gli articoli Il Mulino/

L’ultima recita dei partiti

11-12 1991
l'anno scorso a Marienbad / 1

Un’atmosfera da ultima spiaggia si è diffusa durante il 1991 nel nostro Paese. È stata stupefacente e brutale la rapidità con cui la tendenza generale si è rovesciata. Il passaggio dal clima di festa collettiva degli anni Ottanta ai poveri saldi di fine stagione dei Novanta ha fatto mozzare il fiato, e ha riportato in primo piano il plumbeo clima dei tempi della stagnazione. Sono bastati pochi mesi, a partire dalla guerra del Golfo, perché quasi tutti gli indicatori economici assumessero un segno negativo; la cattiva congiuntura mondiale ha cominciato ad assomigliare minacciosamente alla recessione; i timidi segnali di ripresa nel corso dell’anno sono apparsi via via più contraddittori e deludenti. Alla fine, la situazione italiana si è configurata come una perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma politico pericolosamente vicino al collasso del sistema. Quel che forse è peggio, l’idea che l’Italia è un malato terminale si è diffusa irresistibilmente, permeando la collettività con quella che si potrebbe chiamare senza retorica una cultura del pessimismo. Aspettative tutte di carattere negativo sono divenute l’unico orizzonte visibile. Non è un caso che lo scrollone più appariscente, quello che è sembrato innescare l’alterazione di un sistema di equilibri ampiamente collaudati, sia venuto dai settori geneticamente filogovernativi, quelli dell’imprenditoria e dell’industria. Ma diverse altre linee di crisi, svariate linee di faglia di possibili sconvolgimenti tellurici, si erano manifestate sul piano politico con cruda nitidezza nel corso dell’anno. Il primo bruciante caso di shock politico si è registrato ovviamente con il referendum sulla preferenza unica alla Camera svoltosi il 9- 10 giugno. A distanza di tempo, e quindi dopo avere assistito a mente fredda al modo in cui la «repubblica dei partiti» è riuscita finora a metabolizzare l’esito referendario, a ingoiare il rospo senza per il momento strozzarsi, il festoso plebiscito della primavera scorsa, quel 95,6 per cento dei votanti che ha detto «sì» alla liquidazione del sistema delle preferenze, sembra assumere le spoglie definitive di una solo tempora nea rivincita, o vendetta, politica dei cittadini sui corridoi romani, sulle auto blu, sulla prevaricazione esercitata per via tangentizia o captando il consenso per via spartitoria e concessione monetaria. In ogni caso, a voler seguire lo schema iper-razionale che di solito viene applicato alle scelte elettorali espresse dall’opinione pubblica, se ne poteva dedurre che di fronte allo schiaffo di giugno i partiti avrebbero dovuto cercare di proporre come minimo una finzione riformatrice, per non esporre se stessi al rafforzamento dell’accusa che li bolla come agenti tutt’altro che segreti dell’immobilismo: altrimenti il capo di imputazione di miopia, insensibilità, chiusura, manipolazione della volontà popolare ne sarebbe disceso fin troppo naturalmente. Inutile dire che non è stato così. Come forse si ricorderà, il primo a cercare di mettersi in tasca l’attraente patrimonio politico del referendum fu il presidente della Repubblica: a poche ore dall’esito del voto popolare, Francesco Cossiga si presentò alla televisione di Stato, sostenendo con un certo inatteso vigore due tesi piuttosto discutibili, una probabilmente tattica, l’altra forse di maggiore portata. Secondo la prima tesi, il risultato del referendum e il conseguente cambiamento delle regole elettorali poteva delegittimare retroattivamente la Camera dei deputati (e fin qui si poteva semplicemente sospettare che le parole del capo dello Stato facessero parte di quella trama di dispetti e cattive relazioni che ha contrapposto il Quirinale e l’attuale Parlamento in questi ultimi due anni di legislatura). Invece la seconda argomentazione presidenziale era più capziosamente suggestiva, più insidiosa, e poteva prospettarsi nelle sembianze di una strategia sofisticata e ambiziosa. Dalla soluzione referendaria, infatti, il presidente della Repubblica faceva discendere immediatamente, come conseguenza automatica e necessaria, che il destino delle riforme istituzionali dovesse imboccare una strada plebiscitaria, praticata a colpi di consultazioni dirette del «popolo sovrano». Si trattava ancora una volta di una proposizione intrinsecamente discutibile, dal momento che, anche in una fase di tipo costituente, niente vieterebbe che proprio i partiti si presentassero tradizionalmente all’elettorato, ognuno chiedendo il consenso sulla base delle rispettive ipotesi riformatrici. E dunque l’indicazione accuratamente tempestiva della via referendaria per consentire ai cittadini di decidere «direttamente e immediatamente» sulle modalità della trasformazione istituzionale non costituiva affatto un dogma democratico. In quel momento, anzi, il