, senza fine, in cui il capocomico fa vedere agli spettatori la mediocrità dei trucchi che animano la commedia. Un secondo fattore con ragguardevoli connotati di novità, nel corso di questa anonima crisi, è l'inedita posizione assunta dal Partito repubblicano. Giorgio La Malfa era uscito tempestosamente dalla compagine di governo proprio nel momento in cui Giulio Andreotti stava per annunciare la composizione del suo settimo gabinetto. I giudizi della prima ora avevano posto in rilievo che il ritiro della pattuglia repubblicana dall'esecutivo e dalla maggioranza nasceva impreparato, dal momento che era il frutto di un calcolo politico interno al Pri (centrato sulla sostituzione di Oscar Mammì al ministero delle Poste), che avrebbe determinato senza dubbio ripercussioni a cascata sulla situazione politica, ma appariva ancora dettato da una situazione contingente. Nei primi tempi dopo il ritiro dal governo, le valutazioni sulla decisione assunta dal segretario repubblicano erano state piuttosto dibattute, e la controversia si era sviluppata anche all'interno del partito. L'«opposizione di centro» inventata da La Malfa era apparsa eccessivamente estemporanea per il partito a più forte vocazione governativa presente in Parlamento. Secondo alcuni, per il Pri sottrarsi al compito di governare poteva equivalere di fatto a un'abdicazione politica. E invece almeno per ora il progetto elaborato a posteriori da La Malfa sulla trama di equivoci dell'Andreotti settimo sembra attrarre consensi e guadagnare peso. Ciò si è verificato a Brescia, dove la contestazione repubblicana nei confronti della Dc è risultata pagante; ma soprattutto è opportuno prendere atto che la guerriglia che La Malfa conduce contro il governo, soprattutto a colpi di interviste giornalistiche, in qualche forma e misura intercetta l'insoddisfazione espressa dalle organizzazioni degli imprenditori, dall'Italia che si richiama ostentatamente a criteri di onestà, da quel mondo insomma che ha sempre guardato al Pri come custode di quel tanto di rigore amministrativo che era residualmente possibile nel clan della contrattazione. Nelle ultime settimane, La Malfa e Bruno Visentini hanno tentato più volte di puntare forte su una roulette politica ancora in movimento, formulando l'auspicio che il governo del Paese possa essere assunto da un governo di competenti, capaci, onesti. Il segretario ha addirittura manifestato l'opinione che il Pri potrebbe dissolversi in un più ampio schieramento alternativo, capace di sfidare il «regime» per consegnare l'Italia in mani più efficienti. Come per miracolo della dimenticanza si è ricominciato a parlare del fantomatico «partito degli onesti», dimenticando per l'ennesima volta che nessuna alternativa realistica si può costruire su fondamenta extrapolitiche. Si è anche dimenticato, solo per citare ad esempio uno degli onesti più sovente evocati, che Norberto Bobbio ebbe a definire più volte il partito degli onesti come una «truffa reazionaria». Si deve anche segnalare che l'ipotesi «ideologica» su cui La Malfa ha scommesso nel lungo periodo è assolutamente eroica, ed è fondata sulla spaccatura in due tronconi del sistema politico italiano, da una parte coloro che si riconoscono nel mercato (e quindi in criteri di efficienza, compatibilità economica ecc), e coloro che invece sono legati a principi e umori di tipo populistico: eccellente sul piano della astrazione, per essere calata nella realtà questa idea strategica dovrebbe essere confortata dalla simultanea spaccatura in due blocchi della Dc: un'ipotesi che anche in questo momento continua a prospettarsi scarsamente plausibile. Su basi più realistiche, è ragionevole aspettarsi che la grande fuga di La Malfa dalla Dc possa portare al Pri qualche punto percentuale alle prossime elezioni politiche, ma è assai dubbio che possa catalizzare uno schieramento di alternativa. Il terzo caso di contestazione interna al sistema dei partiti viene dal fronte referendario. Il Comitato Segni, sulla scia della grande vittoria riscossa il 9-10 giugno, incarna la volontà di porre fine al sistema consociativo, alla lunga stagione trasformista prodotta dal sistema elettorale proporzionale; il Comitato Giannini aggredisce più direttamente l'occupazione partitocratica dell'economia. Ma ciò che sembra farsi più evidente di giorno in giorno sul piano generale è che l'esperienza referendaria tende irresistibilmente ad assumere una forma che prelude a un più diretto coinvolgimento nella lotta fra i partiti. Sono state formulate esplicite proposte affinché lo schieramento che promuove i referendum possa diventare una forza politica trasversalmente antagonista alle vecchie e compromesse forze politiche. Anche in questo caso, il progetto di un partito dei referendum sarebbe più o meno un'assurdità, considerata l'amplissima varietà di posizioni politiche presenti nello schieramento referendario, e concordi soltanto sul tentativo di sbloccare i cardini del sistema facendo leva sulla consultazione popolare. Tuttavia il successo del fronte referendario, sia di critica sia di pubblico, tanto fra le aristocrazie quanto a livello popolare, appare comunque innegabile. Ma anche se gli obiettivi di Segni e Giannini appaiono ragionevoli e condivisibili, lo spettacolo schizofrenico di un'Italia buona e onesta che attende ansiosamente i referendum, separata dall'Italia maligna dei partiti, chiusa nel proprio irriducibile mutismo e dedita alle proprie perfide liturgie, risulta ancora una volta irrealistica. Un gioco delle parti tipicamente da società di corte fa sì che i salotti dell'alta borghesia milanese si aprano ai promotori dei referendum. Ma se è concesso formulare un'ipotesi consapevolmente impopolare, si può prevedere che non sarà l'incongruo partito trasversale dei referendum a modificare la situazione politica e a riportarla su un sentiero di razionalità, a costituire la nuova maggioranza o la nuova opposizione. Dai referendum elettorali dobbiamo aspettarci solo (ed è già moltissimo) una vigorosa spallata alle regole attuali, e un impulso fortissimo a una riforma complessiva delle istituzioni. Invece, e non si scappa, la questione politica dovrà essere elaborata politicamente. Non sarà la Lega nazionale vagheggiata da Eugenio Scalfari, non sarà l'improbabile partito degli onesti, non sarà il supergoverno dei tecnici a trarre la politica italiana dalle secche in cui è incagliata: ammesso che ne siano capaci, saranno ancora una volta i partiti, o nessun altro. Numerosi indizi e molti dati di fatto lasciano pensare che i partiti politici italiani non abbiano ancora assorbito completamente l'ondata d'urto provocata dalle rivoluzioni del 1989 e dalla decomunistizzazione nell'Europa centrale e orientale. Nel momento in cui l'Unione Sovietica si dissolve e ogni residuo ideologico viene estinto, il Pds si ritrova finalmente come un partito davvero «nuovo», purificato magari senza troppo merito dal peccato originale leninista; e di conseguenza vengono necessariamente a cadere gran parte delle convenzioni politiche che hanno retto il nostro sistema, a partire dalla prima e fondamentale: vale a dire la scelta di parte anticomunista, che ha inciso in profondità tutta la vicenda repubblicana e che oggi non riveste più alcun significato effettivo. Cambia quindi l'ambiente dell'agire politico, il copione della commedia si trasforma radicalmente: la Dc non può fare conto ulteriormente sulla rendita di posizione garantita dalla scelta di civiltà, occidentale e liberaldemocratica, contro il Pci stalinista di Palmiro Togliatti, e nemmeno sull'intonazione moderata che aveva fatto valere contro i tratti fortemente antagonistici assunti dopo la solidarietà nazionale dalla segreteria Berlinguer. Ma nessuno è immune dal flusso di trasformazione. Per il Psi svanisce il ruolo corsaro esercitato con evidente consapevolezza e determinazione nell'ultima parte del quindicennio craxiano, caratterizzato da un'alleanza «obbligata», in nome della governabilità, con la Dc e da un aspro anticomunismo che bilanciava a sinistra la rissosa rivalità esercitata nei confronti del partito di maggioranza relativa. Contemporaneamente, nel momento in cui lo show di fine secolo a Mosca e a San Pietroburgo spazza via ogni tara ideologica, il Pds può salutare la propria mutazione genetica e la propria resurrezione sotto legittimate spoglie liberal, ma vede simultaneamente sbrecciarsi la sua comoda posizione di oppositore coatto, di fisiologico raccoglitore di tutte le proteste, niente affatto preoccupato di tradurre in programma potenzialmente governativo l'antagonismo sociale e politico di cui si faceva portavoce. Se queste premesse sono accettabili, la prima conclusione consiste nell'attestare che oggi tutti i maggiori partiti appaiono nudi. Ognuno di essi dovrebbe misurarsi sui programmi, presentare proposte amministrative e su queste chiedere il giudizio degli elettori, competendo per porsi alla guida del Paese. Ed è proprio su questo punto che la pletorica macchina politica italiana rivela tutti i suoi deficit di qualità. I partiti, infatti, sono abituati a confrontarsi sul terreno che va dal più gretto clientelismo e dai tatticismi negoziali alle più sesquipedali e barocche questioni ideologiche, ma non sulla buona amministrazione della cosa pubblica. Fino a pochi mesi fa, più che su progetti concreti, hanno chiesto il consenso su una Weltanschauung, oppure hanno offerto pensioni e impieghi nel parastato. Adesso che devono abbandonare il piccolo cabotaggio, e navigare in alto mare senza più la precisa stella polare della contrapposizione ideologica, non possono non trovarsi drammaticamente disorientati, legati a una serie di comportamenti che non hanno più riscontro con la realtà, a dichiarazioni di principio che sembrano prodotte da una morbosa coazione a ripetere. Le elezioni della primavera prossima saranno le prime che si svolgeranno senza la condizione base che ha contraddistinto la politica dell'Italia repubblicana, e cioè la conventio ad excludendum nei riguardi del principale partito di opposizione. La sclerosi della politica attuale tende a smorzare il significato di questa prospettiva inedita. Ma anche Luigi XVI annotava cinicamente «Rien» sulla pagina di diario del 14 luglio 1789, a Bastiglia appena presa. Se si prendono le distanze dallo scetticismo con cui i santuari politici della capitale registrano le novità, non si può ignorare che l'acquisita normalità del Pds significa che una moltitudine di potenzialità politiche finora ibernate sotto una campana di vetro vengono liberate, ed è insensato pensare che ciò non si ripercuota sulle strategie dei partiti, sulla formazione delle alleanze, sugli accordi di prospettiva. Certo, si è legittimati a pensare che il gioco al suicidio dei partiti possa proseguire inesorabilmente; ma accettare questa ipotesi comporterebbe accettare l'ineluttabilità di un cammino di decadenza avviato dal Paese, con un inevitabile destino sudamericano, nel cui orizzonte si configurano la perdita progressiva di legittimità, l'iperinflazione, le aspettative irrazionali che al posto della politica qualcuno, un uomo, un gruppo, sia capace di assumere un ruolo provvidenziale. Il fatto è che per tentare l'ardua impresa di uscire dal trasformismo occorre paradossalmente un ulteriore esercizio trasformistico. È proprio necessario che il Barone di Munchhausen si afferri per il codino della parrucca e depositi se stesso e il cavallo dall'altra parte della palude. Chi nega questa ipotesi, e invoca spallate e traumi, sembra ignorare che le capacità di assorbimento del sistema politico sono enormi. Già il Pds non rappresenta più fortunatamente un'alternativa di sistema, e quindi potrà essere cooptato nel governo non appena ciò sarà ritenuto necessario: costituisce una delle primarie forme di difesa di qualsiasi organismo complesso la soluzione di associare nella gestione i soggetti più conflittuali, per ridurre al minimo il tasso di scontro. Ma perfino la Lega lombarda, una volta emersa come forza politica di una certa consistenza in un Parlamento fortemente frammentato, potrebbe essere coinvolta nelle pratiche di governo. Angelo Panebianco ha parlato del sistema socio-politico italiano come di una «maionese impazzita», nella quale tutti gli ingredienti perdono coesione e degradano senza scampo; tuttavia, a pensarci bene, potrebbe darsi che la maionese sia perfettamente riuscita, che riesca a integrare attraverso chimismi misteriosi qualsiasi nuovo componente si butti nell'impasto. D'accordo che il sapore risulta pessimo, ma la formula funziona con diabolica perfezione e promette anzi minacciosamente di resistere per l'eternità. D'altra parte, risulta difficile contraddire il pessimismo sulla capacità dei partiti e del Parlamento di giungere concordemente a una invenzione alchemica che permetta di scomporre razionalmente maggioranze e minoranze, per arrivare insomma a uno schema di tipo europeo, quello stesso che permette alla Cdu di governare con il 43,8 per cento dei voti, ai conservatori inglesi con il 42,3, ai socialisti spagnoli con il 39,6, ai socialisti francesi con il 37,5 (tutte percentuali che vengono poi esaltate dal congegno elettorale dei vari Paesi, e portate oltre la maggioranza assoluta o alle soglie di essa). Toccherà in primo luogo alla Dc dimostrare se la sua proposta istituzionale è stata avanzata semplicemente per dovere di ufficio oppure per impegnare effettivamente il partito su di essa. E toccherà di conseguenza al Psi decidere come comportarsi di fronte a un'eventuale presa d'iniziativa democristiana. Durante i mesi di novembre e dicembre, Bettino Craxi è sembrato piuttosto deciso nell'affermare che la prossima legislatura vedrà una maggioranza di governo ancora fissata sull'asse Dc-Psi. L'unica novità che si potrebbe intravedere è il ritorno del leader socialista a Palazzo Chigi. E resta da notare che in questa politicamente tranquillizzante, anzi narcotica, prospettiva politica non c'è alcun elemento di novità, alcuna risposta che non sia personalistica o volontaristica, e quindi arbitraria, ai problemi del Paese. Ad ogni modo, per il momento non rimane altro che aspettare l'esito delle elezioni politiche: perché sulle percentuali della primavera prossima si misurerà il grado di consapevolezza dei partiti riguardo alla crisi del sistema, e se essi mostreranno la volontà di adeguarsi a un principio di razionalità (oltre che allo scadenziario dettato dalla Conferenza europea di Maastricht, che di per sé imporrebbe l'abbandono della computisteria di fazione in favore di una strategia nazionale improntata all'impegno richiesto). Sappiamo già che nel caso di una frantumazione della rappresentanza avremo di fronte una sola alternativa: il proseguimento, da un lato, della grande coalizione trasformistica, con la cooptazione assicurata a chiunque prometta di alimentarla nei limiti di una conflittualità interna accettabile e di uno sperimentatissimo gioco di contrattazioni, veti, ricatti, negoziati, risarcimenti, scambi; oppure, dall'altro, la ripresa di iniziativa dei partiti, una scommessa civile che si decida a mettere a rischio il capitale per non vederlo eroso giorno per giorno. A malincuore, e con la consapevolezza che la condizione di questi partiti è tale da non autorizzare speranze troppo complesse, i cittadini italiani dovrebbero augurarsi un altro paradosso politico, e cioè che - per paura - i responsabili del degrado riescano a diventare i restauratori, gli autori dello sperpero i risanatori, gli scialacquatori della morale i moralizzatori. Per garantirsi una sopravvivenza, è l'ultima strada che hanno di fronte. Nel pessimismo di quest'ora così inquieta, in assenza di strategie coerenti, dovremmo essere disposti a credere per l'ultima volta alla più imbarazzante delle risorse e abitudini italiane, il colpo di teatro.
