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Tre dogmi uguali e indistinti. Autoritarismo, democrazia, partecipazione

11.1989 - 12.1989
La politica delle parole

1. Non varrebbe più la pena di prendere in esame il termine «autoritarismo» – che pure è stato uno degli obiettivi polemici più fortunati nelle mitologie e nelle liturgie della «contestazione» – se il suo naturale e coevo antidoto ideologico, l’antiautoritarismo, non fosse via via disceso copiosamente nell’intero corpo sociale, permeando ampi strati e diffondendo distillati di cui è intriso ancora oggi l’immaginario politico italiano. Con il risultato che ciò che costituiva a ragione o a torto il patrimonio di alcune limitate élites urbane (le cosiddette avanguardie) è sfumato man mano in un oggetto politico dall’ alone impreciso ma diffusissimo, in cui sono centrifugate numerose persistenti fenomenologie di un’insopprimibile vocazione populista e trasformista. Infatti, proprio mentre una nuova festosa retorica sancisce l’affermazione definitiva del mercato, sacrificando senza troppa carità, almeno a parole, i lacci e i lacciuoli intrecciati da solidarietà invecchiate, obsoleti patti consociativi, ammuffite forme di integrazione sociale, alla prova dei fatti riemerge sempre un’ eco contraria, la registrazione di un fruscio di fondo che ridà volume alla protesta contro quel minimo di regolazione sociale e politico-economica che sarebbe indispensabile di fronte ai problemi della finalmente riconosciuta «complessità». L’antiautoritarismo schematico dei Fab Sixties sembra essersi tramutato in un mugugno sordo, al quale contribuiscono ampiamente i nuovi corsi della demagogia e i ricorsi dell’ opposizione vischiosa alle manovre e ai contorcimenti dell’autorità centrale. L’a/faire dei ticket sulla sanità, e il rifiuto indignato quanto aprioristico e astratto delle ipotesi di regolamentazione dell’immigrazione extracomunitaria rappresentano molto bene la spensieratezza collettiva nei confronti di questioni contemporanee potenzialmente detonanti, e anche l’indisponibilità della sinistra classica, del sindacato, del cattolicesimo «sociale», e infine come si usa dire «della gente», verso qualsiasi tentativo di impostare consapevolmente misure di tamponamento rispetto al problema della quantità di risorse disponibili in rapporto alle illusioni della re distribuzione all’infinito. Un ovvio sospetto o vizio di autoritarismo si proietta su quasi tutti i programmi o le ambizioni di costruire impalcature adatte a reggere i pesi squilibrati della società contemporanea. Alle faticose soluzioni dettate dall’incombere della realtà – con tutto il loro potenziale di impopolarità – il senso comune allenato sul terreno progressista oppone di solito alternative tutte di elevatissimo profilo e di bassissima praticabilità, precostituendo una serie indiscutibile di alibi per l’immobilismo che ne consegue. Insomma, la formula magica che consente di lasciar marcire i problemi invocando nel contempo ipotesi alternative di profilo siderale funziona a meraviglia. C’è sempre un Bene Supremo largamente condiviso che permette di guardare con sufficienza il Male Minore. E poiché ogni decisione politica comporta un principio e un processo di divisione che la mentalità pop stenta ad accettare, il prepotente richiamo al conforto unanimistico riesce quasi sempre a imporre le proprie ragioni. Se non ci fossero alle spalle accertate ragioni storiche e politiche, sembrerebbe quasi che una specie di base costitutiva, addirittura antropologica, impedisca agli italiani di assimilare la logica del conflitto regolamentato di interessi (e delle relative passioni): al momento opportuno, l’italiano «democratico» preferisce porsi in attrito rispetto a qualsivoglia programma, riforma, costruzione o ricostruzione di regole: tutti percepiti in primo luogo come un’intollerabile ingerenza nei fatti propri, della propria corporazione, del proprio partito, corrente, clan, condominio, e in seconda istanza come preludio silenziosamente minaccioso di possibili attentati futuri al proprio magari modesto privilegio. (Si dice bene, colpire gli evasori fiscali, ma se poi domani finiamo noi nel mirino di qualche altra manovra sull’Iva? Tanto più che, grazie a una spontanea consapevolezza dei principi di base della scienza delle finanze, «la gente» sa benissimo che 1’equità fiscale ottenuta «stanando» gli evasori si ritorcerebbe in realtà sui prezzi al consumo: e dunque, quieta non movere). 