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La Chiesa e i partiti: tracce di un disegno politico

09-10 1991
Cattolicesimi italiani

Fino a non molti mesi fa, in maggioranza gli osservatori, non solo laici, erano adagiati nella convinzione stereotipata che la religione in Italia fosse un fenomeno sostanzialmente residuale, religiosità ridotta a una dimensione individuale, il brusio psicologico all’interno di una società scristianizzata, con scarsi e ininfluenti riflessi sulla dimensione politica. E che se la Chiesa produceva un impatto politico ciò avveniva in misurata e stringente sintonia con l’azione di papa Wojtyla, cioè su un orizzonte esplicitamente planetario, ora caratterizzato da toni carismatico-profetici (talvolta profetici anche nell’ esplicarsi visibile della loro potenza simbolica), ora inciso nel vivo di questioni geopolitiche talmente ampie da risultare a lungo pressoché incomprensibili (dal momento che prima del 1989 nessuno avrebbe potuto ragionevolmente immaginare i portenti che si sarebbero osservati in Europa). Anzi, l’immagine esteriore del cattolicesimo italiano risultava schizofrenica proprio per la fortissima efficacia internazionale del papato wojtyliano e la bassa intensità apparente del ruolo cattolico all’interno dei confini italiani. Un’opportunità politica per la Chiesa Il primo shock contro le certezze collettive si è verificato con lo scoppio della guerra del Golfo. Risulta adeguato parlare di un trauma perché il conflitto in Medio Oriente ha posto il nostro paese di fronte all’imprevista constatazione che il mondo cattolico esisteva davvero. Che le parole del papa producevano conseguenze assolutamente inaspettate. Che il pacifismo cattolico costituiva una realtà politica dalla consistenza tutta inattesa. Di fronte a questa constatazione così sorprendente, quello che per comodità, prescindendo dalle sue sfaccettature, chiamiamo il mondo laico, ha avuto due reazioni distinte: dapprima ha manifestato stupore, come succede di fronte ai prodigi; subito dopo è caduto preda di un riflesso condizionato nella cui ultima sequenza si esprimeva un riscontrabile senso di timore. Alcuni osservatori, in quanto erano completamente estranei a quel mondo, si sono davvero spaventati, di fronte all’imprevisto riapparire di un fantasma: salvo poi, con un esorcismo intellettuale piuttosto tipico, trasformarsi rapidamente in esperti della reviviscenza cattolica. Vale la pena di sottolineare qualche passaggio significativo. Ricordiamo tutti, durante il conflitto contro Saddam Hussein, le parole di Giovanni Paolo II: la guerra bollata come «avventura senza ritorno», poi una precisazione con il monito alla ricerca di una pace «giusta». Non è il caso qui di condurre un’esegesi sul significato reale delle espressioni del pontefice: si deve però porre in evidenza che, comprese o strumentalizzate, le parole del papa provocarono alcuni effetti immediati e appariscenti. Diventarono con estrema rapidità la parola d’ordine, oltre che di larga parte dei movimenti cattolici (non solo di quelli di sinistra), anche del nascente Pds. È noto che al congresso di autoscioglimento del Pci a Rimini la posizione pacifista espressa da Achille Occhetto sulla guerra era stata interpretata come la fine di qualsiasi realistica prospettiva di alternativa per i prossimi anni, e di conseguenza poteva significare il drammatico autoisolamento di un partito che si stava rifondando per entrare a pieno titolo nella partita politica. Sotto questa luce si può giudicare opportunistico quanto si vuole il «papismo» di Occhetto, un tentativo di riallacciare nella società e all’insegna di un insospettabile vessillo ideale il filo che gli stava sfuggendo nel campo più strettamente politico. Ma non è questo che conta. Ciò che importa è che in molti si convinsero che la posizione della Chiesa non rispondeva a una logica sua propria, ispirata dalla teologia o modellata dall’etica cristiana, ma era più propriamente il risultato di un sottile e spregiudicato calcolo politico. Secondo questa linea di ragionamento, il papa, la Conferenza episcopale, la gerarchia cattolica avevano individuato nel panorama del nostro paese una finestra di opportunità. Avevano intuito che nella società italiana esisteva un vuoto politico, ideologico, morale, e avevano deciso di occuparlo. Ovviamente non si potevano ancora conoscere le forme che questo calcolo avrebbe potuto assumere sul terreno concreto, ma adottando questa chiave di analisi molti