Il Mulino, 03-04 1992, Il Presidente dibattuto
Tutti i poteri del presidente
Il momento più alto e delicato della vicenda politica di Francesco Cossiga, settimo presidente della Repubblica italiana, si verifica il 23 luglio dell'anno scorso. Le Camere avviano infatti la discussione del messaggio sulle riforme istituzionali che il capo dello Stato aveva fatto pervenire in precedenza ai presidenti dei due rami del Parlamento. Le 86 cartelle del messaggio presidenziale non costituivano affatto un contributo generico a un dibattito sul quale si fosse determinata una sostanziale identità di intenti fra la classe politica e il presidente della Repubblica. Anzi: il modo in cui il messaggio era stato annunciato e preparato testimoniava di un conflitto che si era esasperato nel tempo; larghe componenti del Parlamento non nascondevano una profonda irritazione per l'intervento del capo dello Stato in materia istituzionale. Il messaggio di Cossiga veniva colto da più parti come un tentativo di forzare la situazione, che si inseriva all'interno di un conflitto politico-istituzionale che minacciava di alterare significativamente l'equilibrio politico su cui si è retto il paese nell'ultimo trentennio, e cercava di indirizzarlo verso soluzioni politicamente non neutre. Dopo un lungo periodo in cui Cossiga si era tenuto nell'ambito di una interpretazione autenticamente notarile del suo ruolo, proponendo rari interventi che avevano generalmente riscosso un'approvazione diffusa (anche se avevano riguardato casi di conflitto potenzialmente intenso, come quando il capo dello Stato aveva rivendicato il potere di stabilire l'ordine del giorno del Csm) gli ultimi due anni del suo mandato sono stati segnati da una crescente e non controllabile quantità di esternazioni. A tutt'oggi risulta infondato sostenere che il capo dello Stato abbia lacerato la carta costituzionale, o che abbia determinato le condizioni per individuare ragionevolmente la possibilità di una sua incriminazione. Anche la richiesta di impeachment da parte del Pds sembra scambiare le ragioni costituzionali con quelle politiche. Perché il problema, o se si vuole il caso Cossiga, non appartiene tanto alle pagine del diritto costituzionale quanto al regno delle convenzioni politiche che hanno regolato e ancora regolano l'attività dei partiti e il funzionamento del sistema politico. Imputare al Capo dello Stato un uso improprio dei poteri presidenziali, accusarlo di propensioni presidenzialiste e plebiscitarie, censurare lo stile che il Quirinale ha assunto rispetto a formazioni politiche e singole persone può essere plausibile soltanto se si intende cogliere il potenziale politico di un'azione che è penetrata nel cuore dei dilemmi politici della prima Repubblica; risulta invece sfasato se si vuole perseguire la sconfitta politica del presidente attraverso la lettera della Costituzione. Non c'è stata una sola esperienza presidenziale che non si sia definita in rapporto alle condizioni politiche in cui si svolgeva. L'ultima parte del settennato di Cossiga si è dipanata in un'arena politica attraversata da eccezionali eventi storici, che hanno gettato lunghi riflessi sulla scena politica. Prima di giudicare il modo in cui il capo dello Stato è sceso dal Colle per gettarsi in una mischia quotidiana, gli effetti che ha provocato nel sistema politico, i risultati che ha ottenuto, vale la pena di segnalare che l'astrattezza della legge fondamentale non consente di determinare di per sé standard obiettivi di comportamento ai quali rapportare il comportamento del Quirinale. Nella vicenda dell'Italia repubblicana, i presidenti che si sono succeduti dal '46 in poi hanno conferito una specifica e personale coloritura ai loro atti; hanno interpretato i loro poteri in modo assai dissimile; talvolta, il giudizio che se ne è dato durante il loro mandato è stato poi corretto da valutazioni successive. De Nicola e l'unità nazionale Quando Enrico De Nicola fu eletto capo «provvisorio» dello Stato, il 28 giugno del1946, era ben chiaro che egli costituiva una figura di raccordo e di compromesso. Proposta da Palmiro Togliatti, la sua candidatura fissava un momento irripetibile, nel quale gli elementi di conflitto istituzionale e politico dovevano essere mantenuti all'interno del processo di formazione dello Stato repubblicano senza che ne provocassero la disintegrazione. Il referendum istituzionale si era concluso con la vittoria di misura della Repubblica, facendo affiorare una vistosa spaccatura fra il Meridione monarchico e il Nord repubblicano. Se alle spalle c'era l'esperienza unitaria dei Cln e al presente l'abbraccio politico della Costituente, in prospettiva non era difficile immaginare e prevedere l'esaurirsi fisiologico del patto nazionale fra i partiti che era servito per fondare la nuova entità statale. De Nicola, monarchico e meridionale, rappresentava perfettamente le istanze di pacificazione. Anzi, proprio la «provvisorietà» a pieno titolo del suo mandato è sancita non solo dalla definizione formale della sua carica ma soprattutto dall'intento che egli volle esprimere esplicitamente. Nella visione di De Nicola l'obiettivo principale era di impersonare a tutto tondo una figura di garanzia politico-istituzionale, che basava la sua concezione dell'Italia di quel momento sulla necessità di superare le lacerazioni subite dal paese. Fascismo e antifascismo, incerta transizione dalla monarchia alla repubblica, collocazione del Paese con un'identità stabilizzata nel consesso internazionale dopo la guerra: a De Nicola forse sfuggiva la drammaticità politica di un momento in cui il prodigio dell'unità nazionale conteneva in sé tutti gli elementi che l'avrebbero incrinata. La funzione di garante super partes della «infrangibile unione» degli italiani era consentita da un congiurare irripetibile di contingenze, non tanto dal raggiungimento di un assetto politico-istituzionale consolidato. Giuridicamente ineccepibile e storicamente comprensibile, la tensione unitaria di De Nicola appare oggi un atteggiamento politicamente «a termine», destinato a essere liquidato dalle vicende successive. Il potere di Einaudi Allorché Luigi Einaudi, meno di due anni dopo, venne eletto al Quirinale, l'orizzonte politico era radicalmente mutato. Il clima è quello dell'acuirsi della tensione fra Usa e Urss, che vede come riflesso italiano la rottura degasperiana del patto di unità nazionale con il Partito comunista, la scissione di Palazzo Barberini, la storica battaglia elettorale del 18 aprile. Anche il «Presidente Imparziale», come Dossetti definì De Nicola criticandone l' «eccesso di formalismo», sarebbe dovuto entrare nell'immediato scontro politico. De Nicola, prima del 18 aprile, aveva lasciato capire che avrebbe affidato il ruolo di capo del governo secondo il rigido criterio di scegliere l'esponente del partito che avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta, evitando considerazioni suggerite dalla necessità di assicurare comunque al paese una guida capace di garantirne la stabilità. Una nuova candidatura di De Nicola poteva quindi apparire, e apparve, sostanzialmente astorica. Luigi Einaudi divenne il capo dello Stato intrinseco a una dinamica politica che era esplosa in tutte le sue implicazioni, in cui il conflitto politico non era più mediato da vincoli unitari, e non è un caso che la sua elezione sia avvenuta mostrando una profonda spaccatura fra i candidati (Einaudi fu eletto con 518 voti, mentre Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre, ebbe 320 voti). Contrariamente a uno stereotipo che si è affermato con una certa facilità, Leopoldo Elia ha scritto che la presidenza Einaudi non consistette affatto in una funzione semplicemente notarile. È certo che il suo mandato ebbe una funzione centrale nel consolidamento degli equilibri istituzionali dell'età del centrismo, e sicuramente la sua azione si avvalse della stabilità politica del centrismo garantita dalla leadership di De Gasperi. Ma sarebbe un errore considerarlo semplicemente come l'autore del sigillo istituzionale su una fase politica. Probabilmente Einaudi aveva intuito che, in quanto istituzione, il presidente della Repubblica non poteva restare nelle indeterminatezze configurate dai costituenti. Occorreva costruirne i poteri, consolidarli, affermando la specificità di un ruolo che non era affatto di pura rappresentanza. Einaudi riuscì quindi a conquistare spazi precisi per l'azione presidenziale (per ciò che riguarda in particolare la nomina dei giudici costituzionali e dei senatori a vita, la scelta del presidente del consiglio, lo scioglimento delle Camere). Uno degli aspetti più politicamente intelligenti con cui il grande intellettuale liberale contribuì alla fondazione dei poteri presidenziali fu determinato dall'uso della potestà di rinvio delle leggi alle Camere con messaggio motivato, secondo l'articolo 74 della Costituzione. Di fatto, Einaudi fece un moderatissimo uso di questa risorsa, e preferì sempre ricorrere alla facoltà di autorizzazione preventiva. Ma attraverso l'uso sapiente di queste due risorse, garantite anche dall'eccezionale prestigio personale di cui godeva, riuscì a porre in atto un rapporto diretto con il governo: mentre da una parte tutelava l'esecutivo dalla possibilità che disegni di legge governativi fossero sottoposti in Parlamento a pratiche distorsive, dall'altra instaurava una sintonia profonda fra le due istituzioni. Veniva a crearsi in sostanza qualcosa che potremmo associare a forme monocratiche, o perlomeno non conflittuali, omogenee di governo. Forme che erano dovute inevitabilmente a caratterizzazioni personali, individuali, non automaticamente ripetibili, ma che rivelavano alla politica e ai partiti l'ampiezza e la potenzialità del ruolo presidenziale. E che, grazie alla sintonia con l'esecutivo, restavano all'interno di un circuito politico limitato, non potevano mai diventare occasione di conflitto politico parlamentare. L'atto forse più significativo della presidenza Einaudi, quello che chiarisce meglio come il primo presidente della Repubblica cercava di riempire di contenuti il sacco politicamente vuoto della sua carica, si ebbe all'indomani delle elezioni del 1953, quando la perdita di voti subita dalla Dc impedì che scattasse il meccanismo maggioritario della cosiddetta «legge truffa». Si veniva a configurare una situazione inedita, che ad un tratto mostrava i limiti politici dell'equilibrio centrista, l'emergere di una litigiosità interna alla maggioranza, l'assenza di una persegui bile prospettiva di governabilità. In queste condizioni, dopo la rinuncia di Piccioni, Einaudi conferì l'incarico di formare il nuovo governo a Pella, senza nemmeno procedere a nuove consultazioni con i partiti. Il nuovo incaricato, sotto il profilo delle ispirazioni di politica economica, era un einaudiano convinto; in politica, era la quintessenza del centrismo. La creazione di un «asse» fra il presidente della Repubblica e il capo del governo rappresentava la sintesi della vocazione maggioritaria di Einaudi; il fatto che Pella potesse essere «imposto» a una Dc recalcitrante, che accettò l'imposizione presidenziale solo perché soffriva di una grave situazione di stalla al suo interno, chiarisce da un lato il consolidarsi della sfera del potere del presidente, e dall'altro che questo potere era pur sempre condizionato dalla logica interna al sistema politico. Di fatto, tuttavia, l'azione einaudiana poneva la presidenza della Repubblica all'interno della dialettica politica, stabilendone il ruolo come attore protagonista. Era una posizione facilmente suscettibile di sviluppi ulteriori. Gronchi, le avventure di un presidente Il tonfo elettorale della Dc nel 1953, l'articolarsi per correnti strutturate del partito, l'incertezza sulle soluzioni politiche di lungo periodo dopo l' emersione della crisi della formula quadri partita spiegano la debolezza degli esecutivi post-degasperiani. La spaccatura democristiana fra componenti moderate e uno schieramento che guardava a sinistra descrive bene le ragioni che portarono al manifestarsi di una leadership nuova, quella di Amintore Fanfani, proiettata verso l'obiettivo di riguadagnare una forte egemonia politica. Ciò che ancora mancava era una funzione istituzionale capace di coagulare nuovi equilibri politici ed eventualmente di assorbirne i contraccolpi. Giovanni Gronchi aveva indicato nel 1954 come compito storico della Dc quello di «attrarre nuove forze nell'orbita della politica democratica e dello Stato repubblicano», suscitando l'immediato interesse della frangia autonomista del Partito socialista. Gronchi fu eletto presidente della Repubblica il 29 aprile del 1955, al quarto scrutinio. Non era il candidato di prima scelta della Dc. Lo aveva votato uno schieramento caotico, che raccoglieva socialisti e comunisti, pattuglie di parlamentari democristiani di ogni corrente, molti monarchici, non pochi missini. Si trattava di un rassemblement dal sentore vagamente peronista, privo di qualsiasi identità o programma politico. Il nuovo presidente avrebbe dovuto cercare la propria legittimazione sulla base della propria iniziativa. Il suo slancio avrebbe portato elementi di dinamismo arbitrario in una situazione contraddistinta da una straordinaria incertezza. Antiatlantico in politica estera, non indenne da un certo giustizialismo in politica interna, incline ad attribuire al ruolo del capo dello Stato una funzione di indirizzo e orientamento della vita politica come interprete di una volontà o di un interesse generale che non si esauriva in Parlamento e nella lotta fra i partiti, Gronchi era il candidato ideale a intervenire direttamente in una fase politica confusa. «L'ansia di rinnovamento», «il nuovo che preme», «l'anima popolare» della società italiana costituivano alcuni fra i temi che egli si candidava a tradurre in azione politica, rivendicando l'autonomia di una posizione che relativizzava il funzionamento istituzionale della macchina politica e che conferiva tendenzialmente al capo dello Stato un ruolo personalizzato (non a caso, le ripetute «esternazioni» e le «esorbitanze» di Gronchi furono immediatamente stigmatizzate dai suoi avversari). La vocazione presidenzialista di Gronchi emerse con chiarezza in politica estera, cioè nell'area di intervento in cui più facilmente poteva essere evitato il confronto con i partiti e con il governo. Forte di un atteggiamento sostanzialmente terzomondista, filoarabo, propenso a una specie