2. Per capire come si è formato nel nostro paese il grande equivoco che ha agglutinato la politica in un impasto gelatinoso di mediocrissima qualità ma di eccezionale capacità omogeneizzatrice e bloccante, occorre immergersi nel clima degli anni Settanta (più precisamente dall’ autunno caldo in poi): in quel periodo cioè in cui si assiste a una fervida mitologizzazione della politica, e in simultanea alla costruzione della struttura psicologica dell’irresponsabilità al potere. Per un decennio, l’enfasi dell’immaginario pubblico si colloca sulla partecipazione. Partecipare significa andare oltre i limiti banali della democrazia «formale», opporsi attivamente al deprecato autoritarismo dell’establishment; di più e meglio: immergere i piedi nel punto giusto, né troppo alto né troppo basso, del vorticoso torrente sociale che promette o minaccia di travolgere tutto. Un bagno di partecipazione è la risposta più adeguata a tutte le questioni che riguardano la sfera collettiva. Non è vicinissimo al trampolino finale del sovvertimento dei rapporti di forza vigenti, ma è pur sempre un discreto avvio, non fosse altro perché consente di dichiararsi in opposizione e in alternativa senza suscitare i foschi timori del blocco moderato. Com’ è ovvio, nel pathos del momento nessuno si preoccupa di chiarire i meccanismi fattuali attraverso i quali la partecipazione deve essere praticata. Per dire, vecchi sistemi alla tedesca, come la cogestione, sono disprezzabili a priori come un indebito e paternalistico tentativo di conciliazione di interessi non negoziabili (la non padronanza della lingua autorizzava opachi scambi di senso e il timore di oscure contaminazioni fra la Mitbestimmung e il Berufsverbot); e anche i tratti neo-corporativi e le «concertazioni» delle socialdemocrazie europee erano considerati (ammesso che venissero presi effettivamente in qualche considerazione) (ome un pessimo intreccio di regola zio ne dall’ alto e di delega/rinuncia dal basso. L’idea della partecipazione vera convogliava invece melodrammatiche immagini di folla, «di massa», di assemblea, di popolo. Era la simbologia vincente per quella buona quota di cittadini che aveva deciso di iscriversi d’ufficio al Quarto Stato. Oltre tutto, grazie a una più che miracolosa congiuntura della Storia, il nostro paese appariva come il luogo fisico in cui si concentrava una serie impressionante di primati mondiali in fatto di consapevolezza politica e di rigore ideologico. Questa singolare presunzione di ortodossia e di autorità, unita a una tradizionale propensione a scoprire dappertutto le losche macchinazioni del potere, autorizzava ogni coscienza infelice a giudicare dall’ alto di una certezza sovrana e implacabile le mediocri realizzazioni dei governi socialdemocratici, e più in generale le finzioni di libertà concesse dalle democrazie «borghesi». Alle soluzioni pragmatiche avanzate per prove ed errori dall’Occidente liberaldemocratico, il radicalismo Italian 5tyle opponeva l’irrisione beffarda di chi ha capito tutto e sa che occorre andare ben oltre. L’avvenire non era nei fatti, ma nelle idee; non nel concreto, bensì nell’ astratto; non nel conflitto regolamentato ma nella contestazione a oltranza; non nella gestione (delle aziende, degli ospedali, delle Poste e delle Ferrovie), quanto nella creazione di un contropotere collettivo. Contava poco o nulla che le imprese diventassero orribilmente passive o che gli uffici funzionassero in modo scandaloso: l’importante era trasformare ogni luogo di produzione o di servizio in un centro permanente di autocoscienza politica. Che poi l’industria manifatturiera nazionale perdesse quote di mercato poteva essere giudicato assolutamente irrilevante rispetto alla cristallina vocazione ultrademocratica dei consigli sindacali. 