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Fuga nell’avvenire. Il post-comunismo e il peso della cultura

09-10 1990
Dentro la «cosa»

1. Dopo un lunghissimo anno di discussioni sulla Cosa, viene il dubbio che sia stato dimenticato un elemento fondamentale, e cioè che il rinnovamento, la trasformazione, la rifondazione o se si vuole la metamorfosi del Partito comunista italiano non sono dipesi da una decisione autonoma e sovrana da parte del ceto dirigente del partito. Ci sono voluti alcuni eventi che è poco definire traumatici, attraverso una successione in cui lo sgretolamento del Muro di Berlino rappresenta certo l’episodio più spettacolare ma non l’ultimo sintomo della disgregazione finale di un sistema. Per ricapitolare, l’annuncio di Achille Occhetto alla Bolognina, il 12 novembre 1989, secondo cui nel Pci entrava in discussione «tutto», veniva sulla scia di un processo dissolutivo che aveva investito tanto il centro dell’impero sovietico quanto il suo antemurale esterno. I birilli del madornale bowling del socialismo reale crollavano ad uno ad uno addosso all’altro. Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Germania Orientale. Nel medesimo tempo, l’Unione Sovietica vedeva realizzarsi le conseguenze di cinque anni di «Era Garbaciov», quella combinazione di sprigionamento di energie sociali troppo a lungo represse e di mancata gestione che stava portando le quindici repubbliche socialiste allo sfacelo e forse alla fame. Per i comunisti italiani, è un punto d’onore negare a priori qualsiasi relazione fra il crollo dell’Europa comunista e la crisi del Pci. «Noi non abbiamo buchi nelle nostre bandiere», sostiene ancora oggi il suo segretario. Ma a quel punto, a Muro appena sbrecciato, solo un involontario eroe e martire dell’ortodossia comunista come Dario Cossutta poteva ancora pensare che il binomio di Glasnost e Perestrojka potesse costituire un nucleo di virtuali capacità autoriformatrici miracolosamente insito nel socialismo realizzato. Per tutti gli altri acquistava evidenza drammatica la dimensione di un fallimento complessivo, che oltretutto aveva la pessima caratteristica di verificarsi in contemporanea in tutte le province dell’impero, come se la mano del destino avesse incorporato nei totalitarismi comunisti una serie di bombe a tempo perfettamente sincronizzate. Nelle piazze di Lipsia e di Dresda la gente aveva fatto saltare il bunker dello stato anticapitalista, del presunto baluardo antifascista. A Berlino, Gorbaciov aveva ammonito il vecchio Honecker: «Chi tardi arriva, la storia lo punisce». L’erede di Ulbricht ovviamente non capiva, ma ormai una sentenza era stata emessa. Era evidente che la scossa tellurica nell’Europa orientale rischiava di sconvolgere la terra sotto i piedi anche al Pci. E a quel punto Occhetto non poteva tardare un minuto. La sua figura si tramuta in quella di un uomo che fugge inseguito da una colossale ondata di macerie. A dispetto dei molteplici «strappi» compiuti nei confronti dell’Unione Sovietica, per una parte tutt’altro che marginale del Pci il sostegno entusiastico alla perestrojka di Gorbaciov era servito effettivamente anche da contrappeso ai giudizi ufficiali del partito sul fallimento dei sistemi comunisti. Per un verso, la radikalnaja reforma gorbacioviana lasciava margini al dubbio o alla tacita speranza che non tutto, nell’esperienza sovietica, fosse da buttare; per un altro aspetto, si poteva poi cullare e diffondere l’idea che l’evoluzione in atto nell’Europa dell’Est fosse stata per così dire «anticipata» non solo dalle edizioni più recenti del Pci, diciamo dal Berlinguer che nel giugno ’76 accetta la Nato, ma perfino dal Togliatti del Memoriale di Yalta. Il ripescaggio in extremis del socialismo reale, così operato, permetteva di riflesso anche una rilegittimazione della storia del Pci, in quanto precursore, se non proprio ispiratore diretto, del processo di democratizzazione messo in moto da Gorbaciov. È appena il caso di dire che si trattava di una classica fiaba di famiglia. Preda delle sue mitologie provinciali, il Pci era in ritardo sulla storia almeno dal 1959, l’anno di Bad Godesberg. Il «cambiamo tutto» di Achille Occhetto non poteva non avere l’apparenza di un salvataggio estremo, e quindi assai problematico. Ma i cornicioni pericolanti del comunismo incombevano, ed era urgente cambiare marciapiede alla svelta. 