elementi inducevano a pensare che la Chiesa avesse deciso di aprire una partita strategica di lungo respiro. Cattolicesimo e politica: due instabilità Gli indizi, o le opportunità verificabili, di un disegno strategico si profilavano numerosi e almeno in apparenza stringenti, per quanto estrinseci alla Chiesa. In effetti, la distanza ormai plateale fra politica e collettività può rendere appetitoso lo spazio pubblico che si è spalancato fra cittadini e classe politica. La crisi del Pci, prima, e l’insufficiente slancio del Pds, poi, hanno contribuito a rendere orfana buona parte della sinistra (senza dire del collasso ideologico del comunismo). L’insofferenza di parte del mondo cattolico per il metodo di governo andreottiano ha aperto altri spazi. Si può dire che nasce a questo punto quella che si potrebbe definire la «paura laica». Se la Chiesa si mette a fare politica, quali saranno i risultati di questa presa di iniziativa dentro una situazione istituzionale che non è caratterizzata né dalla solidità né dall’efficienza? Saranno inevitabilmente destabilizzanti, se è concessa una instabilità ancora maggiore in una realtà già ampiamente destabilizzata. In realtà la tesi del calcolo politico si regge su elementi che a un esame più ravvicinato risultano in sostanziale contraddizione. Certo, la Chiesa può suscitare del movimento e trovare sponde e connessioni dentro certi partiti (o in alcune loro correnti). Ma non si va lontano dal vero dicendo che in questo momento chi dovesse scommettere sui partiti rischierebbe di firmare cambiali che minacciano di finire in protesto. In parallelo, scommettere sulla società, sull’associazionismo, sui movimenti, sul volontariato, proprio a causa della distanza fra società e politica, rischia di rivelarsi una scommessa di periodo troppo lungo per avere una valenza politica praticabile in termini ragionevoli. In ogni caso, la situazione non era più immobile. Il «disagio cattolico» era affiorato già da tempo, la distanza dalla Dc di alcune componenti del cattolicesimo italiano si era certamente approfondita. In prospettiva, la fuoruscita di Leoluca Orlando dalla Dc darà pure luogo a un fenomeno marginale politicamente ed elettoralmente, ma riesce difficile, ad esempio, definire marginale il fatto che la Dc andreottiana non sia riuscita a metabolizzare l’eresia palermitana e la Rete attraverso il consumato gioco negoziale di concessioni e risarcimenti politici che ha sempre contraddistinto la sua azione nei confronti delle potenziali eresie politiche ai suoi danni. E ancora meno marginale appariva la ventata pacifista che aveva investito il tradizionale insediamento democristiano nel cattolicesimo del nostro paese. Soprattutto perché ha messo definitivamente in discussione, e profondamente, forse per la prima volta con tale intensità, l’effettiva rappresentatività democristiana del mondo cattolico. Anche l’elettore cattolico medio, quello di cui si presume che non abbia marcate simpatie di sinistra, si è trovato a dover fare i conti con una inedita differenza o sfasatura fra le posizioni del partito e quella di ambienti consistenti del mondo cattolico. È sembrato che alcuni legami si stessero di giorno in giorno allentando. Per una volta, il quietismo naturale, l’antibellicismo spontaneo della componente cattolica della società italiana, è sembrato trovarsi istintivamente più vicino agli appelli alla pace lanciati da sinistra anziché alle posizioni espresse per voce governativa. Associazioni, movimenti, la galassia del cattolicesimo sociale ha assunto una posizione divaricata rispetto a Andreotti. «Il pacifismo che è prevalso nel mondo cattolico – ha scritto Gianni Baget Bozzo – è un caso classico di sostituzione di un rigore etico a una fede che non sa più darsi motivazioni: è infatti sostenuto da tutti coloro che lo appoggiano con motivi che non si fondano sulla tradizione cattolica. Ma esso è divenuto un riflesso diffuso e l’obiezione di coscienza appare di per sé più nobile del servizio militare mentre il cristianesimo è visto spesso come una dottrina radicale del non uso della forza». Sta di fatto che questo «riflesso diffuso» almeno un effetto politico lo ha provocato: per una volta infatti è rimasto tagliato fuori e ridotto al silenzio lo strumento più tradizionale e sperimentato che nel corso dell’evoluzione politica italiana era servito almeno nominalmente a tenere aperto il dialogo con il cattolicesimo sociale: vale a dire la sinistra democristiana. Nello stesso tempo, a «destra», Comunione e liberazione cominciava a prendere le distanze dalla Dc, assumendo un atteggiamento di insoddisfazione che si sarebbe espresso nella non troppo celata «freddezza» riservata a Giulio Andreotti durante il Meeting ciellino dell’agosto 1991. In sé e per sé, dunque, l’impressione di un ragguardevole rimescolamento del cattolicesimo politico italiano era sostanzialmente adeguata alla realtà. Ma insieme con questa constatazione va posto in rilievo un aspetto di fondo, che forse non è stato sufficientemente chiarito: cioè che si trattava di un rimescolamento che non avveniva nel vuoto, ma si collocava bensì in sincronia con il processo dissolutivo del nostro sistema politico. Era, questa, la principale differenza rispetto alla diaspora cattolica della metà degli anni Settanta, che aveva trovato senza fatica punti di riferimento politici esterni alla Dc. Se ne poteva dedurre con una certa facilità che mentre un mondo si rimescola e un altro mondo sta procedendo, da tempo e sistematicamente, nel suo gioco con il suicidio, i punti d’incontro fra la Chiesa e la politica non potevano, in realtà, che divenire sempre più precari. Non si verificava affatto il mutamento di una parte, il mondo cattolico, che avrebbe potuto trovare approdi diversi su altre rive politiche, entro uno spettro politico dai confini stabili e dalle qualità definite. Ciò che si manifestava era piuttosto l’incrociarsi di due instabilità, di due fluttuazioni. Attenzione all’ enciclica Non è il caso di avere fretta di trarre conclusioni ultimative, dal momento che questa intensificata fluidità, per l’appunto, non ha ancora trovato occasioni per delineare nuovi tipi di alleanza politica o per prospettare nuove occasioni di incontro politico fra cattolici e partiti diversi dalla Dc. Resta il fatto indubitabile, in ogni caso, che l’ondata d’urto provocata dal dibattito pubblico durante la Guerra del Golfo non è stata priva di conseguenze, dal momento che da allora in poi ogni pronunciamento della Chiesa, ogni presa di posizione dei vescovi, ogni discorso del papa è stato accolto con un’attenzione estremamente acuita rispetto al passato. Il caso più sintomatico, in tale senso, è stato quello dell’enciclica Centesimus Annus. Le precedenti encicliche di dottrina sociale (la Laborem exercens e la Sollicitudo rei socialis) avevano riscosso un’attenzione assai tiepida. Perfino una grande enciclica come la Slavorum apostoli (1985), che rivelava molto dell’atteggiamento del pontefice polacco verso l’Est europeo, era stata accolta e commentata quasi solo dagli esperti di cose vaticane. Enunciare le ragioni dell’improvviso interesse per la lettera pastorale emanata nel centenario della Rerum Novarum equivale per molti versi a stilare un catalogo di ovvietà. L’esaurirsi della sfida fra due modernizzazioni contrapposte, con la fine del socialismo reale e il crollo dei regimi comunisti (quelli che il cardinale Ratzinger aveva definito «la vergogna del nostro secolo»), e la «vittoria» del capitalismo, o meglio della società aperta; e tuttavia anche il tramonto piuttosto accelerato del reaganismo, consegnato velocemente a una fase storica conclusa. La Centesimus Annus faceva quindi da coagulo a una discussione che era nell’aria. A questo proposito, risulterebbe certo infantile dare voce alla polemica antiliberale sostenendo che anche il capitalismo «non ha risolto i problemi», dal momento che è fisiologico per le società avanzate che affrontato un problema se ne presenti un altro, o altri dieci. Tuttavia, con gli anni Novanta, dopo l’esaurirsi del decennio individualista e «rampante», sul capitalismo si è cominciato a riflettere. Nel momento in cui l’economia di mercato è uscita dalla sfera di un giudizio ideologico e si è accettato che fuori di essa non esiste sviluppo, si è cominciato a prendere atto che di capitalismi puri non ce ne sono: esistono varianti locali in cui l’economia privata si mescola con quella pubblica, esistono capitalismi intrecciati con il sistema bancario e le organizzazioni sindacali, esiste un capitalismo che corpora gli interessi innestandosi su modelli sociali a forte tenuta. E allora si è fatta strada la convinzione che interrogarsi sul capitalismo non significa più proporre l’illusione della «terza via» o fughe dalla realtà, bensì chiedersi assai più pragmaticamente qual è la forma di sviluppo economico e sociale più adatta a una distribuzione equa delle risorse disponibili, oppure, dicendolo con parole più contigue