3. Certo, la nouvelle gauche italiana aveva già ampiamente specificato, dal canto suo, che il grimaldello tattico della «partecipazione » era in realtà usurato fino a risultare inservibile. Poche pagine di Herbert Marcuse erano state sufficienti per capire che ormai tutti «partecipavano», attraverso la mediazione del consumo, e che la «desublimazione repressiva», la tolleranza pilotata, queste micidiali invenzioni dell’Apparato per risarcire con merci omologate (massificate, estraniate, reificate) l’acquiescenza torpida dei dominati, funzionavano come orologi svizzeri. Tuttavia le aristocratiche estremizzazioni della Kritische Theorie potevano per il momento essere rimandate a un tappa successiva del processo di emancipazione: gli aspetti ludici della rivolta passavano in secondo piano rispetto agli obblighi della rivoluzione (o almeno della partita per l’egemonia). Era necessario in primo luogo sbarazzare il campo dalle mistificazioni elaborate dal complotto tardo-capitalista, e il primo obiettivo «di lotta» si definiva intorno al concetto di «democrazia» . Per qualche insondabile paradosso dell’ideologia, «democrazia» è un termine che viene immediatamente vanificato dai suoi aggettivi. Democrazia «rappresentativa» si rivelava rapidamente, a uno sguardo disincantato, come una formula imperfetta di sistema politico, da superare nel minor tempo possibile attraverso forme più avanzate: e al momento la forma avanzata costituita dalla «partecipazione» forniva uno strumento ineccepibile per mettere allo scoperto le vuotaggini e le meschinità dei sistemi fondati semplicemente sul suffragio universale e per invocarne debitamente il superamento. Di democrazia «liberale», per favore, nemmeno parlarne. Per l’intonazione middle e low-brow del discorso politico era qualcosa che richiamava alla mente attempate simpatie malagodiane, e che lasciava sentire fin da lontano cattivo odore di oligopoli e di bieche direttive del «padronato». 4. Alla fine, viene un sospetto: che l’accénto sulla «oggettiva» minaccia autoritaria implicita nelle articolazioni dell’ ordinamento vigente, e al contrario la retorica positiva rispetto alla partecipazione e alla democrazia in in progress, non nascano affatto dal desiderio collettivo di abbattere le barriere di una realtà sociopolitica, economica e culturale ancora pesantemente caratterizzata in senso retrivo, pre-moderno. E che rivelino piuttosto la tentazione di una resistenza contro la modernizzazione. O perlomeno la presenza di una scarburata miscela di attrazione verso il cambiamento (soprattutto culturale e comportamentale) e di smarrita repulsione per le contraddizioni che esso innesca. Potrebbe essere questa, in fondo, la dominante che ispira quell’ideologia amorfa e consolatoria disposta ad accettare le scelte individuali e collettive solo se sono suffragate da un consenso comunque più ampio, non importa che sia la mobilitazione di classe o la rivendicazione corporativa. Elementi di contestazione si abbinano sempre alla ricerca di solidarietà plurime: che sono tutte generiche, rivolte verso nemici invisibili. Dato che risulta poco accettabile e poco gradito proporsi come gli interpreti e i promotori di interessi specifici, limitati, empirici, l’ideologia politica corrente preferisce evocare quel fantasma politico che è l’interesse generale (o almeno di una somma di ceti assai larga e con le carte in regola sotto il profilo della democraticità), e strillare in coro contro la Spectre