di equidistanza dai blocchi americano e sovietico (che in quel momento era simmetrico alle posizioni di Amintore Fanfani e della mano economica della Dc, Enrico Mattei), il presidente fu protagonista di una serie di episodi che suscitarono allarme e preoccupazioni tra le forze politiche: per esempio, nel 1955 convocò ministri e ambasciatori al Quirinale per discutere problemi internazionali; l'anno dopo elaborò e sottopose al Cremlino, all'insaputa del governo e degli alleati, un piano ufficioso per la riunificazione di una Germania «neutralizzata». Durante la crisi di Suez prese posizione contro gli anglo-francesi e a favore degli egiziani; nel 1959 entrò in collisione con francesi e tedeschi, contrari alla trattativa che si stava delineando fra Usa e Urss su Berlino; nel 1960, una fallimentare visita a Mosca, segnata nelle cronache da uno storico e comico litigio con Kruscev, provocò la caduta del governo. Ma fu ovviamente in politica interna che si sentì in maggiore misura l'effetto del presidenzialismo gronchiano. Nel momento in cui il Quirinale entrava nella lotta politica per imprimere il proprio marchio sul governo, l'azione presidenziale diveniva un fortissimo elemento politico, capace di influenzare e modificare la situazione. Gronchi era favorevole all'apertura a sinistra, cioè al coinvolgimento del Partito socialista nell'area del governo, e proprio il tentativo di forzare gli equilibri in questa direzione fu all'origine di uno degli episodi più catastrofici del suo mandato, quello che è passato alla storia come il caso Tambroni. Nel 1960, durante una crisi di governo determinata dal ritiro dei liberali, il capo dello Stato affidò a Tambroni l'incarico di formare un monocolore democristiano che procedesse a una cauta apertura verso i socialisti. Tuttavia alla Camera il governo Tambroni ottenne solo la fiducia dei missini. Gronchi respinse l'immediato ritiro del governo, rinviandolo al Senato. A quel punto, come è noto, esplose la piazza: si ebbero gravi moti in diverse città, morti e feriti. Solo dopo la caduta di Tambroni la situazione politica rientrò nei binari della normalità. In definitiva un bilancio del settennato di Gronchi deve tenere da un lato dell'intenso impulso dato dal Quirinale al completamento dell'assetto costituzionale dello Stato (ad esempio con l'attuazione della Corte costituzionale); dall'altro del tentativo di alterare i contorni della presidenza della Repubblica trasformandola da polo costituzionale in punto di riferimento politico, sovrapponendo il proprio attivismo all'azione del governo e non di rado entrando in conflitto con esso. L'assenza della sintonia con il governo di cui aveva goduto Einaudi, vale a dire di una solida base politico-programmatica in cui essere inserito, obbligava il presidente della Repubblica a formarsi una piattaforma politica personale, cercando e accettando gli appoggi delle parti che volevano offrirgliela. Ma alla resa dei conti la presidenza Gronchi appare come un lato complementare al disfacimento degli equilibri centristi, il riflesso di un quadro politico che doveva trovare un punto di equilibrio più avanzato ma non aveva ancora interiorizzato una strategia coerente e coerentemente perseguibile. Segni: un contrappeso all'apertura a sinistra Fra i molti giochi degli equivoci che sono stati inscenati nell'Italia contemporanea, l'esperienza del centrosinistra è per certi aspetti emblematica. La Democrazia cristiana pensava di utilizzare i socialisti per stabilizzare una situazione politica difficile; il Partito socialista era convinto che fosse possibile erodere il sistema capitalistico dall'interno, attuando quelle riforme «di struttura» che avrebbero condotto a un radicale ridisegno sociale. In ogni caso, un programma avanzato di riforme non era proponibile senza resistenze. L'esordio dei socialisti nell'area della maggioranza, nel 1962, avviene sulla scia di un programma che contemplava la nazionalizzazione dell'energia elettrica e la riforma della scuola; occorreva, sul lato opposto, una garanzia istituzionale che rassicurasse il fronte moderato. L'elezione di Antonio Segni, avvenuta il 6 maggio del 1962, dopo nove scrutini, con una stretta maggioranza di centrodestra, venne subito percepita come la polizza d'assicurazione siglata dai dorotei rispetto ai possibili rischi dell'apertura a sinistra. A differenza di Gronchi, Segni godeva di una forte, stringente legittimazione politica; il paradosso però era che il tipo di legittimazio ne che gli era stata conferita collideva nettamente con il programma politico che era stato redatto in sede parlamentare e di governo. Lo Stato, il vertice dell'assetto istituzionale, si restringeva così a una specie di contro potere. Segni si segnalò in particolare per la venatura «giuridica» che conferì al proprio ruolo, intervenendo con assiduità alle sedute del Csm, raddoppiando i casi di rinvio delle leggi alle Camere, accentuando gli interventi sul governo per influenzare i dispositivi delle riforme caratterizzanti la politica di centrosinistra. Anche se la prematura interruzione per malattia del mandato di Segni non consente di configurare con pienezza il suo ruolo, si può se non altro dire che la sua è stata la presidenza di un moderato, che concepiva il rapporto fra gli ordinamenti come qualcosa da conservare e da stabilizzare, non da innovare. Se il dinamismo di Gronchi si era trasferito anche nell'attuazione dell'assetto costituzionale, Segni mostrò di concepire l'apparato istituzionale e legislativo del nostro paese come qualcosa di assodato, che necessitava eventualmente di consolidamenti, non di adeguamenti a una realtà in cambiamento. Alla sua preferenza per le relazioni con gli apparati ufficiali dello Stato e le burocrazie militari anziché per il contatto con una società italiana che cercava con fatica ma anche con un certo tratto di originalità una sua via allo sviluppo, può forse essere fatta risalire la pagina tuttora indecifrata di quel «rumore di sciabole» che si avvertì con il «Piano Solo» del generale De Lorenzo: a cui è difficile oggi attribuire una volontà esplicita di determinare una svolta autoritaria ma di cui non si può trascurare il carattere di ammonizione rivolta alla politica delle riforme. Saragat, il garante del centrosinistra Dopo avere fallito l'elezione nel 1962, il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat, «il più liberale dei marxisti, l'unico marxista dei liberali» (come l'aveva definito in una dedica Carlo Rosselli nel 1930), fu eletto al Quirinale il 28 dicembre del 1964. Occorsero ventuno scrutini. È sufficiente questo dato per chiarire l'importanza che i partiti attribuivano all'elezione del nuovo capo dello Stato. I prezzi pagati per giungere a un accordo sono testimoniati dalle 150 schede bianche democristiane nello scrutinio decisivo e dal determinante voto comunista, a cui Saragat aveva mandato segnali. I quindici giorni di intrighi e contrattazioni portarono il «Times» a commentare: «Il candidato più idoneo è stato eletto nel peggiore dei modi». Tuttavia, nonostante che per un momento si fosse pensato che l'elezione del maggiore esponente socialdemocratico potesse preludere a qualche forma di coinvolgimento tattico del Pci, Saragat si rivelò poi per tutto il suo settennato come il promotore e il tutore della formula di centrosinistra. Il congegno istituzionale adottato da Saragat come garante politico del governo quadripartito fu identificato dai mandati «vincolati» conferiti per quattro volte, cioè incarichi per la formazione di un governo subordinati al vincolo del rispetto dell'equilibrio di centrosinistra. Ci furono critiche anche aspre per questo atteggiamento del Quirinale, e una parte consistente dei costituzionalisti lo giudicano non conforme al dettato costituzionale. Tuttavia risulta piuttosto incongruo valutare l'azione di Saragat in senso astratto. Egli si muoveva in politica estera sul filo di un coerente e determinatissimo atlantismo (fino a essere accusato di surrogare la politica estera del governo), e all'interno come garante di una stagione politica che andava verso l'esaurimento. Il sostegno esplicito e forse non esattamente protocollare all'unificazione socialista nel 1966, e il tentativo di costringere la governabilità nelle maglie sempre più allentate del centrosinistra, costituiscono la riprova più emblematica che ogni capo dello Stato è figlio della propria stagione politica. Espressione del centrosinistra, Saragat ne fu l'anima politico- istituzionale. Probabilmente non c'è un'altra esperienza al Quirinale di così completa identificazione fra equilibri politici e ruolo istituzionale. Leone, notaio e vittima La vigilia di Natale del 1971, al ventitreesimo scrutinio, Giovanni Leone venne eletto dal Parlamento sulla base di una maggioranza di centrodestra. Era un notabile democristiano estraneo al gioco delle correnti, moderato, anticomunista. La sua elezione, dopo un'ecatombe di candidature, fu percepita come il risultato di uno scontro politico che aveva come posta la questione comunista, e cioè la praticabilità di una strategia politica che configurasse l'utilizzabilità governativa del Pci. La vittoria del fronte moderato apriva il gioco costituendo una posizione di forza; ma nello stesso tempo imprigionava Leone in una caratterizzazione politica che si sarebbe rivelata esiziale per lui quando le condizioni politiche degli anni Settanta sarebbero entrati in turbolenza. Ciò nonostante, risulta difficile contestare la correttezza istituzionale di Leone. Attestato sul crinale della non interferenza rispetto ai partiti, Leone può essere sottoposto a critiche soltanto per pochi episodi, e tutti controversi, suscettibili cioè anche di un'interpretazione a lui favorevole. Ad esempio, gli scioglimenti delle Camere a cui ha provveduto, nel 1972 e nel 1976, erano casi esemplari derivanti dall'impossibilità di formare una maggioranza. Diede, in sostanza, un'interpretazione del proprio ruolo caratterizzata da una netta impostazione di precisione giuridica e di coerenza procedurale. Nel settennato incompiuto di Leone, il caso che ha acceso le maggiori discussioni è quello relativo al messaggio inviato alle Camere nell'ottobre del 1975. Il presidente sottolineava l'esigenza di procedere all'attuazione integrale della Costituzione e di riformare l'organizzazione pubblica, per dare strumenti adeguati alla soluzione della crisi politica. Si trattava di un messaggio ambizioso, che investiva tanto la struttura politico-istituzionale quanto la funzionalità degli apparati burocratici e non si fermava di fronte alla discussione di provvedimenti atti a favorire la soluzione dei problemi economici del paese. Venne sottolineata però soprattutto la parte che si riferiva alla regolamentazione costituzionale del diritto di sciopero, indicando così alla censura politica un presunto aspetto conservatore delle posizioni del capo dello Stato, e dopo alcuni tentennamenti il messaggio fu archiviato senza discussione parlamentare. Piuttosto, sembra evidente che l'unico presidente della Repubblica costretto alle dimissioni, pochissimi mesi prima della scadenza del settennato, sia stato travolto dal rapido alterarsi delle condizioni politiche che ne avevano favorito l'elezione. Portato al Quirinale come espressione di uno schieramento che escludeva programmaticamente qualsiasi coinvolgimento dei comunisti nell'area del governo, Leone vedeva la sua posizione indebolirsi man mano che sulla scia delle grandi discussioni pubbliche del decennio (come il divorzio) e di una situazione sociale segnata da conflitti sempre più aspri, la questione comunista guadagnava attualità e pesantezza politica. A questo punto anche l'estraneità del capo dello Stato rispetto a correnti e a gruppi di potere diventava un fattore di debolezza. Se si ripensa agli ultimi mesi della presidenza Leone, allo scandalo Lockheed, al dramma politico del rapimento di Aldo Moro (con il capo dello Stato che scelse una posizione trattativista), al «ritiro della fiducia» da parte dei partiti e dell'opinione pubblica, viene il dubbio che in un frangente di estrema drammatizzazione della vita politica, in un clima di sospetto e tragedia, proprio la caratterizzazione «notarile» voluta da Leone, la distanza frapposta fra il Colle e la dinamica politica (e anche la stessa acquiescenza verso il partito di maggioranza relativa), abbiano contribuito a rendere più facile il sacrificio della posizione più esposta. Se si accetta la metafora secondo cui in realtà la vicenda repubblicana non ha mai visto al Quirinale un presidente «notaio», bensì giocatori politici, risulta più facile comprendere l'isolamento di Leone, la sua drammatica assenza di punti d'appoggio. Quando sulla scacchiera si succede un vortice di arroccamenti, attacchi, manovre che sembrano non condurre da nessuna parte, può risultare razionale produrre il sacrificio, reale e simbolico, del Re che non conta nulla. Pertini o della popolarità Il problema più complesso nell'affrontare la presidenza di Sandra Pertini dipende dalla difficoltà di districare il Presidente dal Protagonista. L'aspetto più immediato del settennato del vecchio socialista populista eroe della Resistenza e romanticamente legato all'idea dell'unità delle sinistre è infatti l'eccezionale grado di esposizione pubblica che egli diede al Quirinale. Pertini fu eletto il 7 luglio del 1978, dopo sedici turni di voto, raccogliendo una maggioranza altissima, 832 voti su 995, tutti quelli delle forze politiche comprese in ciò che allora veniva definito «arco costituzionale». La sua elezione, che aveva sullo sfondo il governo di solidarietà nazionale e una fase virulenta dell'attacco terroristico allo Stato, fu accolta dall'opinione pubblica come un netto distacco dal passato. Il nuovo presidente della Repubblica era un «uomo solo», svincolato perfino dal suo stesso partito (come avrebbe dimostrato in talune polemiche con i «colonnelli» del Psi rinnovato dopo il Midas), perfettamente consapevole della potenza simbolica assunta dalla sua figura rispetto a vastissime fasce di cittadini: si instaurò ben presto una sorta di sovra-legittimazione popolare del presidente, qualcosa di simile a una impronta plebiscitaria stabilita informalmente, attraverso gli organi di comunicazione, le dichiarazioni, le interviste. In un articolo feroce c magistrale, pubblicato nel giugno del 1985, mentre si apriva la corsa al Quirinale che avrebbe portato sul Colle Francesco Cossiga, Indro Montanelli