al lessico papale, alla salvaguardia della dignità della persona. È stato significativo in questo senso (anzi, di più: sintomatico) che un sacrario dell’economia capitalistica come il «Wall Street Journal» abbia accolto il messaggio papale in termini non sfavorevoli. Una sfida, ha commentato. Nel momento in cui nel mondo occidentale, ogni paese per suo conto, secondo le proprie tradizioni e culture, deve scegliere a quale modello di economia accedere, la posizione espressa dalla Chiesa ha fatto prima tirare a molti un sospiro di sollievo, visto che era sfumato il rischio di una anacronistica scomunica del mercato, e poi ha innescato un dibattito ad alta partecipazione. Certo, nel capitalismo ci possono essere «strutture di peccato», l’ iperconsumo brutale che devasta l’ambiente, la riduzione dell’individualità umana a funzione anonima, l’annichilimento delle solidarietà. Ma ci possono essere anche risorse positive e meccanismi potenzialmente efficaci per migliorare il benessere delle persone e favorire l’aspettativa di intensificare la pienezza dell’esistenza. Tuttavia sembra di poter dire con qualche sicurezza che sul contenuto e sul significato dell’enciclica si riverberava soprattutto un certo senso di perdita, di spaesamento dopo il dissolversi da un lato di un punto di riferimento ideologico, e dall’altro il conseguente rimodellarsi della riflessione sulle società liberali. Una volta accertata la «superiorità» del modello occidentale, essa diveniva priva di termini di confronto; i fallimenti del mercato, e le ingiustizie pure e semplici, ne uscivano soli di fronte a se stessi: a questo punto la parola del pontefice si prospettava con una carica nuova. Se da un punto di vista di larga prospettiva ciò costituiva soltanto l’avvio di un dibattito politicoculturale destinato a coinvolgere anni, se non decenni, dello sviluppo intellettuale del nostro mondo, e a stabilire lo spettro delle domande «forti» relative alla civiltà occidentale, nel breve periodo, nel corso di una discussione pubblica breve quanto intensa, significava qualche cosa di assai più limitato e grossolano: vale a dire che la Chiesa si riaffermava come soggetto primario del discorso politico, e quindi confermava un proprio ruolo che la fatale disattenzione precedente faceva percepire sotto il crisma dell’inedito. Papisti e antipapisti Scendere sul terreno della minutaglia politica potrà sfiorare il grottesco, dopo le altissime poste messe in palio dalla Centesimus Annus. E tuttavia forse non è del tutto errato rintracciare proprio nel clima di attenzione e stupore che si è creato nella prima parte del 1991, in quella centralità della Chiesa ricostituita mattone su mattone dalle attese esterne, ben più che da un calcolo interno, le premesse per tentare di comprendere il succedersi di polemiche che hanno scandito i mesi successivi. Certo, esistevano anche più concrete e urgenti ragioni inerenti a uno scontro politico in atto. Era apparso chiaro, ad esempio, che sull’esito del referendum sulla preferenza unica alla Camera aveva influito in modo decisivo l’atteggiamento assunto dall’associazionismo cattolico, anzi, dall’opinione pubblica cattolica nel suo insieme. E si può attribuire a un’atmosfera di fatto preelettorale, con un Psi reduce da due gravi sconfitte politiche (referendum ed elezioni siciliane), l’attacco a freddo portato da Claudio Martelli durante il congresso straordinario socialista di Bari, svoltosi a fine giugno, contro il «nuovo temporalismo» cattolico (a cui fece seguito nella replica congressuale la precisazione craxiana secondo cui il Psi intendeva criticare non tanto il magistero ecclesiastico né tantomeno il papa, quanto un «clero politicante» che perseverava nel voler mischiare sacro e profano, fede e politica). Da queste attestazioni, nelle quali talvolta sembrava riecheggiare un’enfasi curiosamente ottocentesca, si poteva cogliere un senso piuttosto preciso. Vale a dire che il mondo cattolico, per il maggiore partito laico di governo, risultava attraente e politicamente praticabile fintanto che poteva essere considerato nei termini di una riserva indiana, popolata dagli ultimi esemplari di una civiltà in estinzione e quindi suscettibile di saccheggio elettorale. Il commentatissimo incontro del medesimo Martelli al Meeting di Comunione e liberazione nel 1988 era stato reso possibile dal fatto che in quel momento non si avvertiva traccia di un’azione della gerarchia che rivelasse disegni o progetti concorrenziali