del potere. Al conflitto di interessi (diciamo, alla rinfusa, fra ceti, professioni, proprietari, imprenditori, lavoratori, risparmiatori, vecchi rentiers, nuovi speculatori, nuovissimi e atipici finanzieri), caratteristica di una società che si frammenta e si riallinea, risultava assai più rassicurante ad esempio sostituire la «lotta», populista e solidale, fra la «classe» operaia e il «padronato». Vale a dire due ectoplasmi dialettici ottocenteschi che fissavano il paese, sul piano delle definizioni di indentità e delle autorappresentazioni, in una incerta e patetica condizione di scontro, permanente quanto impreciso. Al punto che quando qualcuno si accorge finalmente che né padroni né operai sono più quelli di prima, o che i colletti bianchi sono diventati più numerosi dei colletti blu, la spinta alla genericità si accresce: ed ecco allora la formula modificarsi opportunamente in «produttori contro sfruttatori». Si avviava insomma una dinamica di omologazione su un livello minimal, in cui tutte le vacche della modernizzazione venivano percepite e descritte sul disarmante spettro del grigio. L’oscura – ma emotivamente potentissima – sensazione che il treno del progresso capitalistico fosse arrivato sul binario morto dell’ultima stazione conferiva a molti la certezza che occorreva soprattutto difendere le posizioni già raggiunte, e mantenere i posti negli scompartimenti di seconda classe già occupati. Perciò le rappresentanze dei lavoratori non praticano quasi mai la rivendicazione salariale in rapporto a standard di profitto e di produttività: chiedono e ottengono legislazione sociale, perseguono la massima occupazione e la difesa del posto di lavoro in cambio di stipendi bassi, indifferenziati ma garantiti: è il salario come «variabile indipendente», come viene definito nel vocabolario del periodo, cioè una re distribuzione di tipo sostanzialmente brezneviano. Pochi, maledetti, uniformi ma per sempre. Indipendentemente dai meriti, dalle mansioni, dall’ efficienza, dalle capacità. Questo istinto di conservazione proiettava in un futuro del tutto imprecisato quella soluzione, che doveva essere per forza di cose globale, dei problemi concreti che veniva nel contempo auspicata senza tregua e a gran voce. Nella fabbrica, monumento centrale della mistica di sinistra, occorreva in primo luogo consentire al Geist unitario di assumere le configurazioni rassicuranti di un’identità condivisa. Sulla fabbrica come luogo di produzione prevaleva perciò la fabbrica ideale «fra le nuvole» come agenzia di socializzazione, scuola di politica, centro di educazione permanente, reliquiario della coscienza di classe. 5. Si intuiva, come no, il lavorio clandestino di conflitti profondi nel sottoscala della modernizzazione: ciò che mancava era la volontà esplicita di assumerli come nucleo argomentato di una proposta politica. L’incombere dell’instabilità propria del mutamento induceva a cercare di riflesso una compattezza autoprotettiva. Ecco allora il sindacato congelare i potenziali aspetti tellurici della società produttiva nel freezer della contrattazione fra corporazioni di lavoratori e corporazioni di imprenditori, allo scopo di guadagnare una volta per tutte alla propria parte il sigillo di una garanzia costitutiva, nel contesto di una partnership rivale ma a equilibrio bloccato. Ed ecco l’infelice opzione politica del Pci di Enrico Berlinguer, propenso a offrire minore intensità antagonistica in cambio di legittimazione piuttosto che a farsi perno del conflitto. Comincia infatti proprio negli anni Settanta, secondo Giuliano Amato, la coalizione ai danni dello Stato determinata dall’ accordo silenzioso fra i partner rivali: sindacati e Confindustria capiscono con rapidità che anziché dissanguarsi a vicenda è più conveniente riversare sull’ apparato pubblico i costi che nessuno vuole assumersi: investimenti, ristrutturazioni, riorganizzazioni produttive, mobilità