scrisse che la sua gestione si chiudeva in largo attivo, avendo riportato al Quirinale un buon «profumo di bucato». Ma poi procedeva alla demolizione del monumento Pertini, delle sue debolezze culturali: «un frullato di parole maiuscole, Popolo, Umanità, Libertà, Giustizia, Resistenza»; di quel fiuto per gli umori popolari che veniva così sintetizzato: «Non ha mai sbagliato una lacrima, sebbene ne abbia versate quante nessuno prima di lui ... Ha maneggiato più bare di un becchino e più culle di una balia». Per concludere: «Egli rimarrà indelebile nella nostra memoria e nel nostro cuore come il Presidente che ha incarnato al meglio il peggio degli italiani». Forse questo è nient'altro che folklore. Ma il carisma di Pertini, insieme alla sua scarsa considerazione per il lato protocollare e procedurale dei suoi compiti, ha dato luogo a critiche piuttosto risentite su temi di un consistente rilievo costituzionale. In particolare ci sono alcuni episodi in cui l'esercizio dei poteri presidenziali è apparso insidiosamente vicino ai limiti consentiti. Il primo caso riguarda il conferimento dell'incarico di formare il governo ad Andreotti, nel marzo 1979, in cui convinse il leader democristiano ad accettare l'ipotesi di nominare anche due vicepresidenti del consiglio (La Malfa e Saragat, convocati al Quirinale insieme al presidente incaricato). Questo intervento apparve immediatamente discutibile, in quanto entrava nel vivo della formula politica del governo e della composizione dell'esecutivo, ponendosi in attrito con le competenze che secondo il dettato costituzionale spettano al presidente del consiglio. D'altra parte Pertini non nascose mai la propria tendenza a stendere la propria tutela e la propria benevolenza sul governo. Anzi, quando durante il governo Spadolini si assistette a un violento scontro fra il ministro del tesoro Andreatta e i socialisti, il capo dello Stato non esitò a intervenire censurando violentemente il comportamento del ministro («disgustoso»), in modo da indurre il Psi a ritirare la minaccia di dimissioni dal governo. Quello che è stato registrato come il caso più criticabile nell'operato di Pertini è comunque il comportamento tenuto durante un aspro conflitto sindacale, lo sciopero dei controllori di volo (ufficiali e sottufficiali dell'aeronautica) nel novembre 1979. Il capo dello Stato accettò di incontrare il comitato di coordinamento dell'aviazione, alla presenza del presidente del consiglio Cossiga e del ministro della difesa Ruffini, inducendo il governo ad accettare una bozza di accordo preparata dal comitato di coordinamento. Non era congrua la sede per la trattativa, e soprattutto emerse in questa anomala mediazione la propensione di Pertini a un attivismo che sembrava scavalcare le prerogative del governo. Ma riesce arduo descrivere in breve l'interventismo del Quirinale in questo settennato: Pertini esprimeva opinioni, inviti e suggerimenti su qualsiasi tema, anche quelli che avrebbero trovato sede appropriata soltanto nell'ambito del governo o del parlamento (l'elenco sarebbe lunghissimo: critica il ministro israeliano Sharon, denuncia le speculazioni nel Belice, riceve al Quirinale Arafat e si dice favorevole a uno Stato palestinese, indica in centrali internazionali la matrice del terrorismo, telegrafa al giudice Calogero complimentandosi per l'incriminazione di Toni Negri, piange la morte di Berlinguer «compagno di lotta» ... ). Se sul fronte del consenso popolare non ci furono défaillances nel livello di popolarità di Pertini, che anzi andò continuamente crescendo (Ceronetti coniò il termine di «papagiovannificazione» per ironizzare sul pertinismo galoppante, sul «culto della pertinità»), ed è difficile negare la funzione di rilegittimazione delle istituzioni che egli rivestì, sotto il profilo costituzionale le critiche lentamente si stratificarono e si consolidarono: il presidenzialismo «strisciante» che poté essere imputato al Capo dello Stato per i suoi strappi procedurali lasciava tuttavia il campo a una convinzione condivisa da tutti: che Pertini era inimitabile. Il prossimo inquilino del Colle avrebbe ristabilito la norma, non avrebbe certamente ripetuto il diluvio di eccezioni su cui si era costruito il racconto popolare del «presidente più amato dagli italiani». Le due facce di Cossiga Francesco Cossiga venne eletto il 24 giugno, al primo turno, come era accaduto solo per De Nicola, con una maggioranza amplissima. Doveva risultare nelle previsioni il simbolo di un certo polveroso e rigoroso grigiore istituzionale, e per cinque anni ha interpretato infatti la parte del presidente giurista, assiduo avvocato della correttezza dell'andamento istituzionale, convinto della possibilità di ricondurre il conflitto politico entro la struttura costituzionale esistente; alla fine, quando si è convinto che occorreva predisporre un assetto istituzionale diverso, si è rivelato come un principio di divisione assolutamente inedito. Trascuriamo in questa sede le condizioni tecniche in cui si è sviluppato il suo radicale mutamento di atteggiamenti: vale a dire che prescindiamo dall'eventualità che intorno alla sua posizione si siano concentrate manovre affaristico-politiche per costringerlo alle dimissioni, come pure dalle polemiche che hanno coinvolto il suo nome per ciò che riguarda il caso Gladio, il Piano Solo, ecc. Per centrare il cuore del problema, non prendiamo in considerazione neppure il conflitto più significativo sotto il profilo istituzionale, nel quale il presidente è intervenuto da protagonista (e mantenendo fin dall'inizio del suo mandato una linea precisa e coerente), quello con il Consiglio superiore della magistratura: sul quale probabilmente Cossiga avrebbe avuto la possibilità di guadagnare un'eccezionale posta politica e che invece si è rivelato come un caso esemplare di una sua certa incapacità di praticare una strategia di alleanze, di aprire fronti tattici, di cercare di scomporre con pazienza lo schieramento awerso. Depurato dalle scorie della cronaca quotidiana, il comportamento ultimo di Cossiga può essere identificato in base a due motivazioni di fondo: la percezione della necessità di un consistente adeguamento costituzionale, al fine di allestire le condizioni di una democrazia «matura», non più bloccata da esclusioni ideologiche; l' individuazione nel Parlamento di due fronti contrapposti, l'uno favorevole a un decisivo salto istituzionale, l'altro propenso a minimizzare l'intervento sulla Costituzione e ad agire con soluzioni di mutamento morbido. Il messaggio discusso alle Camere alla fine del luglio 1991 significava probabilmente il tentativo estremo di fare emergere questi due schieramenti e di instradare il dibattito istituzionale verso un confronto che a quel punto, nel giudizio del capo dello Stato, non poteva più essere contenuto nelle stanze di compensazione del sistema partitico, ma che per la sua ampiezza e per il suo significato doveva trovare una legittimazione popolare. Non sono mancate le accuse a Cossiga di voler aprire la via a una democrazia di tipo plebiscitario e presidenzialista. E di fatto molti osservatori avevano buon gioco nell'obiettare che la riforma del sistema politico e istituzionale poteva benissimo essere oggetto del confronto tra i partiti. Ma ciò che è risultato evidente alla fine dei giorni frenetici della discussione parlamentare sul suo messaggio è stata la grande debolezza dello schieramento che sponsorizzava le tesi del capo dello Stato. Se l'obiettivo del Quirinale era quello di consolidare uno schieramento favorevole alla seconda Repubblica, magari ancora minoritario ma con una consistenza sufficiente a fare esplodere le contraddizioni nell'alleanza di governo e a provocare quindi la fuoruscita del dibattito istituzionale dal circuito parlamentare, nella direzione di soluzioni referendarie, si deve prendere atto che questa strategia è sostanzialmente fallita. Al termine della discussione nei due rami del Parlamento il fronte allineato sulle posizioni di Cossiga è risultato troppo debole per poter produrre esiti di qualche rilievo. A fianco del Psi, che a lungo si è proposto come il vero «partito del presidente», sono rimasti, oltre alla pattuglia liberale, partner non propriamente utili come il Movimento sociale e la Lega lombarda. Chi vorrà trarre un bilancio della presidenza Cossiga dovrà quindi mettere nel conto un risultato per certi versi paradossale: vale a dire il suo involontario contributo all'immobilità, insieme con una sottile ma via via più percepibile opera di delegittimazione del tema delle riforme istituzionali, che da strumento essenziale di rinnovamento hanno cominciato ad assumere ad un certo punto il segno di una insidiosa valenza di destabilizzazione. Per un politico, ed è difficile negare che Cossiga ha tentato una scommessa politica altissima, si è trattato di un errore; anzi, peggio, di una sconfitta.
Il Mulino, 05-06 1992
La musica del Quartetto. Il quadripartito al canto del cigno
Come ormai si è diffusamente capito, le elezioni del 5 -6 aprile non sono mai avvenute. O meglio, si sono svolte in un'area dell'immaginario fatta della materia di cui sono fatti i sogni, le impressioni frammentarie, i ricordi gratuiti. Nell'incipiente primavera del 1992, o meglio, a dirlo con minore esattezza cronologica e maggiore precisione psicologica, nell'autunno inoltrato e grigio del nostro sistema politico, si è svolto un massiccio sondaggio d'opinione, impreciso e non immediato nelle conseguenze come tutti i sondaggi. Per un eccesso di ottimismo, o di fede nel principio di causalità, molti avevano creduto che questa indagine sui gusti politici degli italiani avrebbe avuto qualche inesplicabile effetto sulla situazione politica e sul confronto tra i partiti. Che si trattasse di una misera illusione percettiva lo hanno dimostrato i fatti: e che per oltre due mesi la situazione politica sia rimasta in uno stato molecolare, di dissoluzione gassosa, in una fluidità inerte senza che nessun reagente potesse catalizzare una formula, una maggioranza, un'ipotesi di governo, appare la dimostrazione definitiva che nel laboratorio di chimica della politica italiana sono sbagliate le dosi, gli alambicchi sono fuori uso, da nessuna reazione esce il composto voluto. Alla fine, il sistema è riuscito nell'impresa di creare soltanto minoranze, un ventaglio di rappresentanze amorfe. Sarebbe la situazione ideale per chiunque volesse, stregonescamente, evocare dal disordine e dallo sfaldamento lo spirito di un'iniziativa politica. Ma il caso vuole, si scelga se per disgrazia o per fortuna, che nella classe politica non ci siano più né carismatici né strateghi, né duri decisori né ispirati progettisti della mediazione: sicché quelli che vengono ogni giorno evocati dall'abisso sono spiritelli deboli, a cui si tenta senza troppa convinzione di mettere addosso il lenzuolo dei grandi e vecchi fantasmi della politica. Senza riuscire a conferire loro un tono adeguato, è logico. Una volta c'era l'antro degli arcani, dove aveva luogo lo scontro di forze sufficientemente misteriose per risultare potenti e allusive a entità concrete di ingente estensione politica, sociale e culturale (il mondo cattolico, la diversità comunista, la modernità socialista, il razionalismo degli ambienti laici); in esso si disegnavano e si componevano gli equilibri di potere, in quella reazione a catena di conflitto e mediazione che ha caratterizzato l'esperienza repubblicana e infine l'ha portata al melt down, alla catastrofica fusione del nocciolo, quando la ripartizione del potere è collassata nella perdita definitiva dei criteri di responsabilità. Come risultato, ora sembra esistere solo una immensa e caotica cucina, con fornelli fuori uso, tegami sfondati, cocci e materiali di scarto. In quel disordine vagamente losco, si affollano le reliquie sconsacrate di ciò che è stato il cerimoniale della rappresentanza e della partecipazione, del confronto e della decisione. Anziché apprendisti stregoni vi si aggirano cuochi sempre più incerti sugli ingredienti e perplessi sul menù da preparare per uno stuolo di clienti che appare sempre più avvilito e sfiduciato sulla qualità di quella vieille cuisine. Se la politica è un modo per esprimere in una dimensione immateriale, e quindi calcolabile e convenientemente razionale, la varietà dei conflitti concreti che si agitano nel mondo della vita, adesso dovremmo probabilmente riconoscere che il sistema politico del nostro paese è riuscito alla lunga a realizzare l'operazione esattamente inversa: si è appropriato di idee, preferibilmente le più nobili, e le ha fatte diventare cose, oggetti materiali, settori d'interesse. Ha preso i concetti, e li ha materializzati nel Lebenswelt, come degradata materia di scambio. Ma quando i piani delle idee e della realtà si intersecano, si confondono, si intrecciano, cominciano a verificarsi fenomeni di singolare e irritante imprevedibilità, in cui ogni parola si ribalta in parodia: dal seme concettuale della solidarietà proliferano i frutti rinsecchiti e sterili dell'assistenzialismo, dall'idea alta del consenso derivano le pratiche più basse di acquisizione del voto, dalle radici comuni e dal sostegno democratico fra partiti alleati è nato ed è diventato grande, ramificato, inestinguibile l'albero della spartizione. Con il risultato che in questo humus insalubre le cose e le parole si sono ammalate insieme, le une hanno perso valore, le altre sono precipitate nell'irrealtà. Referendum per il Quartetto Nel deserto di proposte politiche che precedeva le elezioni, fra miraggi e piste scomparse, ad un certo momento la competizione ha cominciato a profilarsi come un referendum pro o contro l'alleanza di quadri partito. Tornava comodo alle opposizioni, parlamentari o giornalistiche, qualificare l'alleanza fondata sul rapporto Dc-P si come l'espressione di un ancien régime da battere, una bloccata società d'ordini da scompaginare per riaprire i tavoli del gioco politico. E probabilmente anche l'impostazione che Arnaldo Forlani e Bettino Craxi hanno dato alla campagna elettorale, tutta all'insegna di una governabilità continuista, accettava il rischio di un giudizio popolare sul pacchetto politico costituito dal quadripartito. Anzi, lo sollecitava esplicitamente: presentare l'alleanza di governo qualificandola come l'unico strumento possibile per la gestione del paese, chiamare sul proscenio i Quattro come i soli interpreti plausibili del concerto dell'amministrazione