2. Occhetto si accinge ad attraversare la strada, e naturalmente sa benissimo di rischiare grosso. Il minimo che gli può capitare è di essere messo sotto dagli autisti dei vari tram chiamati desiderio, che sono così numerosi nella corsia di sinistra del partito. Per questo non può azzardare la via più semplice: indire subito le assise straordinarie, comunicare sbrigativamente il cambio del nome e del simbolo e indicare le linee fondamentali di un programma politico di stampo più o meno socialdemocratico. Non ha il carisma di farlo. E i vecchioni del partito tradizionale si allineano con il fucile puntato. «Costernante… », sibila a denti stretti Ingrao dopo aver letto la relazione del segretario alla direzione del 14 novembre. Nemmeno Alessandro Natta e Aldo Tortorella sono stati informati dell’avvio del nuovo corso, e se la legano al dito. Ma Occhetto è vittima in primo luogo di se stesso: della propria formazione, della propria cultura, del clima sessantottesco in cui è maturato. Forse è rimasto nostalgicamente legato al se stesso segretario della Fgci, e sogna anacronisticamente mobilitazioni «di massa», convergenze, dinamismi sociali, permutazioni e ibridazioni politiche a comando. Nell’impossibilità di rifondare il partito con un colpo di bacchetta, dicendo semplicemente: «Siamo sempre stati riformisti, adesso riconosciamolo ufficialmente e niente discussioni per favore», deve inventarsi una procedura infinitamente più complessa e ricca di insidie. Nascerà la Cosa, verrà immaginata la fase costituente. Il segretario si sente in obbligo di rilanciare il partito nel mercato politico, chiedendo i consensi di una vasta pluralità di soggetti: gli ambientalisti, le femministe, i pacifisti, la Pantera, i cattolici democratici. Grazie anche all’abilità del suo staff, che ha capito tutto del ruolo e dell’efficacia dei mass media, ogni giorno viene estratto dal cilindro un coniglio nuovo. Purtroppo però, rispetto a quegli anni formidabili in cui il ciclo di protesta in Italia raggiungeva il color bianco, la società civile si guarda bene dal mobilitarsi. Agli appelli della Cosa non rispondono i Verdi, che hanno già a disposizione non una sola bensì due formazioni politiche; i cattolici si rivelano come sempre anime piuttosto incerte; l’opinione pubblica ha ormai interiorizzato che nel nostro paese il sistema dei partiti è fallito, e si dimostra impermeabile alle promesse di partecipazione evocate dal partito e dal suo segretario. Il richiamo alla sinistra «sommersa e dispersa» va in breve a vuoto. Rispondono soltanto, e non a caso, gli intellettuali. 3. I limiti politici dell’operazione occhettiana erano già ampiamente palesi fin dai primi documenti consegnati alla discussione interna. Se la fase cosiddetta costituente chiamava a raccolta soggetti politici fantasma, l’innaturale mediazione esercitata dalla segreteria tra la vocazione pragmatica e «ministeriale» della destra comunista e il movimentismo «antagonista» della sinistra ingraiana veniva riassunta in un volontaristico progetto di alternativa senza alleati e privo di contenuti: a meno di non voler considerare come contenuti plausibili le emozioni amazzoniche e sahariane esibite quasi a ogni comitato centrale. Ma il risultato più insidioso della seduta collettiva di autocoscienza politica aperta nel Pci dall’estenuante discussione «sul nome e la cosa» è che un’iniziativa che individuava come obiettivo la trasformazione in profondità del sistema politico italiano si è risolta ben presto in una questione teologale da dibattere all’infmito nelle varie sagrestie della Chiesa rossa: dove i rinnovatori si sono trovati a dover fronteggiare la resistenza talvolta vischiosa (sul metodo, sulle procedure) e talvolta aspra e rumorosa (sull’appartenenza, l’ideologia, l’orgoglio di partito, il «bisogno di comunismo») di un partito che troppo ottimisticamente era stato trasfigurato in un’entità moderna, illuminista, non dogmatica. Almeno nella fase iniziale, tuttavia, la Cosa non dispiaceva al mondo della cultura. Cominciavano anzi ad apparire manifesti di sostegno alla svolta occhettiana, lettere pubbliche ricche di firme illustri. Poteva nascere davvero qualcosa di più di un flirt, un amore vero, fra gli intellettuali e la Cosa? Adesso si può rispondere di no, che non era possibile. li Pci si afflosciava, e al suo posto cominciavano a nascere le sette, le detestate correnti. Prendere posizione, in questa fase, era come schiacciarsi sul quotidiano: lo schieramento per Occhetto o contro di lui costituiva una sorta di ennesimo tradimento dei chierici, la rinuncia all’analisi intransigente per entrare nel giochino delle fazioni. E dire che c’era bisogno di un’analisi