nella sfera della politica. Comunione e liberazione appariva quindi a un partito allora movimentista come il Psi un movimento che al di là della sua dichiarata affiliazione andreottiana non risultava «organico» a una definita strategia ecclesiastica. Non appena invece cominciava a prospettarsi il revival della Chiesa, scattava automaticamente il congegno di difesa «laico», che si traduceva immediatamente in segnale di battaglia politica. Tutto questo, malgrado risultasse oggettivamente arduo interpretare l’azione papale e le posizioni dei vescovi come una rentrée in grande stile nella lotta fra i partiti. Nei giorni dello scontro provocato da Martelli, una ironica dichiarazione del vicesegretario democristiano Sergio Mattarella sintetizzava alla perfezione l’intreccio fra religione e politica, magistero della Chiesa e logica di partito, ragioni alte della dottrina ecclesiastica e ragioni lievemente più basse della politica applicata: «Se c’è un’elaborazione veramente progressista sulla convivenza umana è proprio la Centesimus annus. Forse Martelli teme che la Dc traduca l’enciclica in iniziativa politica: se questa è la sua paura, è fondata». La polemica sul «papismo» era cominciata da qualche mese: aveva serpeggiato durante la discussione pubblica sulla guerra del Golfo, e aveva trovato il più radicale degli interpreti in Paolo Flores d’ Arcais, che all’inizio di aprile, nel numero 2/91 di «MicroMega», aveva aperto il fuoco con un lungo articolo che diceva tutto già nel titolo: «Pacifismo, papismo, fondamentalismo: la santa alleanza contro la modernità». Nei giorni della guerra, cominciava Flores d’ Arcais, «Karol Wojtyla, il papa del pacifismo, ha celebrato il suo trionfo più grande: la riconquista dell’Occidente. Unica autorità morale universalmente riconosciuta, le sue parole sono divenute il punto di riferimento obbligato di ciò che per convenzione si chiama ancora "sinistra", mentre nessuna critica esplicita si levava contro il suo discorso neppure dalle variegate sponde interventiste». Seguiva un catalogo degli «ismi» del Wojtyla-pensiero, dal pacifismo all’integralismo al fondamentalismo, che tuttavia sembrava esprimere soprattutto l’irritazione per l’abdicazione «papista» del Pds: «Di fronte alla crisi dell’Occidente, una risposta possibile esiste, e si chiama coerenza, non già rinuncia». Sembra di avvertire in queste parole soprattutto l’irritazione «laicista» e radicale per il dérapage di Achille Occhetto verso le posizioni papali, la presenza vagamente incongrua di D’ Alema e Veltroni all’Angelus in San Pietro, l’entusiasmo da neofiti manifestato dal Pds dopo la propria mutazione genetica. L’ «impegno unitario» dei cattolici in politica C’erano due prospettive, nascoste dentro il dibattito sul neo-temporalismo. Dopo l’offensiva di Martelli, Rocco Buttiglione, filosofo e ideologo di Comunione e liberazione, aveva intuito con lucidità che da parte del Psi, soprattutto da parte di coloro che con più calore avevano applaudito il vicesegretario, c’era stato semplicemente un errore di valutazione politica, «un rigurgito di visceralità anticattolica»: che tuttavia a suo parere portava a un solo esito, «serve a galvanizzare gli animi dei seguaci ma regala alla Dc l’unità politica dei cattolici». Mentre in un ampio articolo sulla «Stampa» del 6 luglio, Ernesto Galli della Loggia metteva in luce l’altro aspetto, vale a dire il formarsi di una posizione della Chiesa antagonistica rispetto al sistema politico: «In generale, la chiesa negli ultimi tempi si è offerta come non mai- e con successo del tutto inedito – nel ruolo di matrice, collettore e veicolo di opzioni eticosociali, molto spesso ad alto contenuto di conflittualità politica, non tanto verso questo o quel partito, ma verso quel che si può definire il regime politico nel suo complesso». Passata l’estate, proprio l’unità politica dei cattolici e la critica del sistema politico sarebbero divenuti i due temi su cui si è concentrata l’attenzione della Cei. Quando il 23 settembre il cardinale Camillo Ruini aprì una riunione del Consiglio permanente della Conferenza episcopale con una «prolusione» dedicata alla religiosità, alla fede e al sentimento morale degli italiani, ci fu una specie di risposta automatica, sia degli uomini politici sia degli organi di informazione, che interpretarono senza scampo il discorso del presidente della Cei come un sostegno all’unità politica dei cattolici entro il partito democristiano. In realtà, nelle dodici fitte