pubblica, forniva in un certo senso alla coalizione una specie di legittimazione politica minore, in cui la compattezza di facciata della partnership poteva servire a mascherare il vuoto di programma politico, il contenitore surrogare il contenuto. Anche in questo caso, idee e fatti si confondevano senza scampo, dal momento che le parole predominavano sulle cose, la formula di governo sostituiva il governo assente. Si chiedeva un voto per l'affidabilità degli orchestrali anziché per la qualità della musica. Ma se non altro veniva sottoposto all'elettorato un quesito abbastanza chiaro, fondato su un criterio di valutazione semplice ed esplicito: il 5 aprile si votava sì o no al Quartetto. E invece, dalle urne è uscito uno shock assai più intenso del previsto. Uno schiaffo al governo, ma niente carezze all'opposizione tradizionale. Quasi otto milioni di italiani hanno deposto nelle urne una scheda «contro il sistema», scegliendo l'area della protesta (Lega Nord) o dell'antagonismo frontale rispetto ai partiti liberaldemocratici (Msi a destra e Rifondazione comunista a sinistra). I partiti maggiori hanno visto franare la loro consistenza, come nel caso della Dc e del Pds, o hanno registrato la cocente delusione di uno stallo, come per il Psi. Il cuneo del senatore Bossi si è infilato all'altezza della linea gotica, dividendo la rappresentanza nazionale e meridionalizzando i due principali partiti di governo. L'alleanza a quattro è sopravvissuta all'uragano, ma si è salvata solo in base al calcolo numerico dei seggi ottenuti: dopo il naufragio dei vascelli di governo, i partiti della coalizione si sono trovati a galleggiare su un mare cosparso di rottami; potevano ancora aggrapparsi ai relitti della vecchia maggioranza, ma non c'era nessuna prospettiva ragionevole di rabberciare politicamente la nave della coalizione. Riportare in cantiere la flottiglia, e costruire con i resti del naufragio una nuova navicella, poteva portare a esiti estetici vagamente mostruosi e a risultati funzionali di portata assai ridotta. Il mare della metafora era quello dei guai. Tuttavia la lezione del 5 aprile era piuttosto semplice, per chi l'avesse voluta trarre. La scelta politica fondamentale riguardava due soluzioni: se la prossima coalizione di governo doveva portare a un esecutivo a termine, improntato da una funzione costituente, appariva, più che difficile, impossibile sbarrare ancora la strada a un Pds ridimensionato, che aveva fatto di tutto per tramutare un fiasco in un trionfo ma che aveva visto aumentare la propria marginalità e quindi il proprio coefficiente di utilizzabilità; in alternativa c'era solo la possibilità di allargare l'ex quadripartito alle pattuglie verdi e radicali, tentare un problematico recupero dei repubblicani, oppure occhieggiare avventuristicamente e trasformisticamente alla Lega. Ma in quest'ultimo caso, cioè nel caso di un governo tampone, il riassetto istituzionale avrebbe dovuto poi essere esplorato su un altro tavolo, nel cuore del Parlamento, sfidando altissimi rischi di attrito fra maggioranza governativa ed eventuale «seconda maggioranza» parlamentare. Il primo degli sconfitti, il segretario dc Arnaldo Forlani, dimostrava di avere capito benissimo il senso del voto, e si presentava dimissionario al consiglio nazionale del 14 aprile. Ma a questo punto cominciava a prendere forma una situazione che uno spettatore ingenuo avrebbe giudicato più o meno incomprensibile. All'abbandono di Forlani si opponeva quasi tutto il partito: tranne alcuni settori della sinistra ( Goria, Bodrato) le correnti si schieravano all'unanimità contro le dimissioni del segretario. I leader maggiori, da Andreotti a De Mita, da Gava a Marini, rigettavano con sdegno l'idea così profondamente antidemocristiana di fare di Forlani l'immediato capro espiatorio della sconfitta subita alle elezioni. C'è quasi sempre una vena di sottile sadismo nel modo in cui la Dc tratta i leader sconfitti, obbligandoli «per spirito di servizio» a sopportare gli esiti delle défaillances; ma occorre intendersi: si sa che il sistema politico italiano è il meno adatto per indurre i responsabili dei partiti puniti dagli elettori a «trarre le conseguenze», come si dice eufemisticamente nel gergo politico, dall'esito sfavorevole delle urne. Cioè a dimettersi quando le campagne finiscono in un disastro. Se n'è guardato bene dal trarle, le lezioni o le conseguenze, Bettino Craxi, che pure negli ultimi giorni della campagna elettorale aveva incautamente impegnato sul banco dei risultati del voto la propria stessa posizione di monarca assoluto del partito; e nemmeno Achille Occhetto, quantunque il Pds avesse registrato un risultato al di sotto della soglia minima di tenuta. Ciò nonostante, Forlani ha compiuto un'analisi sostanzialmente precisa: ha riconosciuto l'esaurimento della formula a quattro, e ha offerto il suo mandato per consentire una trattativa a mani libere e a raggio più ampio. Bisogna considerare che Forlani non è stato il Re Travicello di una Dc sbandata, un segretario qualunque di una transizione senza orientamenti: è stato il regista e l'interprete di una fase politica precisa, quella fondata sul rapporto di ferro con il Psi dopo la fase di conflitto gestita da De Mita. Se questo rapporto preferenziale andava in crisi, occorreva quanto prima una strategia di riserva. Le strategie assenti E con ogni evidenza la Dc questa strategia di riserva non l'aveva. Ma c'è di peggio: l'aggravante è che non l'avevano neppure gli altri partiti usciti sconfitti dal voto. Può sembrare implausibile, ma tanto la Dc quanto il P si avevano fatto una puntata secca su una sola combinazione di numeri. Avevano scommesso sulla paura del vuoto. L'unico risultato buono di questa improbabile tombola era la vecchia quaterna. Ma dal momento che i numeri non erano usciti, i due partiti si ritrovavano a cartelle scoperte. Con la remissione del mandato, Forlani lasciava libero il partito di cercare contatti e alleanze fuori dalla vecchia formula, e probabilmente anche dall'asse con il Psi, di cui era sempre stato il tutore; ma il partito non era pronto a un rimescolamento interno così immediato, non c'era nessun leader che potesse proporsi con plausibilità per un deciso cambiamento dì indirizzo politico, e così la segreteria è stata temporaneamente puntellata. Vale la pena di sottolineare un elemento che forse non è stato notato a sufficienza: in questo momento, uno degli aspetti centrali dell'evoluzione politica italiana (per non dire l'aspetto centrale tout court) si riferisce all'ipotesi che il trentennale rapporto di collaborazione fra Dc e Psì sia prossimo all'esaurimento. Tutte le ipotesi di riforma elettorale che sono state formulate tendono, in maggiore o minore misura, con meccanismi più o meno incisivi, a rettificare l' «anomalia» italiana di un centro politico occupato da due partiti che in un sistema a somma zero dovrebbero fronteggiarsi da avversari, sulle sponde opposte del sistema politico. Bene, proprio allorché i risultati delle elezioni politiche mettono sotto cruda luce che l' «ambiente», l'ecosistema politico in cui si è sviluppata nel tempo la collaborazione fra cattolici e socialisti, cioè il centrosinistra, si è insidiosamente ristretto e impoverito, i due protagonisti della lunga coalizione si rivelano privi di una linea alternativa. I numeri cominciano a dare corpo a un'ipotesi che comunque era nell'aria, e Dc e Psi devono fare finta che i numeri siano in essenziali, e le ipotesi di conseguenza irreali. O meglio: le alternative ci sono, ma come sempre non sono mature. Una decisa virata democristiana verso il Pds, che sarebbe logica anche per le affinità dei progetti di riforma elettorale dei due partiti, non ha ancora dentro la Dc il timoniere giusto. E la vera novità in area democristiana, l'emersione di Mario Segni, continua a essere guardata con sospetto, nel timore che i congegni elettorali di tipo anglosassone pensati dall' «uomo nuovo» di Sassari possano intaccare l'ispirazione interclassìsta della Dc, consegnandola a un ruolo moderato che negherebbe al partito la sua tradizionale capacità di fare il pendolo fra destra e sinistra e quindi di reìnventarsi quando occorre come alternativa a se stesso. Occorre un congresso che prenda atto della fine di una formula e indichi il leader di una strategia diversa. Per ora, a Forlani viene lasciato il compito di fare il curatore fallimentare del quadripartìto. E non è matura nemmeno questa volta la linea di alternativa a sinistra. Per chi non l'avesse ancora intuito, l'alternativa di sinistra è quella cosa che tutti dicono di volere, «ma domani». Sulla base di questo brillante schema il Psi ha potuto restare al governo trent'anni, e per trent'anni il Pci si è potuto consentire il lusso di rimandare il suo appuntamento con l'orologio di Bad Godesberg. Dopo il 5 aprile, Claudio Martelli ha tentato di istituire un rapporto più stretto fra Psi e Pds, per poter gestire più fruttuosamente l'equilibrio con la Dc. Nelle condizioni piuttosto cattive in cui la sinistra versava dopo il voto, l'operazione era fra le poche che aprissero un barlume, se non una vera e propria prospettiva. Il Psi, dopo anni di durissima conflittualità con il Pci, dopo uno scontro che soprattutto negli anni di Berlinguer aveva assunto i toni di un conflitto fra due «nature» perfettamente incompatibili, dopo il crollo del Muro e lo scioglimento del Ghiacciaio sì trovava nelle mani un risultato cedente, che sanzionava oggettivamente la fine dell'onda lunga. Tanto rumore per nulla. E tuttavia l'iniziativa di Martelli si è infranta prima sul fuoco di sbarramento di Massimo D' Alema ( «Craxi è l'esponente di una fase politica conclusa») e poi sulla reazione, meno prevedibile ma altrettanto dura, di Occhetto. Ci si è chiesti a lungo quali fossero le ragioni di una presa di posizione del Pds che aveva tutta l'aria di essere drammaticamente «impolitica», e le spiegazioni sono risultate tutte piuttosto deludenti. Il no al Psi si può argomentare con la necessità di Occhetto di fronteggiare la concorrenza di Rifondazione comunista (uno dei vincitori, l'altro è ovviamente la Lega, delle politiche), che minacciava anche di esercitare attrazioni fatali entro l'area neocomunista del Pds. Un altro argomento a cui si è accennato è che a Botteghe Oscure si fosse già a conoscenza della piega che avrebbe preso l'affare «Tangenti a Milano», e quindi che relazioni più ravvicinate con una leadership socialista in procinto di essere danneggiata da vicino dallo scandalo ambrosiano fossero giudicate inopportune. In ogni caso resta il mistero di una presa di posizione del Pds che isolava ancora una volta il partito, e poneva le premesse per la perdita della presidenza della Camera, attraverso una successione di eventi che registra il sacrificio (e l'aspro risentimento) di Nilde Iotti, il fallimento dell'operazione che doveva sostituirla con il leader dei riformisti Napolitano, l'esclusione del partito nel processo che ha portato all'elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento, la liquidazione di qualsiasi ipotesi di partecipare a un governo in seguito. Si tratta di una terribile catena di incidenti politici, che rappresentano un'implicita conferma a margine del fatto che le elezioni politiche avevano sancito un pesante insuccesso, e non la tiepida affermazione che il Pds aveva cercato, con una certa capacità di convinzione, di accreditare. In secondo luogo, vale la pena di registrare che nei momenti che contano la Quercia non riesce a rientrare a pieno titolo nel gioco politico (era già successo un anno e mezzo fa, durante la Guerra del Golfo, quando il Pds, in piena autotrasformazione, aveva assunto una posizione contraria alle posizioni italiane di politica estera, confinandosi in un ruolo marginale). Ma in questa primavera l'immobilità catatonica del Pds ha assunto una coloritura più grave se si pensa che la sua ridisegnata legittimità democratica aveva ricevuto finalmente il battesimo del voto; e soprattutto che nell'immediato dopo-elezioni il suo inserimento nell'area di governo costituiva il primo argomento all'ordine del giorno. Mentre finisce per sempre, in buona sostanza, la conventio ad excludendum, il Pds riesce a escludersi da solo. E per colmo di ironia riesce in questo modo ad appiccicare al quadri partito salvato dalle acque l'etichetta paradossale di unica formula politica praticabile, per quanto con numeri ad alto rischio. Il Quartetto colpisce ancora Come talvolta succede, ciò che è tramortito, se nessuno si prende la briga di accorciargli la vita per eutanasia, stendere rapidamente l'atto di morte e a procedere a un'onorevole sepoltura, continua a muoversi, per spasmi o per riflessi automatici, o semplicemente per ritrovato desiderio di esserci. Il quadripartito, che sembrava destinato non dare più segni di vita in quanto tale, comincia a stiracchiarsi, a guardarsi intorno, con l'aria stordita di chi non riconosce l'ambiente circostante: troppo apparentemente ostile, privo di appigli per tentare scalate o manovre. Eppure così immobile, privo di iniziative visibili. Al punto da suggerire l'idea che se nessuno si muove, il primo che fa una mossa porta via il piatto politico sotto il naso di tutti. E' quanto avviene con le elezioni di Scalfaro e Spadolini alla presidenza delle Camere. Un blitz di Craxi, per numerosi osservatori; di sicuro un colpo di coda della vecchia maggioranza. E a questo punto i giochi sarebbero pressoché fatti. Sulla carta c'è già un governo potenziale, basato sulla riesumazione del Quartetto e con l'aggiunta di qualche alleato d'occasione, da consegnare nelle mani del segretario del Psi; l'elezione del nuovo capo dello Stato sarebbe poi venuta di lì a poco a confermare la rete di accordi, come estensione di una trattativa già consolidata. I castelli di carte comincia però a sfasciarli Francesco Cossiga. Se si fosse rassegnato all'elezione di «persone eccellenti» per mezzo di «un'armata Brancaleone», vale a dire la vecchia maggioranza battuta politicamente alle ultime elezioni, la sconfitta di Cossiga sarebbe stata non solo totale, ma forse anche umiliante e irrimediabile, tale da non lasciare prevedere per lui un destino politico di qualche significato. Per questo le sue dimissioni sono state un gesto politicamente inevitabile, e per questo sono risultate politicamente significative. Tutte le strategie sono risultate sconvolte. Sulla lavagna in cui erano stati tracciati con il gessetto i nuovi (vecchi) equilibri è passata una spugna. Gli accordi del giorno prima sono diventati carta straccia. Il secondo colpo di maglio arriva dall'iniziativa della magistratura milanese, l'operazione «Mani pulite» gestita dai giudici Di Pietro e Colombo. Con la nomenklatura lombarda in galera, con la scoperta dello schema redistributivo del sistema delle tangenti, con avvisi di garanzia che arrivano ai piani alti dei palazzi politici, per qualche lunghissimo istante quello che il senatore Bossi chiama «il regime» vacilla. Lo sgomento si diffonde. Probabilmente non c'è mai stata una distanza maggiore fra il sistema politico e l'opinione pubblica. Si comincia a pensare all'intreccio di politica e tangenti non più come a casi isolati, ma come un elemento generalizzato e fisiologico dell'attività pubblica, come se la metastasi dell'interesse di partito avesse sostituito integralmente scheletro e organi dell'amministrazione. Entro un impianto istituzionale forte e legittimato, e sulla base di strutture politiche robuste, gli scandali costituiscono di norma un fattore marginale della politica. Partiti strategicamente consapevoli, e impianti istituzionali solidi ed efficaci, li riducono di norma a fenomeni controllabili, con qualche medicina o qualche chirurgia. Invece, la malattia politica, quasi un infarto del sistema, che è cominciata con l'arresto di Mario Chiesa ha dispiegato tutta la sua sinistra potenza dopo che un altro trauma (proprio le elezioni del 5 aprile) aveva scomposto le quote della rappresentanza politica, rendendo estremamente più difficile il mantenimento dello status quo nella politica nazionale. L'emersione di una forza dichiaratamente «contro il regime» come la Lega Nord, la difficoltà anche solo di ipotizzare una formula diversa di governo, i conflitti impliciti nelle scelte per il Quirinale e Palazzo Chigi costituiscono il terreno su cui si configura l'impossibilità dei partiti di reagire politicamente allo scandalo. Ecco allora una successione senza scampo: di fronte al degrado morale, l'opinione pubblica si aspetta una iniziativa politica forte e immediata; i partiti non sono in grado si assumerla; ciò che ne risulta è un sordo faccia a faccia tra la società e la politica di cui non si intravedono esiti razionali. Hanno perfettamente ragione i cittadini a chiedersi come mai, a diverse settimane dalle elezioni, la paralisi continua e l'incertezza domina su Roma. Ma c'è da tenere presente che in un momento difficile, e che è difficile in particolare per il Psi, qualsiasi iniziativa verrebbe interpretata come un'alterazione dei vecchi equilibri. Se ad esempio, in quanto partito di maggioranza relativa, nel momento di maggiore sbigottimento la Dc avesse assunto il compito di un'esplorazione politica a largo raggio, da parte socialista ciò sarebbe stato interpretato come una rilevante alterazione del rapporto che ha legato i due partiti, fino a determinare contraccolpi vistosi: di tipo politico ma anche di altro tipo, più opaco e insidioso. Per questo, anche nei giorni delle maggiori sfortune socialiste all'ombra del Duomo, Forlani si guarda bene dal calcare la mano con Craxi: è la rassicurazione che il disastro milanese non verrà utilizzato politicamente contro il Psi; ma è anche il verdetto che ufficializza il fatto che non c'è via d'uscita dalle formule di ieri, perché ogni soluzione diversa rischierebbe di innescare ritorsioni e vendette, sul piano politico come sul piano giudiziario. Tutti zitti, quindi, e tutti insieme, perché a dividersi non si sa che cosa possa succedere. Guai a fare una mossa. E si arriva all'appuntamento con le elezioni per il Quirinale, il 13 maggio, in una situazione di assoluta impreparazione. Sarebbe stato necessario e urgente uno scatto d'orgoglio di tutta la classe politica, un atto di coraggio e di fantasia. Fra il bene assoluto e il male minore c'era sicuramente una piccola gamma di candidati che potevano assicurare una tenue coloritura ideologica, il massimo di unità virtuale sul minimo di definizione politica, in grado di esercitare un ruolo di garanzia rispetto ai partiti storici e al riconoscimento della loro esperienza, e con i contorni morali di una figura al di sopra dei sospetti, capace di restituire un segno di rilegittimazione alla classe politica. Un compromesso avrebbe steso un'ala di protezione su tutto il Parlamento. E invece, dopo le prime votazioni, dal golfo mistico tornano a risuonare le striminzite note del Quartetto. Le prime battute del difficile concerto per il Quirinale sono assolutamente esemplari di un tentativo di rianimare ciò che è stato tramortito dal voto. La premessa maggiore dice che le forze politiche non possono permettersi un altro presidente corsaro. La premessa minore asserisce che non ci sono fronti contrapposti, per ispirazione politico-ideale o per programma, che possano giocare un candidato contro l'altro (cioè una linea politica contro l'altra), rischiando sconfitte o lacerazioni rovinose. E il sillogismo si chiude, certo temporaneamente, con la travolgente riscossa dell'alleanza a quattro, che giunge nel capolavoro di candidare per il Colle il segretario Dc, proprio lui, l'uomo del Caf, del centrosinistra, del vecchio «preambolo» contro il Pci, del «concorso» e del «raccordo» con gli alleati socialisti. Ma soprattutto l'uomo della sconfitta del 5 aprile, l'uomo del Quartetto. Conta poco che la sua candidatura sia durata lo spazio di due votazioni. Il tentativo di fargli scalare il Colle era per molti aspetti più che arrischiato, addirittura temerario. Innanzitutto perché Forlani è un leader di partito, funzione che di questi tempi male si attaglia, presso l'opinione pubblica, alla figura di un primo cittadino super partes, garante e non giocatore, arbitro e non contendente. E in secondo luogo perché la sua discesa in campo a Montecitorio metteva a rischio un numero eccessivo di posizioni: la segreteria democristiana, il rapporto con il Psi e gli alleati, la scelta di Craxi che aveva dovuto convincere il partito, e specialmente la fronda interna di sinistra, che il gioco di un dc sul Colle valeva la candela del prossimo governo a guida socialista. Foto di famiglia Queste rilessioni si interrompono nel momento in cui a Montecitorio i mille grandi elettori si sono spettacolarmente avvitati nell'impotenza più drammatica. Tutti propongono tutti e nessuno vota nessuno. Potrebbe anche darsi che nell'impasse generale l'alleanza a quattro si rivelasse nuovamente l' extrema ratio di un sistema sfaldato. Intanto, qualcuno potrà osservare che per il momento il «partito che non c'è» ha battuto il «quadripartito che non c'è più». Di sicuro, gli strateghi della candidatura Forlani, i grandi eredi della politica di quadripartito, hanno sbagliato qualche calcolo, e ovviamente l'errore non riguardava solo l'esito delle elezioni presidenziali. Dentro un' ipotesi di stretta continuità ci sono difficilmente le condizioni politiche, e perfino i semplici numeri, per poter governare il paese. Ma soprattutto manca una caratteristica che agli osservatori medi, alla «gente comune» a cui si appellava di continuo Cossiga, non sfugge. Cioè la credibilità. Quando una classe politica si presenta trascinandosi dietro la montagna indebitata su cui ha costruito il suo effimero consenso, dovrebbe avere almeno la faccia di investire un po' di risorse residue come minimo in una finzione di movimento. Almeno, come si diceva nei regolamenti degli equipaggi della flotta borbonica, «facìte ammuina». E invece no: nessuna iniziativa, nessuna mossa. Inamovibile, anche se spennacchiata, la vecchia compagnia è sempre lì. Dovrebbe muoversi freneticamente, e invece se ne sta quasi immobile, pensosa, preoccupata dei propri rituali e del loro esoterico significato. Ma sarà vero che quei signori al centro del ritratto rappresentano effettivamente in politica il mondo cattolico italiano? E quelli a sinistra saranno effettivamente così diversi, onesti e morali come hanno detto per anni? E gli altri, saranno davvero tanto moderni, decisivi, à la page come hanno sempre detto? Nella foto di gruppo, tutti simulano la convinzione di avere un avvenire, e in questo avvenire un ruolo. Sembra che non debbano fare nessuno sforzo per ignorare che l'avvenire è drammaticamente precario, e il loro ruolo in discussione. Fuori dal quadro di famiglia, infatti, la Lega Nord prepara secessioni e successioni, nel senso della sostituzione integrale di segmenti di classe politica. Poco più in là, si proietta l'ombra minacciosa dei referendum, elettorali e no. Si è potuto ignorare con una certa miope disinvoltura il messaggio del referendum sulla preferenza unica. Adesso ci si può permettere di non fare la legge elettorale nuova, a patto di essere consapevoli che il prossimo referendum sarà di tipo insurrezionale. E anche la patetica navicella del quadri partito, se uscirà davvero dai bacini di carenaggio per affrontare il mare aperto, non riuscirà né a superare le prime prevedibili burrasche, né a sedare l'ammutinamento.
Il Mulino, 09-10 1992, Dentro la crisi italiana
Sopravvivere a Tangentopoli
Fra luglio e settembre, il boa constrictor dell'economia ha preso nelle sue spire e ingoiato la politica. Come è naturale, quando sono in gioco gli standard di paese sviluppato e i livelli di benessere della collettività, e quando il marasma economico-fìnanziario minaccia di sbugiardare gli anifici contabili che hanno tenuto in piedi il bilancio dello Stato e di tagliare redditi e quote di consumo della popolazione, il fenomeno della corruzione politica (ma più in generale il problema rappresentato dalla classe politica attuale) si è attenuato nella percezione pubblica: almeno per qualche settimana, Tangentopoli ha perso il dominio sui telegiornali e sulle prime pagine dei quotidiani. Hanno perduto posizioni anche le notizie e le discussioni relative alle riforme elettorali, i cui tempi si sono rivelati drammaticamente sfasati rispetto all'obbligo di affrontare una straordinaria emergenza economica. Per alcuni aspetti, la stessa costituzione della Commissione bicamerale per le riforme, che era stata annunciata nel discorso d'insediamento dal presidente della Repubblica Scalfaro, è apparsa qualcosa di astratto, simbolo di un mondo foderato di velluti, intessuto di convenzioni e diplomazie, che discute con passione e ragione- come direbbero retoricamente i parlamentari più convinti del loro ruolo di «centralità» politica - mentre fuori incalza una battaglia probabilmente già persa. E il paradigma infallibile di Roma che dibatte confusamente mentre Sagunto viene espugnata? 1 Ma di fatto è anche l'allestimento preventivo di una soluzione virtualmente rovinosa, della possibilità di un contraccolpo nefasto: vale a dire la perdita definitiva di credito per tutto il Parlamento, per tutto il ceto politico, probabilmente per tutto il sistema rappresentativo e di governo, nel caso che la bicamerale si blocchi sui catenacci arrugginiti delle logiche di partito e non riesca a produrre neanche l'ombra delle riforme per cui è stata creata. La connessione fra l'inchiesta giudiziaria «Mani pulite» e le riforme istituzionali risulta meno criptica se si accetta l'idea che il comportamento del sistema politico non si modifica in meglio attraverso determinazioni volontaristiche («Occorre prima riformare le coscienze!») o velleità moralistiche (sul tipo del «partito degli onesti» o del «partito che non c'è»). Non è sottomissione supina a un determinismo banale: in democrazia le regole non sono tutto, ma sono molto. Soprattutto se si pensa all'uso improprio che delle regole attuali si è fatto, per adeguare furbescamente i problemi dettati dalle meschine necessità e convenienze della realtà quotidiana con l'alta norma prescritti va delle carte fondamentali della Repubblica e dell'elevatissimo potenziale di valori, ideali e promesse contenuto fino a ieri negli statuti ideologici dei partiti. Il codice di Sergio Moroni A partire dall'arresto di Mario Chiesa, e dopo la scoperta di quella che i giudici della Procura di Milano hanno definito «corruzione ambientale», cioè le tangenti erette a sistema, quasi tutti gli osservatori hanno detto e scritto che «si sapeva»: si sapeva che «la democrazia costa» senza che lo rivendicasse Bobo Craxi, che i partiti dovevano infrangere la legge per trovare le risorse da destinare ai loro apparati, alle sezioni, ai funzionari, ai centri studi e ai loro giornali. Lo sbalordimento, semmai, derivava dalla scoperta delle dimensioni aberranti del fenomeno, non dalla sua esistenza. Risultava stupefacente in sostanza che il carcinoma avesse sostituito integralmente gli organi che aveva aggredito. Come questo sia potuto avvenire lo si trova sintetizzato con eccezionale lucidità nella lettera che il parlamentare socialista bresciano Sergio Moroni, suicida all'inizio di settembre per questione d' onorabilità distrutta, ha fatto pervenire al presidente della Camera Giorgio Napolitano: «Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C'è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si defìniranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste stesse regole». Prima di queste parole precise e disperate, formulate da una vittima della trappola che lui stesso ha contribuito pazientemente a costruire, Tangentopoli era stata soprattutto una grande sagra di sciocchezze. Dietro l'inchiesta incarnata nell'immaginario popolare dal giudice Antonio Di Pietro era stata vista all'inizio una sapientissima regia politica, capace anche di influenzare la corsa al Quirinale e la formazione del governo, magari a vantaggio inevitabile del democristiano più volpino che si conosca. Era stato avanzato, e cominciava ad affermarsi, anche lo schema bifido secondo cui rubare per il partito è meno grave che rubare per il proprio basso interesse personale2 In realtà, l'inchiesta della Procura di Milano ha avuto effetti brutali innanzitutto per le sue dimensioni, perché ha fatto capire agli italiani che la ramificazione del metodo basato sulle tangenti era assai più estesa di quanto non si intuisse; che si poteva benissimo pensare che Milano non fosse che una sineddoche, la parte per il tutto, della situazione italiana, quindi come in una reazione chimica non del tutto prevista ha fatto precipitare come una grandinata il rancore dell'opinione pubblica verso i partiti. Al punto che non risulta oggi molto chiaro se rubare per il partito anziché per gli svaghi individuali sia percepito effettivamente come qualcosa di