di lungo periodo della crisi comunista. Invece, la riflessione sul fallimento del socialismo reale è stata estremamente debole, al punto che lngrao, la Rossanda, Magri e tutta l’area del «Manifesto» hanno potuto rivendicare in tutta onestà la primogenitura della critica nei confronti dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti. Certo, Massimo Cacciari, dimettendosi dal comitato editoriale di «Rinascita» con Giacomo Marramao, Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co, aveva condotto la riflessione sul socialismo reale e sulla sua vicenda storica alla conclusioni più estreme e pertinenti. Ci sono guerre, aveva scritto Cacciati nella sua lettera ad Asor Rosa, e alla fine vinti e vincitori. Questa guerra «è finita con la sconfitta totale del movimento comunista. Chiamarsene fuori è patetico». Il Pci ormai da anni «si è trasformato in momento ( … ) di blocco del sistema politico». Si sopportano tutt’ora i danni prodotti dalla «idiozia comunista nel volersi proporre come ‘asse’, ‘sacra’ tradizione, quando il re è nudo fino alle ossa da quindici anni almeno». Ma C acciari costituisce in tutto e per tutto un’eccezione. La media della classe culturale comunista, appena si tocca il vivo delle questioni, sembra inclinare piuttosto verso un’ostinata difesa dei sogni e delle mitologie che hanno come sfondo il comunismo, quel comunismo per lo meno come «orizzonte» o come «tendenza» a cui allude il più carismatico dei refrattari, Pietro Ingrao. A toccare in modo sacrilego il feticcio dell’utopia, a dire che stanno continuando a praticare una falsificazione, i vecchi ragazzi intoccabili della sinistra scattano di ribellione e di indignazione. Franco Fortini, per la violenza retorica, è un capofila di questa pattuglia. Ma fa parte del tono medio anche del comunismo via via più desencantado l’incapacità di rinunciare al sogno ad occhi aperti di una società progettata sulla concezione totalizzante del riscatto. D’accordo, il socialismo leninista si è sgretolato con tutte le sue menzognere promesse: eppure, come si fa a rinunciare all’idea di una salvezza collettiva, oltre il mercato, oltre la mercificazione, oltre l’anonimato del denaro? La difesa oggettiva dell’utopia calata dall’alto, attraverso la considerazione per la verità piuttosto ovvia che le democrazie liberali «non hanno risolto i problemi», non costituisce semplicemente il riflesso condizionato di una condizione individuale messa in crisi dal crollo dell’ideologia; è più verosimile come ipotesi che attraverso un’oscura e tenace resistenza al riconoscimento dell’errore, e quindi al cambiamento, si esprima per molti aspetti la difesa corporativa di un’intera categoria socio-culturale, dei suoi fondamenti di identità condivisa. A partire dai primi anni del dopoguerra, infatti, ha preso corpo nel panorama culturale italiano una specie di società eletta, divenuta in breve ampiamente maggioritaria nel suo campo, che è riuscita ad appropriarsi in larga misura delle leve della comunicazione e della trasmissione del saperè. In tal modo, l’intellighenzia di sinistra ha potuto conquistarsi una sorta di monopolio della verità e rendersene interprete di fronte al paese. Al di fuori dello stereotipo vidimato da sinistra esisteva solo l’errore, se non addirittura l’indecenza, la m alafede, la disonestà. Per decenni, un ceto in sé minuscolo, composto per lo più da famiglie e piccole compagini strettamente intrecciate e animate da comuni frequentazioni, ha preteso di imporre alla collettività italiana i suoi giudizi sulla cultura, su ciò che era giusto, sulle posizioni da prendere, orientando il gusto, gli stili di vita, le valutazioni politiche, definendo e giudicando gli standard intellettuali sul metro delle appartenenze. Questo «pensiero dominante» si è trasmesso per osmosi naturale, attraverso le case editrici e l’università, alle tradizionali fasce intellettuali non accademiche (insegnanti, giornalisti ecc.) creando una realtà sociale chiusa nel cerchio magico delle proprie frustrazioni, intensamente sicura della propria identità, della giustezza delle proprie posizioni e dell’inevitabile erroneità, se non peggio, di chi pensava in modo diverso rispetto alle conformistiche certezze «critiche» di massa. 