cartelle lette da Ruini ai vescovi, la parte schiettamente politica era assolutamente minima. Nell’interpretarla, ci sarebbe voluta qualche precauzione. Si sarebbe dovuto ricordare che la libertà politica dei cattolici rappresenta ormai non tanto un problema, individuale e collettivo, quanto piuttosto un dato di fatto statistico, certificato dai risultati elettorali. Aveva scritto qualche mese prima Gianni Vattimo, quando infuriava la discussione su «papisti e antipapisti»: «È difficile credere che la forza elettorale della Dc dipenda ancora, come certamente dipendeva in passato, dall’appoggio del Papa e dei vescovi; un simile pregiudizio rispecchia forse solo una debolezza della cultura politica laica, che non riesce a figurarsi come mai la gente continui a votare Dc se non per qualche motivo superstizioso, o comunque extra politico, che le fa chiudere gli occhi davanti agli esiti disastrosi dei governi democristiani». Eppure la reazione al discorso di monsignor Ruini è stata pressoché unanime, da una parte e dall’altra, e perlo più priva di sfumature. In campo democristiano si è assistito alla consueta difesa d’ufficio; sul fronte laico si è gridato come al solito all’ingerenza. Ora, al di là dell’irritazione immediata che riescono a provocare gli interventi della gerarchia ecclesiastica sul terreno politico, forse sarebbe stata necessaria una maggiore prudenza. Si sarebbe potuto riflettere sul fatto che il cardinale Ruini è un politico troppo sottile per consegnare agli atti della Repubblica italiana qualcosa che assomigli seppure vagamente a una grossolana ingerenza politica. Il suo discorso, semmai, appariva insidioso per ragioni esattamente opposte a quelle per cui si è attirato le critiche generali. Ruini non aveva mai nominato la Dc. La sua sottolinea tura della «convergenza e unità di impegno dei cristiani» era riferita a una serie di valori («il primato e la centralità della persona, il carattere sacro e inviolabile della vita umana in ogni istante della sua esistenza, la figura e il contributo della donna nello sviluppo sociale, il ruolo e la stabilità della famiglia nel matrimonio, il pluralismo sociale e la libertà di educazione, l’attenzione privilegiata alle fasce più deboli della popolazione, la libertà e i diritti inviolabili degli uomini e dei popoli, la solidarietà e la giustizia sociale a livello mondiale»), valori la cui tutela o il cui perseguimento non sono aggiudica bili a priori come prerogativa di un singolo partito politico. Nella sua trasparente trasversalità, «l’impegno unitario dei cattolici nella libera maturazione delle coscienze» potrebbe essere accolto esattamente come ha fatto a caldo il parlamentare del Pds Carlo Cardia, il quale dichiarò di trovarsi concorde con Ruini nell’individuare un nesso vincolante fra cattolicesimo e politica. A un’analisi appena più approfondita, si sarebbe potuto sospettare che l’intervento della Chiesa fosse molto più sofisticato e importante di quanto appariva sui giornali. In questo senso, la prolusione del cardinale non sarebbe stata tanto pericolosa perché banalmente e anacronisticamente sembrava indicare nella Dc la mediazione politica necessaria fra Chiesa e mondo cattolico, bensì in quanto avrebbe annunciato un’assunzione di ruolo della gerarchia nella politica italiana con contorni completamente nuovi. Dalle parole del presidente della Cei si poteva pensare a una Chiesa che tenta di ergersi direttamente a protagonista del dibattito politico, non più usando come strumento la fiacca Dc dorotea, ma chiamando all’ «impegno unitario» i cattolici presenti in tutti i partiti. Per ogni spirito laico, o comunque geloso delle distinzioni fra ambiti istituzionali differenti, un’ipotesi del genere può apparire in sé più preoccupante di qualunque volgare richiamo elettoralistico. Perché occorre tenere presente che, di fronte a una Chiesa forte e consapevole, si colloca un sistema di partiti avviati alla frammentazione e terrorizzati da ogni possibile perdita di consenso; e soprattutto un sistema di istituzioni allo sbando. E il pensiero di quali incontrollabili meccanismi potrebbe mettere in moto una specie di nuovo «trasversalismo» cattolico che guardasse prima al magistero della Chiesa che al significato civile della politica sarebbe stato sufficiente per giustificare ansietà molto più acute di quelle che si sono manifestate rispetto all’eventuale riapparire del tradizionale e conosciutissimo legame speciale della gerarchia con la Democrazia