gravità minore. Infatti, nel momento in cui ai partiti viene attribuita la responsabilità di uno sperpero di risorse enorme, che rischia di fare piombare il paese nel baratro della bancarotta, possono risultare assai più tollerabili i vizi privati, cioè le ruberie per il proprio conto corrente, anziché le virtù pubbliche, vale a dire la pensosa capacità di avere mantenuto in attività e in equilibrio il sistema politico dandogli come strumento finanziario la percentuale sugli appalti. Sotto questo profilo, la popolarità di tipo calcistico guadagnata dal giudice Di Pietro3 sintetizza uno stato d'animo vicino a quello della ribellione. Ci si può rivoltare contro i partiti flirtando con la Lega Nord e giocando con le parole grosse sotto il profìlo istituzionale di Miglio e l'atteggiamento semi-insurrezionale di Bossi sul fisco; oppure consegnando entusiasticamente ai giudici di Milano il compito di fare festosamente a pezzi la partitocrazia. Il ruolo storico dei partiti Insomma, il giudice Di Pietro diventa simbolo e immagine di un riscatto perché nella sua figura gran parte dell'opinione pubblica vede la vendetta contro quelle personalità così remote e potenti, che si sono infilate dappertutto, nelle Usl e nelle Poste, nelle banche e nelle aziende di Stato, hanno deciso il nostro benessere, le assunzioni dei nostri figli, le carriere dei medici, il livello qualitativo degli ospedali, insomma, hanno invaso tutte le zone di raccordo nelle istituzioni e occupato tutti i nuclei di controllo nella società. Un «finalmente» corale e spontaneo è corso per la penisola, preludio di una specie di liberazione. Ma tutto questo, la fulmineità del modo in cui si è verificata questa assunzione di orientamento da parte dell'opinione pubblica, significa anche che «Mani pulite» è solo un'occasione, la leva che fa saltare il coperchio: ma il problema, è naturale, esisteva da prima. Il malato «classe politica» era già gravemente malato, da tempo erano malati i partiti e malsano il sistema di regole che presiede al funzionamento del sistema politico. E i sistemi politici, com'è noto, difficilmente sono in grado di praticare l'auroterapia. Oltretutto, in una condizione vicina al collasso, quell'insieme di atteggiamenti che prima venivano considerati come correttivi non insensati (la propensione a mediare, la stima personale fra rappresentanti di partiti diversi, le solidarietà parlamentari e corporative che in passato avevano attenuato il conflitto ideologico) si rivela all'improvviso come la prova evidente di una losca complicità che pervade tutta l'arena politica. I provvedimenti che i partiti decidono di prendere sull'onda dello scandalo (vedi la decisione statutaria democristiana di considerare incompatibili l'incarico di governo e il mandato parlamentare, oppure l'annuncio di Craxi di regionalizzare il Psi e azzerare i pacchetti di tessere) appaiono tutti come strumenti approssimativi di un affannato trasformismo. Eppure, è evidente che la «Repubblica dei partiti» non ha commesso soltanto miserabili illegalità. Dal dopoguerra in avanti è riuscita ad amministrare il conflitto ideologico in modo che esso non uscisse, se non in casi isolati, dalle norme della democrazia parlamentare; ha assecondato il processo di modernizzazione, mitigando tutte le asprezze dell'economia e procurando acrobaticamente benessere; non avendo una verità da affermare, ha insegnato perlomeno un'abitudine, divenuta poi un'attitudine, al pluralismo. Tutto ciò è stato pagato con una sola moneta, l'assenza di governo. Vale a dire la mancanza di un'azione fondata su un modello preciso di società a cui fare riferimento: in fondo, ciò che importava al ceto politico di governo non era tanto la determinazione di chi doveva pagare e chi doveva riscuotere, nel corso della modernizzazione economica, e nemmeno a quali risultati sociali - a quale idea di collettività - dovesse portare uno schema redistributivo. L'importante era mantenere le posizioni. Quando un sistema politico è paragonabile a un campionato di calcio in cui i posti in classifica sono già fissati, malgrado le tifoserie delle varie squadre facciano talvolta molto chiasso, l'unica preoccupazione per chi governa e per chi dovrebbe fare l'opposizione è quella di mantenere le posizioni. Per la maggioranza, governare vuole dire integrare tutte le spinte possibili entro il congegno politico: all'inizio, nella sua concezione nobile, è il modello a somma positiva di Aldo Moro, per il quale la nostra società non avrebbe potuto sopportare l'esplicarsi di un conflitto netto, e quindi il cambiamento e l'innovazione erano giudicati possibili solo come un allargamento a macchia d'olio dell'area della legittimità politica (prima ai socialisti, poi ai comunisti); ma alla fine, nella versione degradata, è il sistema bloccato, privo di alternanza, in cui la minoranza anziché farsi venire il mal di testa per definire programmi più competitivi si adatta a chiedere la compartecipazione al potere per via consociativa4. Alla fine di questo processo, che raramente incontra resistenze significative, le istituzioni sono occupate, la società civile risulta sovrapposta a quella politica. Dalla Rai alla magistratura, dalle Unità sanitarie locali ai consigli d'amministrazione dei teatri, tutto replica alla perfezione gli equilibri politici sanzionati dai risultati elettorali5. Complicità non confessate La collera dei cittadini verso il regime di occupazione praticato dai partiti sarebbe probabilmente più credibile se si fosse manifestata in tempi non sospetti. Ma in precedenza il mugugno, il vero basso continuo della nostra società, era convissuto con una collusione sostanziale. Se i partiti avevano predisposto strumenti sicuri che consentivano di promuovere le più consumate (e costose) strategie di mantenimento del consenso, i cittadini avevano accettato le erogazioni del Welfare State all'italiana senza particolari sensi di colpa. Se la disattenzione interessata dell'operatore pubblico dava mano libera agli evasori fiscali, questi ultimi e le loro categorie corporative non mostravano di soffrire particolarmente per il loro ruolo di virtuali free riders. Anzi. Il saccheggio delle risorse collettive a favore delle corporazioni, degli interessi locali, delle lobbies, si era ossificato come l'unico strumento attraverso cui veniva mediato il rapporto fra i partiti e gli elettori. Tutti sapevano che lo scambio era perfettamente paritario. Se i partiti non avevano nulla da offrire (non più l'orgoglio ideologico, non progetti a lunga gittata, non prospettive di speranza civile e di partecipazione pubblica), e quindi continuavano a offrire soltanto merce svalutata, servizi balordi e soldi scriteriati, procurati attraverso una rovinosa corsa all' indebitamento pubblico, i cittadini dal canto loro hanno accettato piuttosto supinamente questa merce. E questo purtroppo non è rimasto senza conseguenze. Gran parte della società italiana si è abituata nel tempo a considerare gli stipendi del settore pubblico, le pensioni ai bambini, il medico di famiglia che prescrive una Tac per un mal di testa, come qualcosa di assolutamente normale, dovuto, libero da qualsiasi criterio di compatibilità economica. Queste consuetudini hanno plasmato nella psicologia collettiva convinzioni improbabili quanto tenaci, che hanno influito profondamente sui comportamenti individuali e collettivi, generando una specie di grossolana ma popolarissima mitologia: alla cui base c'era la falsa coscienza che la ricchezza non dovesse essere faticosamente accumulata, bensì disinvoltamente e convenientemente distribuita. Come se esistesse una pompa inesauribile, in grado di erogare risorse e servizi all'infinito, e come se l'unico problema effettivo fosse quello di indirizzare in modo «giusto», «equo», «solidale» il flusso di denaro e prestazioni. Se il tubo della ricchezza veniva indirizzato nella direzione giusta, nessuno fiatava; se si cercava di limitare l'erogazione o di rivolgerla altrove, si alzavano strilli risentiti, nella certezza che i partiti non potevano rimanere sordi a nessuna protesta. Inutile sottolineare che in genere le parole d'ordine «giustizia», «equità» e «solidarietà» erano semplicemente la copertura della distribuzione di favori e privilegi. Ma tutto ciò ha provocato un colossale processo di diseducazione. Il confine fra l'essere cittadini, quindi titolari di diritti reali e di doveri stringenti, e l'essere sudditi, affidati alla furbesca e ingegnosa generosità e alla benevolenza discrezionale di un'autorità cialtrona, si è vistosamente assottigliato. Una società sedicente moderna ha accettato di essere trattata come le plebi dell' Ancien Régime. Con un calcolo di miope particolarismo ha tollerato che i commercianti sotto casa potessero evadere il fisco e che le Poste non funzionassero, pur di riscuotere in cambio pensioni e rendite. Ha accettato servizi tragicamente scadenti pagando opportunisticamente il prezzo dell'inefficienza pubblica a patto di vedersi assicurato un effimero benessere privato o corporativo. A che cosa servono oggi i partiti Dicendo tutto ciò non si vuole rovesciare i termini del problema, e scaricare sulla società civile le responsabilità della consorteria politica. E nemmeno nascondere altre complicità che sono emerse, fra industria e politica. Semmai, si vuole segnalare che talvolta l'atteggiamento passivo di una società cloroformizzata dal benessere potrebbe benissimo mutare radicalmente nel caso che scomparissero i fattori che hanno indotto il grande sonno. All'appagamento e alla sottintesa complicità potrebbe sostituirsi una voglia feroce di abbattere tutti i simulacri del sistema. Forse è a causa di una percezione subliminale di questo genere che fra gli uomini politici viene propagandato con tanta insistenza il timore di svolte autoritarie. Perché quando si ha la consapevolezza che non si è riusciti a guadagnare autorevolmente il consenso, ma semplicemente a pagare a caro prezzo i voti, il pensiero di quello che può succedere se si è costretti a stringere d'un tratto i cordoni della borsa può diventare davvero un'inquietudine estrema6. D'altra parte, se si toglie di mezzo l'acquisizione dei voti mediante lo stravolgimento del Welfare e l'indebitamento mediante i titoli di Stato, che cosa rimane dei partiti «storici» italiani? Che cosa è rimasto nella Dc del «popolarismo» cattolico? In un bilancio della vicenda italiana contemporanea, commentando le elezioni politiche del 1987, essa viene bollata alla fine come «un'armata mercenaria, tenuta insieme dall'eterna paura del comunismo e comandata da un manipolo di gerontocrati»7. E che significato hanno per il Partito democratico della sinistra parole come «sinistra», «classe operaia», «progresso», quando l'ex Pci è un cocktail in cui un barman distratto non è riuscito a contemperare radicalismi astratti e riformismi frustrati? Analoga domanda si potrebbe rivolgere al Psi, chiedendo notizie sul significato attuale di espressioni come «Grande Riforma» o «modernizzazione». Ma sarebbero ironie da poco. C'è piuttosto un elemento strutturale nella situazione politica corrente, che dovrebbe fare riflettere a lungo sulla malattia dei partiti: ed è che per la prima volta nel quasi mezzo secolo di democrazia repubblicana i grandi partiti che qualcuno si ostina a chiamare ancora «popolari» non hanno una soluzione credibile di ricambio al vertice8. Se un ricambio nella dirigenza dei partiti significa soprattutto una sterzata nella linea politica, cioè il tentativo di individuare e tradurre diversamente nell'ambito di una formazione politica ciò che si agita e si diversifica nella società, si direbbe quindi che in questo momento non ci siano gli strumenti per trovare nuove saldature fra i partiti e l'opinione pubblica. Guarda caso, se qualcosa di nuovo comincia a nascere - nuove percezioni, nuove autorappresentazioni, nuove linee su cui attestare il conflitto, e quindi nuove mediazioni - nasce all'esterno, fuori dai partiti tradizionali. Di questa tendenza, l'esperienza recente di maggiore successo politico, rappresentata dalla Lega Nord, costituisce un'esemplificazione praticamente perfetta, in quanto sostituisce almeno nominalmente alla competizione con gli altri i partiti un impegno contro i partiti. Ma non c'è solo la Lega. I «pattisti» referendari costituiscono un altro caso in cui si registra il modellarsi di altre fedeltà, altre lealtà rispetto a quelle classiche di partito. E altri movimenti, dai Verdi agli antiproibizionisti (fino ai fenomeni per ora folcloristici dei partiti «paranoici» come quello degli automobilisti o dei pensionati) hanno già mostrato che i confini dei partiti classici possono essere sfondati senza troppe difficoltà. «Quis custodiet custodes»? D'altra parte, se lo «schema Moroni» (cioè la scelta e la costruzione di regole rigidissime temperate da una prassi opportunistica di tolleranza generalmente condivisa) ha funzionato perfino nell'ambito del grande conflitto ideologico fra Dc (e alleati) e Pci; se cioè si è potuto venire a patti reciproci in commissione parlamentare, nei consigli d'amministrazione, negli enti di gestione, e giù giù fino alle giurie letterarie - malgrado l'adesione a concezioni del mondo nominalmente antitetiche, come si poteva pensare che i criteri di moralità pubblica e privata richiesti a un «imprenditore del consenso» venissero automaticamente rispettati? Allorché l'attività di un operatore politico non è misurata sulla base di una competizione effettiva, ossia quando il giudizio sull'esponente politico non è esprimibile semplicemente con il voto, si apre la possibilità di conseguenze piuttosto preoccupanti. Quando una posizione politica non è misurata nella sua efficacia su una base di «contendibilità», cioè quando il «mercato» politico è già morto perché soffocato dalla rete deglì oligopoli politici, ci sono soltanto due scale di giudizio: una è graduata sull'utilità di questa posizione per il partito di appartenenza, utilità che può comprendere la capacità nell'acquisire silenziosamente finanziamenti anomali; l'altra dipende dalla coscienza individuale. Un avvenimento esterno, come la decisione della Procura di Milano di procedere a tappeto con le indagini e di usare le spicce con gli inquisiti, può fare entrare in collisione queste due scale di moralità. Le reazioni possono essere di tanti tipi: di solito, il senso di onnipotenza che gli esponenti politici eli spicco hanno maturato nella loro carriera può convincerli che il