4. Il peccato originale dell’intellettualità italiana è probabilmente insito in una cultura sostanzialmente elitaria, di fatto aristocratica: quella cultura italiana davvero egemone, composta da pochissime «famiglie», da reti parentali e amicizie, incredibilmente endogamica. Al cui interno riuscivano a convivere alcuni degli amici e dei collaboratori del «Mondo» di Pannunzio e i marxisti «illuminati» di buona educazione; ex azionisti e intellettuali snobisticamente vicini al Pci; gente di teatro, cinema, editoria, giornalismo che intesseva un fittissimo scambio provinciale di favori, recensioni e prefazioni, e poteva emanare approvazioni e scomuniche. Il cemento di questa società di ottimati era l’ autoattribuzione di superiorità culturale e di eleganza morale, senza che simili doti si traducessero mai nello statuto giudicabile ( «contendibile», direbbero gli economisti) di una possibile classe dirigente. Sarebbe di qualche interesse cercare di capire se fu proprio nel nome di un condiviso stile oligarchico che all’interno di questo piccolo ceto poterono convivere tradizioni di pensiero così intrinsecamente conflittuali come quella liberale e quella marxista; e anche domandarsi se la convivenza non divenne in certi casi collusiva subalternità da parte dei liberaldemocratici più arrendevoli. Si può riconoscere senza difficoltà che «dittatura» di sinistra non vi fu, all’interno della sapientissima consorteria intellettuale del nostro paese. Ma resta da spiegare tuttavia come è accaduto che il senso comune della cultura «di sinistra» si sia diffuso egemonicamente nella società italiana fino a diventare il sigillo distintivo delle qualità più alte, il decoro, l’onestà, l’intelligenza. Perché ha conquistato inviati speciali e redattori di case editrici, professori di scuola media e loro allievi, precari dell’università e studenti, colletti blu e colletti bianchi. Per quale ragione insomma la modernizzazione dei ceti medi, cioè il loro adeguamento ai modelli tipici delle democrazie capitalistiche avanzate, è avvenuto sotto il segno di un fortissimo connotato ideologico di sinistra, in opposizione a tutto ciò che odorava di mercato, profitto, efficienza competitiva, riconoscimento e valorizzazione delle risorse individuali. E fino a che punto è giustificato il sospetto che un bilancio con il passato sia insostenibile non perché mette in discussione la storia, bensì in quanto disgrega il complesso di convenzioni su cui è stato costruito uno status. 5. La richiesta di «chiedere scusa», che molti hanno rivolto al Pci durante il 1989, costituiva semplicemente una polizza d’assicurazione contro un rischio molto temuto: e cioè che passata la bufera, sottoposto a maquillage il simbolo del partito, riorganizzata una carta ideologica finalmente presentabile, i vecchi tutori della verità alla prima occasione riprendessero a strillare dai loro pulpiti. Il pensiero che i soliti noti possano pronunciare a un certo punto la fatidica frase «noi l’avevamo sempre detto, avevamo ragione» può lasciare in effetti leggermente atterriti. Eppure qualcosa di simile si è già verificato. Se si rileggono le centinaia di pagine che Achille Occhetto ha prodotto nei dodici mesi della svolta, è pressoché impossibile sfuggire alla sensazione che con quelle frasi e quelle espressioni il segretario del Pci stia nuovamente salendo sulla cattedra: ammonisce, indica la strada, fa lezione. Per la verità ha abbandonato tutto il lessico marxista (al congresso straordinario del marzo 1990, a Bologna, la sua relazione introduttiva non cita mai il filosofo di Treviri), ma non certo l’intenzione pedagogica nei confronti del mondo e dell’opinione pubblica. La dichiarazione d’intenti proposta alla discussione di partito in occasione del cambiamento del nome e del simbolo contiene brani in questo senso assai significativi: il «Partito democratico della sinistra», nel linguaggio del segretario, si propone «di indicare la possibilità della salvezza del genere umano, indicando la via che conduce alla costruzione di un nuovo ordine economico e sociale». Nientemeno. E’ la vecchia ubbia secondo cui senza progettualità non si può vivere: accontentarsi di migliorare il sistema capitalista attraverso riforme adeguate risulta insufficiente rispetto alle enormi aspettative di cui ci si è nutriti. Così come per Antonio Bassolino non si può rinunciare all’idea di «superare» il capitalismo, e per Ingrao deve persistere un orizzonte che contenga ribollenti o surgelati elementi di comunismo, anche per Occhetto il partito post-comunista non può rinunciare al compito di indicare e costruire un «nuovo ordine». Appunto per questo il riformismo deve essere inevitabilmente «forte», le trasformazioni della società radicali: cacciato dalla porta della storia, il Progetto rientra per la finestra. «La stessa