del lavoro vengono prudente mente evitate; a causa di questa complicità lo Stato deve accollarsi il peso della forza lavoro in eccesso, attraverso la cassa integrazione, e dei salvataggi delle aziende fuori mercato. La partecipazione auspicata dalla sinistra non troppo maleducata trovava nel medesimo tempo interessanti applicazioni pratiche nella sfera della politica empirica soprattutto locale e dell’economia concreta soprattutto municipale: a tutti i livelli si veniva sviluppando un ramificatissimo intreccio che vedeva coinvolte da un lato le amministrazioni decentrate e dall’altro le centinaia di associazioni economiche che raggruppavano le varie categorie industriali, artigiane, professionali, le reti cooperative ecc. Praticata in modo sistematico, la ricerca di simbiosi fra politica ed economia ingabbiava ogni ambito decisionale e operativo. Si trattava dello specchio municipale (provinciale, regionale) di uno schema che si era già affermato su scala assai più ampia al centro, ma con l’aggravante morale, o se si preferisce di gusto, che illobbismo dell’ultima provincia. pur rispondendo com’è ovvio a squisite logiche di potere e di interesse, veniva infiocchettato al momento buono con il rituale nastrino democratico-partecipativo. E’ chiaro che gli appalti tele guidati non rappresentano una prerogativa isolata né di quel periodo, né di quelle giunte, né di quelle confederazioni produttive. Tuttavia riesce difficile individuare momenti più alti di blocco del mercato, di gestione pilotata della concorrenza, di predeterminazione distributiva di profitti e perdite. La paura delle follie del mercato giustificava il ricorso alla camicia di forza municipalizzata. 6. E a questo punto forse non giunge inopportuna una parentesi. Chissà se è per un semplice gioco del caso che da noi le rivolte del Sessantotto abbiano perduto rapidamente le venature anticonformiste, individualiste, «antiautoritarie», spontaneistiche, ludiche, che pure si erano manifestate con esplosività nei campus americani, alla Sorbona e lungo il Boulevard Saint-Michel, e perfino alla Freie Universitat di Berlino, per precipitare nelle plumbee atmosfere dei collettivi, dei comitati, delle giunte, del «lavoro politico». Sta di fatto che con estrema velocità l’intonazione politica delle avanguardie si spostava. Dallo charivari di piazza alle tetre confabulazioni di cellula; dalle sfrenatezze «liberatorie» del movimento alle efferatezze militanti dell’ auto segregazione cospiratoria nelle sedi politiche a porte sbarrate. Occorrerà aspettare il Settantasette per ritrovare qualche imitazione della carnevalesca enigmistica intellettuale del Maggio parigino («Lama non l’ama nessuno», «Zangherì, Zangherà, Zangheriamo la città», «We want Zangheri for Pepsodent»), ma va aggiunto che il post-dadaismo degli indiani metropolitani e dell’ ala creativa e dell’ autonomia si esprimeva quasi sempre in una risata torva, non esente da retropensieri irresponsabili fino alla ferocia. Eppure, di Lotta continua si ricorda oggi soprattutto con indulgenza l’ultimo periodo, quello dell’impressionismo esistenziale, un movimento che era un mobilissimo sedimento di stati d’animo. Pochi ricordano invece i primordi, fatti di una militanza tetra e minacciosa, resa visibile dai servizi d’ordine e dagli slogan sugli striscioni («Solgenitsin, Breznev ti ha esiliato, il proletariato ti avrebbe fucilato»). Ancora nel novembre 1977 la lettera di un militante al giornale del movimento definisce la strage di Lod compiuta in Israele da un commando dell’Esercito Rosso giapponese «un’ azione di guerra contro il nemico di classe». Riesce pressoché impossibile spiegare come si sia potuti passare dalle fibrillazioni «postmaterialiste» di fine anni Sessanta alle truci litanie dei primi Settanta. Un’intera generazione, cresciuta nella timida democratizzazione del petting, adottava senza mediazioni la filosofia della