giudizio su ciò che viene praticato en politique appartiene soltanto a loro. L'abitudine a un uso paternalistico del potere e alla mancanza di concorrenza e di ricambio può segretamente determinare un atteggiamento del tipo «noi soli sappiamo esattamente ciò che va bene per voi». E quindi la corruzione, la concussione, la tangenteria possono iscriversi a puntino in una concezione arbitrariamente più elevata, divenire funzionali a visioni generali di grande gittata in cui il giudizio dell'opinione pubblica o del tribunale deve cedere il passo alle considerazioni più consapevolmente e sottilmente politiche. Si coglie spesso, nelle dichiarazioni dei tangentocrati, un che di sorpreso se non di irritato. Ma come: noi ci rompevamo la schiena per costruire e mantenere nientemeno che la democrazia, e due o tre giudici straccioni si permettono di buttare giù tutto il castello? Stiamoci attenti, perché la democrazia è un bene prezioso. O non vorrete essere governati dai magistrati? Una soluzione politica Purtroppo, non è stata solo Milano ad applicare in politica questi metodi in cui la discrezionalità tende ineluttabilmente a sfumare nella criminalità politica. E il rischio è davvero che «Mani pulite» non abbia mai fine. Che, estendendosi a dismisura, senza trovare più resistenza, affondando come lama nel burro in un coacervo di complicità senza limiti, alla fine acquisti la consistenza e la dignità di una informale struttura permanente della vita istituzionale italiana. Una specie di «azione parallela» musiliana, con i suoi giudici speciali, i suoi inquisiti, su uno scenario che almeno per il grado progressivo di decadenza assomiglierebbe davvero alla Finis Austriae. E invece, un giorno «Mani pulite» andrà chiusa, per via giudiziaria e per via politica. Occorrerà effettivamente stabilire dei termini di prescrizione. Ma le amnistie non si concedono se non dopo la caduta di un regime. E quindi tutto ciò non potrà avvenire prima di avere proceduto a un compito estremo: che con una formula radicale potremmo riassumere nella sostituzione integrale della dirigenza politica attuale. Non è una soluzione retoricamente massimalista; e ovviamente non è nemmeno l'invito a fare piazza pulita con metodi autoritari. Si tratta invece di far sì che i partiti attuali, per via procedurale, attraverso un meccanismo politico di medio periodo, vengano smembrati e diventino materiale utilizzabile e rimodellabile sulla base di un altro sistema di regole politiche. Dovrebbe risultare evidente che si tratta di un obiettivo che non verrà raggiunto ope legis dai giudici. Nessun magistrato riuscirà a ottenere con il codice penale ciò che deve essere raggiunto per via politica. Occorre quindi che dal «modello Moroni», quello dei due pesi e delle due misure, si passi a un modello rigidamente vincolante. In questa prospettiva, l' abrogazione dei partiti attuali resta qualcosa di concettualmente traumatico ma tecnicamente fisiologico. È probablle insomma che occorra distruggere la macchina degli sprechi, che sia necessario tagliare alla radice tutti i rapporti che gli apparati di partito hanno con gli apparati dell'amministrazione. Smantellare cioè i partiti così come sono, le loro burocrazie pletoriche, recidere il legame con le fameliche clientele organizzate. Ci vuole un tipo di democrazia, come dire, «cattiva», a gioco duro, in cui chi vince vince e chi perde deve inventarsi programmi per vincere la volta successiva e per non mettere a repentaglio la propria sopravvivenza come soggetto politico. Solo l'uninominale «secca» all'inglese sembra avere la forza di imporre un cambiamento simile. Prima di dire che è impossibile che i partiti si suicidino adottando una legge elettorale di questo tipo, proviamo a pensare che sembrava impossibile che un governo potesse varare misure economiche realmente incisive: e tuttavia, per forza di disperazione, il governo Amato è stato costretto a tagliarsi alle spalle gran parte dei ponti con cui i partiti agganciavano tradizionalmente il consenso popolare. Si diceva che occorresse uno shock esterno alla politica, un'altra Algeria, per procedere all'eutanasia del sistema attuale e fare le riforme istituzionali: ma se si pensa al potenziale esplosivo dell'emergenza criminale e dell'emergenza economica, insieme al clima di sfiducia generato da Tangentopoli, ci si accorge che di Algerie in casa potremmo averne in realtà più d'una. Perfino il dogma dell'unità nazionale è stato messo in crisi. C è in ogni caso la sensazione che l'intero patto sociale su cui si è formata l'Italia contemporanea debba essere riscritto. Stiamo vivendo una fase estremamente difficile che prelude potenzialmente a una transizione assai dolorosa; il cinismo di cui è impastata l'esperienza insegna che se va male pagheranno come sempre i più deboli: proprio coloro di cui i partiti storici hanno sempre assunto enfaticamente la rappresentanza e che hanno sempre detìnito come soggetti dei loro programmi. Un simile tradimento, questo sì, sarebbe corruzione vera, tradimento, perdita inesorabile di dignità. E soltanto il sospetto che una soluzione del genere sia possibile dovrebbe costituire un invito a cercare di morire, per quanto è possibile, in bellezza, piuttosto che tentare annaspando di sopravvivere nel disprezzo. Note 1 Non per riesumare la vecchia boutade craxiana secondo cui «quando in Italia non si vuole fare nulla, si fa una commissione», ma sarebbe di qualche interesse sapere quanti, nello stesso Parlamento, credono che il lavoro della bicamerale porterà a qualche risultato. La commissione dei 60 è costituita, ovviamente, secondo un rigido criterio proporzionale. Anche le cariche, a partire dalla presidenza di Ciriaco De Mira (Dc), attraverso le vicepresidenze (Augusto Barbera, Pds, Luigi Covatta, Psi) e fino al ruolo di segretario (Ersilia Salvato, cioè Rifondazione comunista, e Marcello Staglieno, Lega Nord) appaiono assegnate secondo un inevitabile criterio spartitorio. D'altronde, tutto è inevitabile in questo senso in un Parlamento dominato da basic istincts consociativi, dove gli equilibri raggiunti sono sempre il rif1esso del sistema proporzionale, e quindi tutto è inevitabile anche nel «miniparlamento» predisposto per le riforme istituzionali. 2 Gli esempi di sciocchezze pronunciate sul sistema della corruzione sono talmente numerosi che un catalogo ragionato non è possibile. Ci sono stati inquisiti milanesi che hanno detto di avere ricevuto denaro, ma nella perfetta e sovrana convinzione che si trattasse di denaro pulito: ciò nonostante che il passaggio di mano dei soldi fosse avvenuto con l'esponente di un altro partito, di notte, in un garage. Molti esponenti del Psi e qualche notabile democristiano hanno alluso spesso a «oligarchie» che tenterebbero di delegittimare i partiti popolari a proprio vantaggio. Alcuni titoli apparsi sul quotidiano più legato all'attuale assetto politico, «Il giorno», hanno assecondato questa linea di pensiero, attribuendo ora a Tina Anselmi ora a De Mita l'idea che esistano progetti antipartitici da parte di certe aristocrazie del potere. Dopo il suicidio di Moroni, il giornale diretto da Paolo Liguori ha pubblicato un titolo cubitale in cui figurava la parola «martirio»: probabilmente per fare capire che se c'è un martire ci dev'essere un potere perfido che ne decide la sorte. Ricordiamo che Valentino Parlato, sul «manifesto», ha scritto che il furto pubblico è concepibile se praticato in vista di «un grande cambiamento». Fosse stata la rivoluzione, si sarebbe capito. Ma dato che nessun partito in Italia accetta di schierarsi sotto il vessillo del pensiero conservatore, e i programmi sono volitivamente tesi a mutamenti straordinari dell'assetto politico (e che nessuno è buon giudice della qualità effettiva del proprio programma politico), questa tesi equivale alla richiesta di un'amnistia. Amnistia che è stata prospettata dal segretario aggiunto della Cgil Ottaviano Del Turco, e perfino ipotizzata da uno dei giudici dell'inchiesta milanese, Gerardo Colombo. Il più spettacolare protagonista dell'indagine è stato senza dubbio il democristiano Roberto Mongini, il quale dopo la liberazione dal carcere ha riconosciuto «la caduta di un sistema» ed è diventato il primo rappresentanre dei tangentocrati pentiti, fino a presentarsi dal giudice per un interrogatorio successivo indossando una polo con sul taschino la scritta «Mani pulite Team». Con un interessante cambiamento semantico, la colpa del «sistema», che tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta veniva invocata per fare la rivoluzione, è divenuta una constatazione per domandare l'amnistia. 3 Il settimanale berlusconiano «Sorrisi e canzoni» gli ha dedicato una copertina con lo strillo «Di Pietro facci sognare», che riprendeva il tifo corale del paese allo stesso modo in cui lo aveva fatto nel 1982la «Gazzetta dello sport» per la nazionale di Bearzot ai mondiali di calcio in Spagna. 4 A Giuliano Amato piaceva spiegare il metodo della lottizzazione illustrando il «modello degli uscieri»: se c'è alternanza, non conviene apporre il marchio di partito sugli uscieri, perché a chi vince le elezioni la prossima volta non piace avere gli uscieri schierati con il vecchio partito. E quindi gli uscieri stessi sarebbero diffidenti verso chi li volesse partiticizzare, perché in caso di ricambio politico rischierebbero il posto o la simpatia economica del nuovo governo. Conviene lottizzare le assunzioni solo se c'è la certezza dell'immobilismo, in modo che tutti i partiti possano spiccare le cedole di una rendita politica. 5 Dentro un quadro politico in cui la Dc gode della rendita elettorale anticomunista, mentre il Pci capitalizza in modo speculare una specie di «rendita di opposizione», proponendosi come imprenditore politico di tutte le proteste, tutti gli antagonismi, tutte le frustrazioni «contro la Dc», risulta perfettamente razionale e fruttuosa l'azione socialista durante gli anni Ottanta. Il tentativo di Craxi di infilare un cuneo fra i due giganti malati della politica italiana comportava la possibilità di sbloccare il patto consociativo e di guadagnare un terzo tipo di rendita: gli dava la possibilità di una dura polemica contro il Pci berlingueriano e nello stesso tempo di erodere quote di potere alla Dc. Non a caso è stato notato che negli anni del governo socialista, fra il 1983 e il 1987, Craxi esercita contemporaneamente le funzioni di capo del governo e di capo dell'opposizione. "Uno dei più preoccupati presentatori di denunce sulle possibili involuzioni autoritarie della politica italiana è Ciriaco De Mita. Ma con altre motivazioni: per un uomo cresciuto dentro la «democrazia dei partiti», qualsiasi minaccia all'esistenza e al ruolo di questi partiti, venisse pure dal libero voto dei cittadini (come è già avvenuto con il voto per la Lega Nord) o con il mutamento delle regole elettorali in senso uninominale, costituisce un attacco alla democrazia tout court. Invece il socialista Ugo Intini vede proprio nell'azione della magistratura, e nell'eco che essa suscita nell'opinione pubblica, un preciso anche se ancora oscuro «disegno» per gettare discredito sui partiti e per preparare la strada al potere di potentati economici e lobbies. 7 S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia, Marsilio, 1992, p. 451. Il 1989, con il crollo del muro di Berlino e dell'ideologia, spazza via tutte le giustificazioni basate sulla presenza dei comunisti in Italia, cioè di un partito che presentava tratti antisistema. A chi potremo raccontare, senza suscitare ilarità, che l'Italia è stata sgovernata per resistere al comunismo? Sarà stato vero, ci verrà risposto, fino all'annus mirabilis. Ma dopo? Dopo c'è stato un vistoso ritardo di percezione rispetto al verificarsi del mutamento. Ritardo che può essere identificato e quantificato nella durata del settimo governo Andreotti, alla fine della scorsa legislatura. Questo non per attribuire un nome e un cognome al responsabile della bancarotta italiana, ma semplicemente per dire che il democristiano più prestigioso, più abile, più spregiudicato, è stato anche il gestore finale di un sistema che non teneva più, e non se n'è accorto. Non si è accorto che, a duecento anni precisi dalla Rivoluzione francese, cominciava anche in Italia una rivoluzione. E così come il Luigi di Francia nel giorno della presa della Bastiglia poteva annotare l'ultimo dei suoi moltissimi «Rien», Giulio VII si sentiva autorizzato a scrivere nell'agenda politica uno dei suoi motti preferiti: tirare a campare, tutto s'aggiusta. La vera ideologia sottostante era la fede incrollabile nella possibilità illimitata di indebitamento. 8 Nella Dc, la storia delle dimissioni a giorni alterni di Forlani dopo le elezioni del 5-6 aprile è straordinariamente significativa. L'alternativa, nella Dc, è rappresentata da Mario Segni: il quale però è talmente in contraddizione con la palude democristiana che deve spostarsi sempre più vicino al confine del partito. Qui sta costituendo un nucleo di corrente o di partito nuovo: al momento buono, infatti, ci vorrà poco a tagliare gli ultimi legami e a giocarsi in proprio la partita del rinnovamento. Di singolare, nell'antipatia che ampi settori della Dc nutrono verso il leader referendario, c'è la mancata percezione di che cosa sia realmente Mario Segni, un moderato costretto paradossalmente a fare il rivoluzionario per poter tramutare la Dc in un partito popolar-conservatore come ce ne sono diversi in Europa. Nel Partito socialista, s'è avviato uno scontro generazionale nel quale chi ha credito non ha potere, e chi ha potere non ha più credito. L'esito della contrapposizione fra Martelli e Craxi dipende in realtà poco dalla situazione interna del Psi. Rebus sic stantibus, l'organizzazione è nelle mani di Ghino di Tacco. Un eventuale successo di Martelli dipende da processi di scomposizione e di ricomposizione delle forze politiche, della sinistra, delle forze che vogliono riformare le istituzioni, processi che in questo momento possono essere identificati ma sulla cui riuscita non c'è il minimo segnale. Nel Pds, infine, alla debolezza politica di Occhetto fa riscontro la debolezza di alternative plausibili: nel senso che D'Alema potrebbe essere un candidato alla sostituzione di Occhetto, ma alla sostituzione del segretario attuale si arriverebbe solo sulla scia di avvenimenti traumatici che potrebbero disintegrare definitivamente il partito.
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