ipotesi socialdemocratica – ha scritto Occhetto nella Dichiarazione d’intenti – della mera gestione del potere governativo in funzione di una più equa redistribuzione si trova oggi di fronte a nodi strutturali di dimensione sovranazionale e di tale portata da rendere impraticabili strategie di ‘riformismo nazionale’». Ecco perché è necessario indicare la prospettiva del «governo mondiale», secondo quella iperbolica prospettiva cara al Pci, secondo la quale nessun problema può essere affrontato e nessuna soluzione adottata qui e ora, ma è più opportuno rinviare sempre e comunque a istanze superiori, a organismi e consessi possibilmente planetari. Com’è noto, agli intellettuali i progetti piacciono a dismisura, probabilmente perché ambiscono alla dimensione entusiasmante dell’ideale e non partecipano delle imperfezioni e della caducità del concreto. E in secondo luogo perché l’elaborazione del progetto consente di proiettare nel futuro in conti non fatti con il passato. 6. Se c’era un compito con cui l’intellighenzia vicina al Pci doveva misurarsi, era la stesura di un giudizio storico adeguato sui settant’anni di comunismo dalla Rivoluzione d’Ottobre ad appena ieri. Non si direbbe di aver sentito voci particolarmente significative sul tema. E pazienza per il segretario, che nei documenti ufficiali di partito deve limitarsi a stendere un referto burocratico, che sterilizza il fallimento delittuoso nell’Europa dell’Est in brevi analisi premurose di concludere che la colpa maggiore del socialismo reale è consistita nell’aver stuprato gli ideali purissimi della sinistra: «Le diverse forme di collettivismo burocratico di Stato hanno finito così per negare gli ideali del socialismo e per arrecare un danno inestimabile a tutte le forze che vogliono, come noi, mantenere aperta la via al rinnovamento della società». In realtà la questione che si pone oggi in tutta Europa, e quindi a maggiore ragione in Italia, date le dimensioni anomale del partito comunista locale, non riguarda soltanto l’eventuale risarcimento di danni morali che le sinistre potrebbero chiedere ai partiti comunisti dell’Europa orientale per avere essi mortificato le nobili ragioni della sinistra. Oggi, dopo la sensazionale fine della guerra civile europea, si fa strada un giudizio storico, politico e soprattutto morale che ha come unica fondamentale conclusione l’equiparazione del nazismo e del comunismo. Ciò non vuoi dire, ha spiegato Ernesto Galli della Loggia, «che fascismo e comunismo siano stati la stessa cosa. Vuoi dire che entrambi hanno rappresentato una minaccia egualmente grave per la libertà dei popoli d’Europa, che entrambi si inserivano entro concezioni dell’uomo e della società egualmente ostili ed inconciliabili rispetto a quelle della democrazia liberale. E che dunque, senza un eguale ripudio dell’uno e dell’altro, sull’esempio di quanto avvenuto da almeno mezzo secolo nell’universo ideologico anglosassone, non vi può essere alcun approdo storicamente stabile ad un regime politico che garantisca un livello decente di libertà». Non si può voltare pagina e promettere che il prossimo capitolo sarà migliore. Se c’è un aspetto che Occhetto, i professorini del Sì, gli intellettuali favorevoli alla Cosa, harmo voluto fermamente dimenticare è che le identità non si fabbricano con gli occhi speranzosamente rivolti al futuro e alle sue promesse, ma sono determinate obbligatoriamente dal passato. L’angelo di Walter Benjamin dovrebbe pure avere insegnato qualcosa. E nel passato del movimento comunista, come si è potuto osservare dopo l’apertura degli archivi all’Est, c’è di che coinvolgere anche il Pci, nonostante le strenue difese della sua peculiarità tutta italiana. Sino alla fine di gennaio, quando entrerà nel vivo il congresso del partito, non sapremo se il Pci sarà riuscito a trasformarsi effettivamente nell’annunciato «Partito democratico della sinistra». Ma in ogni caso sembra di poter notare che finora il prezzo pagato è stato eccessivamente basso. Troppe volte Occhetto, i suoi alleati e i suoi avversari interni hanno potuto allineare nei loro pensosi ragionamenti la bancarotta del totalitarismo sovietico con i problemi strutturali e congiunturali delle socialdemocrazie e delle liberaldemocrazie occidentali; troppe volte si è assistito alla declamazione di idealità future sottratte a qualsiasi vincolo di verificabilità. Sarebbe ora di ricordare, ormai senza nessuna asprezza, che non c’è metamorfosi senza una profonda catarsi.

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