spranga e la libido vicaria del passamontagna. La festa di massa per l’appena sfiorata liberalizzazione dei costumi si rovesciava in lugubri cerimonie da catacomba. In molti casi il modello aggregativo diventava il nucleo combattente, l’unità paramilitare, secondo i criteri rigidamente gerarchici dell’ avanguardia resistente, con le sue uniformi, i suoi gradi, i suoi codici, anche quando le uniche armi erano quelle della critica stracciona. E lo stesso linguaggio tendeva ad assumere connotazioni adeguate alla sicurezza d’acciaio della coscienza militante. Nel paese più sgangherato fra quelli avanzati, ancora privo di un’integrazione nazionale effettiva, sfilacclato nelle burocrazie, mediocre nella cultura, governato da notabili pasticcioni, ci si comincia ad appellare in modo sempre più fastidioso al «rigore» delle analisi, alla «scientificità» del metodo, all’implacabile precisione chirurgica della «dialettica», ai teoremi infallibili della «ricomposizione». Ma anche questo si può interpretare come sintomo di uno smodato e incredibile desiderio di appartenere, di riconoscersi; voglia di spazi chiusi e tutelati da un pensiero e un lessico comune: peccato solo che il mastice della membership fosse composto da un dottrinarismo impenetrabile che concepiva il mondo come guerra civile e che prometteva piombo non solo, come ci si poteva malauguratamente aspettare, al «nemico di classe», ma soprattutto fucilazioni ai «traditori» e ai «rinnegati» («Picconeremo Colletti»). Il tribunale della Storia, autoconvocatosi in una miriade di sedi fra Voghera e Crotone, non aveva esitazioni a emanare sentenze capitali in nome del proletariato internazionale con lo stesso distratto accanimento con cui un tassista auspica il plotone d’esecuzione contro l’assessore al traffico per il cattivo funzionamento di un semaforo. E tuttavia, che fatica «partecipare», che psicodramma quotidiano la militanza, malgrado i risarcimenti e i crismi dell’identità: un’infelicità collettiva senza scampo sembra il prezzo da pagare obbligatoriamente al compimento della democrazia, ovviamente quella vera, sostanziale, progressiva, proletaria, non il vuoto simulacro procedurale organizzato dal complotto della borghesia sul Sunset Boulevard del capitalismo avanzato. Con un madornale transfert i luoghi e i gesti della passione vengono ricollocati nelle sedi logistiche del movimento. Studenti privi di futuro, Lumpen senza presente e giovani operai senza passato «espropriano» case d’affitto e insediano «comuni»: i documenti lasciati in abbondanza dalla grafomania dell’ epoca spiegano che condividere lo stipendio del compagno che lavora in fabbrica è un efficacissimo modo non soltanto per tirare a campare, ma soprattutto per «smontare» la struttura capitalistica del salario. Ma anche l’italiano democratico medio di allora non sa resistere a nessun inferno, purché di gruppo e di sinistra, pur di guadagnarsi l’iscrizione al club delle buone intenzioni: «In Italia, dunque – scriveva Ernesto Galli della Loggia nel 1980 – la modernizzazione dei ceti medi, che nella sostanza corrispondeva a un loro adeguamento ai modelli propri delle democrazie capitalistiche avanzate e della loro cultura, si presentò invece con un marcatissimo connotato ideologico e politico che si voleva e si diceva "di sinistra", cioè contrario proprio a quanto stava dietro a quei modelli». E poiché «di ogni aspetto arcaico, ingiusto, inefficiente, o semplicemente sgradevole dei rapporti e dell’ organizzazione sociale la colpa sarà data regolarmente al preteso fondamento "capitalistico" dei medesimi … mentre di ogni speranza di mutamento, anche delle più fantastiche e rocambolesche» viene investita la Sinistra, non c’è da stupirsi troppo se i suddetti ceti medi si lasciano afferrare da una sindrome fra il narcisistico e il frustrante, che ingloba aspirazioni a «fare scoppiare la coppia», a superare in un «altro» progetto di relazioni personali l’alienazione tipica della famiglia borghese, e magari a dare un contributo psicologico all’imminente abbattimento dello stato. Come in un colossale gioco di simulazione, l’Italia interpreta in massa «Ecce Bombo». Discute, «fa autocoscienza», entra in crisi ogni sera nel soggiorno di casa dopo il telegiornale. 