cristiana. Qualcuno può avere pensato che con una prova di flagrante esprit florentin monsignor Ruini avesse messo nel conto un messaggio a due livelli, in cui quello più basso poteva significare un monito alle parrocchie perché non si facessero tentare da esperienze politiche esterne alla Dc (vedi il caso della Rete), e che in fondo poteva essere percepito come un sottinteso invito alla comunità cattolica rivolto a porrele condizioni favorevoli per consentire all Dc di passare più tardi all’incasso elettorale. Ma che nessuno, sul fronte laico, abbia sospettato una portata maggiore nella posizione della Cei, risulta deludente fino all’imbarazzo. Esemplare di un plateale fraintendimento collettivo è stato il documento che il Psi ha inviato a Giovanni Paolo II, una irrituale e secondo il Vaticano «impertinente» dichiarazione di principi in cui si accusavano i vescovi di violare la Costituzione e il Concordato, il Concilio e l’enciclica Centesimus Annus. Rimasta in un’arena provinciale, la polemica laica non poteva neppure prevedere le evoluzioni successive dell’azione dei vescovi. I vescovi contro il «neo-feudalesimo» Così, le sorprese erano destinate a continuare. A metà ottobre, un curioso effetto di miopia incrociata a presbiopia ha indotto numerosi osservatori ad attribuire a un discorso del pontefice tenuto a Campo Grande, nel Mato Grosso, durante il tour brasiliano, il significato di una «correzione» rispetto a Ruini. «È un fatto evidente – aveva detto papa Wojtyla – che un’interferenza diretta da parte di ecclesiastici o religiosi nella prassi politica, o l’eventuale pretesa di imporre, in nome della Chiesa, una linea unica nelle questioni di Dio ha lasciato al libero dibattito degli uomini, costituirebbe un inaccettabile clericalismo. È anche ovvio che incorrerebbero in un’altra forma non meno pregiudiziale di clericalismo quei fedeli laici che, nelle questioni temporali, pretendessero di agire, senza alcuna ragione o titolo, in nome della Chiesa, come suoi portavoce, o sotto la protezione della gerarchia ecclesiastica». Liberali, repubblicani, Pds, missini hanno subito applaudito le parole del papa. Nel Psi le si è addirittura considerate come una risposta personale, al punto che Craxi ha rilasciato una dichiarazione di questo tenore: «Le inequivocabili parole di Giovanni Paolo II sul clericalismo degli ecclesiastici e dei laici chiudono una polemica spiacevole e anacronistica, che non si sarebbe mai dovuta aprire». Senza neppure sospettare l’asimmetria di tonalità delle sue parole rispetto al discorso papale, che conferiva al tutto una leggera ma percepibile sfumatura di surrealtà. Tuttavia che il mondo laico stesse davvero aprendo e chiudendo polemiche a vuoto, come un motore in folle, dovrebbe essere stato reso chiaro dall’ulteriore nota pastorale della Cei, resa pubblica il 12 novembre, intitolata «Educare alla legalità». Preparato dalla commissione «Giustizia e pace» della Conferenza episcopale, il documento costituisce uno dei più veementi atti d’accusa contro la situazione politica italiana che siano mai stati diramati ufficialmente dalla Chiesa. Conviene rileggerne qualche passo: «Affiora l’immagine di un risorgente neo-feudalesimo, in cui corporazioni e lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto stesso delle leggi, decise a ritagliare per proprio tornaconto un sempre maggiore spazio di privilegio». Si assiste a una «eclissi di legalità», in cui si affermano nuove e incontrollabili forme di criminalità, di fronte a cui «le risposte istituzionali sembrano spesso troppo deboli e confuse, talvolta meramente declamatorie … Si tagli l’iniquo legame fra politica e affari. Siano facilitati gli strumenti di partecipazione diretta dei cittadini alle scelte fondamentali della vita comunitaria». Sergio Romano ha commentato con tempestività: «Documenti come "Educare alla legalità" si sono letti negli anni scorsi soltanto quando la Chiesa si è vista costretta a intervenire con il suo magistero morale nelle vicende delle più disastrate Repubbliche latino-americane» e che «per la prima volta dal Non expedit, e con tutt’altro spirito, la Chiesa italiana è scesa in campo contro la società politica». Già, ma con quale scopo? La Dc dopo la Dc? Avevo esposto all’inizio le ragioni per cui si poteva ragionevolmente considerare poco probabile per la Chiesa, e anche poco praticabile e scarsamente fruttuosa, la via di uno sbarco massiccio in politica: troppo distanti i partiti dalla società, e troppo