7. Su un povero paese che non aveva usufruito dello sfogo catartico di una rivoluzione, che non aveva interiorizzato la democrazia come sistema, che rifiutava retoricamente il consumismo salvo poi rivendicare en revolté il diritto ai beni da supermarket e comunque senza avere ancora sperimentato standard di consumo (o più semplicemente di benessere) europei, si spandeva la luce artificiale di un conformismo di segno nuovo, in cui non era difficile scorgere germi neanche troppo larvati di autoritarismo, di una convenzionale quanto complessata ripulsa delle differenze connaturate a processi tipicamente moderni come la crescita economica, l’acculturazione di massa, la trasformazione degli stili di vita. L’unica risposta ai drammi quotidiani della modernità era la rivoluzione. E purtroppo, alla retorica (alla via di fuga) della rivoluzione cedevano tanto gli operai-massa dell’Alfa Romeo quanto le caste degli intellettuali, dei giornalisti, degli scrittori, dei maestri d’opinione. Anche se ormai sembra di fare dell’ archeologia, non andrebbe dimenticato che per un troppo lungo periodo settori tutt’ altro che marginali dell’ intelligentsia rimasero omertosamente neutrali di fronte al più cruento e ottuso attacco organizzato contro il sistema democratico. Uno storico del futuro potrà chiedersi forse che relazione c’è fra l’enfasi «democratica» che percorre i Settanta, stereotipata fino a rinsecchirsi in formule irrisorie, e la contemporanea aggressione operata contro la democrazia concreta, insediata costituzionalmente. E la classica domanda senza risposta, ma con mille ipotesi proponibili: fra queste, si può ricordare come emblematico il gesto di quel professore di sociologia, a Trento, che durante l’autopresentazione del corpo docente agli studenti inalberò il pugno chiuso nel saluto internazionalista: soltanto per un attimo, come in un fermo-immagine istantaneo, sufficiente a far percepire la propria solidarietà di classe ai «proletari» raccolti r:ell’ aula magna ma non a farsi identificare dagli emeriti colleghi. E proprio una forzatura individuare in questo tic la collusione dell’élite, la sua furbastra viltà, la sua abdicazione civile? Pur di non assumersi l’irritante responsabilità di essere classe dirigente, l’interprete medio della Bildung italiana, ossia l’impiegato dello stato al massimo livello, strizzava l’occhio alla rivoluzione: non si sa mai. Fine della parentesi. 8. A pochi veniva in mente che il più elevato livello di modernità e civiltà del decennio era stato raggiunto con il referendum sul divorzio il 12 maggio 1974, e cioè attraverso una competizione che aveva diviso anziché unire, che aveva attraversato le coscienze e stracciato le logiche di partito; e nemmeno che sui diritti civili, cioè su un fatto giudicato così evasivamente «sovrastrutturale», potevano essere rifondati diversi progetti in grado di far coincidere in senso moderno lealtà intellettuali e urgenze politiche, pragmatismi e idealità. Ma tant’è, ciò che conta è fare parte di qualcosa: e si partecipa, in effetti, dappertutto e in ogni occasione. Nelle rivendicazioni sindacali, nelle manifestazioni per il 25 aprile, negli scioperi, nelle indignazioni, nelle recriminazioni, purtroppo nei molti funerali. E tuttavia, seppure a fatica, seppure nostalgicamente ossessionato dal richiamo della tiepida Gemeinschaft dei sentimenti comunitari, il paese cresce: cioè si differenzia, nel costume, nelle preferenze, nel consumo, nei comportamenti. Alle austere lezioni del Pci di Berlinguer (e di Franco Rodano) si contrappone la nevrosi della società reale che, in attesa del collasso sempre rinviato del capitalismo e insensibile alle ombre proiettate dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, decide di partecipare a modo suo: con i televisori, le automobili, le pizzerie, le vacanze più o meno intelligenti, i mangianastri, gli impianti hi-fi. Era il sintomo di una sfasatura, se non di una schizofrenia, tra privato e pubblico, per cui cittadini perfettamente in grado di intuire le leggi della micro e della macroeconomia, e dunque di «gestire» individualmente passaporti e viaggi, mutui bancari, programmazione dei consumi e pianificazione degli acquisti in tempi di inflazione elevata risultavano poi paralizzati al livello (a qualsiasi livello) della rappresentanza e della decisione politica. Per ristrutturare un chiosco occorre come minimo un’ assemblea di quartiere, perché pur di non decidere la comunità è chiamata a partecipare a tutto. Assemblee rionali, consigli civici, comitati di periferia celebrano incessanti riti unitari: attraverso di essi passa l’indecisionismo. Che si debba asfaltare un’aiuola o spostare un garage, la maglia ferrea del coinvolgimento non lascia scampo: mentre molte città, anche amministrate da giunte di sinistra, vedono accatastarsi autentiche turpitudini urbanistiche, deliberate verticisticamente con il collateralismo interessato di molti «maledetti architetti» di gran moda, per le inezie si chiede la mobilitazione, il confronto, il dibattito. Misure modeste come la pedonalizzazione di un centro storico, da affrontare con una decente misura di pragmatismo e di competenza tecnica, devono ottenere l’imprimatur «popolare» del referendum cittadino. E in pochissimi si prendono la briga di segnalare gli aspetti di manipolazione sovietica di simili consultazioni referendarie, che abbinano il massimo di intenzione generica con il minimo di contenuto tecnico specifico (salvo poi dover ogni volta ridiscutere le misure adottate con le consorterie mercantili colpite dai provvedimenti). E che dire dell’istituzione scolastica, che alla farragine della propria struttura organizzativa e all’insufficiente qualità professionale media dei suoi operatori aggiunge la confusione «politica » dei decreti delegati, che introducono nuove stratificazioni di rappresentanza, di controllo, di burocrazia, oltre che ulteriori palestre per l’esercitazione declamatoria? 9. Come era stato insegnato, nel teatro della Storia ciò che si allestisce in prima come tragedia si replica per gli abbonati del secondo turno come farsa. Per un’ironia della storia, o forse più realisticamente per un’astuzia della politica, il modello della partecipazione a tutti i costi, alimentato in modo strumentale dalle fasce superiori della classe politica, e vissuto di volta in volta emotivamente dalla base e convenzionalmente dai collegi elettorali, si è poi ribaltato vistosamente in una parodia di se stesso, ad esempio, in diversi settori del servizio pubblico e segnatamente in alcuni segmenti delle strutture di Welfare. Nel gioco di rimbalzi incongrui fra i poli classici della rappresentanza e della partecipazione, è emersa piano piano una configurazione originale, dai tratti ambigui ma dagli scopi chiarissimi, che è sintetizzabile nella «formula UsI». Per non pochi aspetti, il nuovo schema è protervamente geniale: un apparato pubblico viene colonizzato dagli organismi di partito (la partecipazione politica, almeno formale, è assicurata); ogni cittadino dotato di reddito «partecipa» per obbligo in quanto contribuente. Che poi sul piano pratico 1’efficienza dei servizi della sanità nazionale sia oltremodo scadente, che le prestazioni risultino penose, che le competenze professionali vengano generalmente mortificate, che lo scialo sia garantito, tutto questo rappresenta solo una serie di corollari, per quanto grotteschi, di un’idea che viene da lontano.

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