distante la società dalla politica. Erano ragioni che potevano spiegare anche la sostanziale sopravvalutazione, quando non proprio una mancata comprensione, espressa dai laici nei confronti dei pronunciamenti di monsignor Ruini sull’ «impegno unitario» dei cattolici in politica. Da un lato, infatti, l’ultimo documento pastorale, «Educare alla legalità», è sembrato assestare il colpo di grazia definitivo all’idea che esista un partito cattolico riconosciuto per sanzione ecclesiastica e che i vescovi facciano la campagna elettorale per la Dc. Tanto più che non si vede come l’asprezza della denuncia episcopale contro il collasso politico e civile dell’Italia non debba coinvolgere proprio il partito che ha governato durante tutto il dopoguerra e che quindi, secondo la formula di Bobbio, «è più responsabile degli altri». E difatti almeno all’inizio le reazioni degli esponenti della Dc al documento della Cei sono state estremamente caute, e colorite da un certo imbarazzo. Dall’altro lato, ci si può chiedere quale significato abbia l’intervento della Chiesa, in fondo se l’intensità della denuncia di un «regime» non sia il sintomo proprio di quella strategia di «invasione» del sistema politico di cui abbiamo già parlato. In ogni caso, il collocarsi della Cei contro il sistema politico rappresenta l’indizio di una scelta già effettuata. Quale sia questa scelta, è troppo presto per tentare di dirlo con sicurezza. Una delle prime interpretazioni è che la Chiesa abbia acciuffato per la coda il disagio, l’ansia, quasi il panico che in questo momento si diffonde nel paese, e se ne sia fatta interprete. In questo modo ha incamerato un patrimonio politico, che domani potrà spendere a piacimento, a mani libere. Scetticismo vuole, per chi guarda soprattutto al breve periodo, che alla fine questo patrimonio verrà fatto rifluire dentro la Dc. Dopo avere esorcizzato il mostro piovresco dell’Italia «neo-feudale», insomma, e avere contribuito all’ondata destabilizzante di disagio che agita l’Italia, è senz’ altro possibile che in futuro la gerarchia ecclesiastica lasci capire ancora una volta che di fronte al possibile collasso, al trauma che chiede Cesare Romiti, allo shock che molti si aspettano o temono, l’unica forza politica in grado di assicurare una stabilità purchessia è inevitabilmente la Dc (e potrebbe addirittura darsi che non ci fosse bisogno di nessuna indicazione ecclesiastica, per giungere a una soluzione simile, dal momento che gli elettori sono rapidissimi a svolgere le loro deduzioni in proprio). Invece, secondo un’ipotesi più audace, la Chiesa potrebbe avere già scommesso su un’idea di raggio più ampio, che ha le sue radici nella premessa che fuori dalla Dc non pare esserci ancora un terreno politico favorevole (l’esperienza della Rete di Orlando sembra fatta apposta per intercettare voti che orbitavano intorno all’ex P ci, non per attrarre fasce di consenso democristiano). E allora potrebbe darsi che «Educare alla libertà» rappresenti il più forte segnale che sia possibile far pervenire alla Dc, un messaggio che in definitiva significa più o meno «rifondatevi». Angelo Panebianco ha indicato in prospettiva due possibili modelli evolutivi per la Dc: a un’estremità un partito di soli cattolici, integralista e in evitabilmente minoritario; all’altra estremità invece una formazione priva di stimmate confessionali, moderata e capace di rigore in politica, la Dc rimpicciolita in formato Mario Segni. Può essere che i modelli debbano convivere, sovrapporsi, confondersi: cioè può darsi che per ottenere una sorta di rinnovato avallo cattolico, per non essere più messa alla berlina come partecipe alla responsabilità dello sfacelo, per tornare a baciare l’anello e a godere della benevola attenzione della gerarchia ecclesiastica, la Democrazia cristiana debba raccogliere una specie di invito della Chiesa, per ora appena tratteggiato, a puntare le sue carte sul «modello Segni». Alcune parole di «Educare alla libertà», soprattutto quelle che si riferiscono a una più piena partecipazione dei cittadini alle scelte fondamentali della vita democratica sembrano lasciare trasparire una naturale, per così dire, «simpatia referendaria», quella stessa simpatia che è circolata ampiamente nelle parrocchie e nelle associazioni cattoliche durante la campagna per la consultazione sulla preferenza unica. Chissà, forse la Chiesa ha acceso un’ipoteca su un’altra Democrazia cristiana.

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