sillogismo del capo dello Stato appariva soprattutto come la sponsorizzazione di progetti di parte, e non era molto difficile individuare quella parte nel Psi, e i progetti costituzionali nel presidenzialismo craxiano. I passi successivi dell’azione presidenziale sembravano confermare la consapevolezza di un disegno, non del tutto precisato ma per sommi capi intuibile. Tanto per cominciare, il messaggio del capo dello Stato sulle riforme istituzionali, più volte annunciato, rinviato, limato assiduamente, ma in buona sostanza ispirato alla scelta che a «convalidare, ratificare o scegliere» la costituzione della Seconda Repubblica fosse l’immancabile «popolo sovrano», piombava sulle Camere proprio alla vigilia del congresso straordinario socialista di fine giugno, confortando un Bettino Craxi reduce dalle due pesanti sconfitte al referendum sulle preferenze e alle elezioni regionali siciliane della settimana successiva, ma sempre convinto di poter restare ancorato alla propria scommessa, secondo cui esisterebbe una distanza crescente fra la maggioranza del Parlamento, legata a criteri di tipo rappresentativo, e la maggioranza dell’opinione pubblica, qualificata da una vocazione presidenzialista mortificata dalla resistenza vischiosa dello schieramento dei partiti. Si dà il caso, tuttavia, che in politica non tutti i conti tornino automaticamente: «Ai quadrati di De Mita – esemplificò una volta Giulio Andreotti a proposito di una presunta determinatissima volontà democristiana di "fare quadrato" contro gli avversari – manca sempre un lato»; a Cossiga e a Craxi erano destinate a mancare le condizioni che avrebbero potuto dimostrare l’esistenza in Parlamento di uno scontro così forte, di una divisione talmente lacerante da poter giustificare il ricorso alla sanzione dirimente della volontà popolare. Il presidenzialismo sarà pure maggioritario nell’opinione pubblica, ma in Parlamento risultò fortemente minoritario. Di fatto, la prospettiva delle riforme istituzionali, riaccesa nelle aspettative generali dalle cifre parlanti del referendum, sfumava tristemente, almeno per questa legislatura, per schietta responsabilità dei partiti, proprio nel pieno del dibattito alla Camera sulle 86 cartelle del messaggio presidenziale. È stato il segretario del Partito democratico della sinistra, Achille Occhetto, a contribuire a questo risultato, mentre si proponeva di tendere volonterosamente la mano al Psi: «Non solo non stiamo preparando accordi strategici con la Dc – affermò Occhetto nel suo intervento – ma anche per quanto riguarda la legge elettorale ci presentiamo con una prospettiva completamente diversa da quella che si configura attraverso la proposta democristiana». In realtà, si trattava di una tesi avanzata per banali questioni di politica politicante, dal momento che invece, a giudizio della quasi totalità degli osservatori, i progetti riformatori della Dc e del Pds apparivano, se non certamente identici, perlomeno analoghi, ispirati da una medesima logica di fondo. Si comprese in quel momento, senza neppure troppa sorpresa, che per l’ennesima volta al segretario del Pds non interessava tanto affermare un’ipotesi di riforma coerente ed efficace, funzionale a tutto il sistema politico, ma soltanto richiamare sentimentalmente «le ragioni della sinistra», e quindi rammendare a parole il consunto vestito dell’alternativa entro l’immaginario atelier in cui si confezionano le mitologie politiche italiane. Per dirla tutta, il neonato Pds immolava senza contropartite, con un atto di generosità non richiesto, il suo progetto di riforma sull’altare dell’alternativa di sinistra; come compenso di questo imprevidente olocausto ricavava il consueto miraggio del «disgelo» con i socialisti. Senza minimamente pensare, o perlomeno senza valutare fino in fondo, che l’unica leva che può realisticamente fare scattare l’alternanza, nel nostro sistema politico, è solo ed esclusivamente la riforma elettorale. Come conseguenza, alla fine della estenuante discussione parlamentare sul pensiero istituzionale di Francesco Cossiga, il tema delle riforme era ricondotto definitivamente entro le regole non auree ma certamente classiche del mercato e soprattutto del mercanteggiamento politico: Craxi contro la Dc, a cui aveva segnalato con vigore che il perseguimento della proposta fondata sul Cancellierato e il premio di maggioranza sarebbe stato recepito come la volontà di considerare esaurito il ciclo ormai trentennale di collaborazione con i socialisti; isolata drammaticamente l’ipotesi presidenzialista, con il presidente della Repubblica affiancato soltanto dal Psi e dal Msi; erratico e incerto il Pds, in bilico faticoso fra l’ossequio formale al principio della rigidità costituzionale (e quindi favorevole a un moderato revisionismo della costituzione), e le evasioni di fantasia a sinistra, che impongono di prendere in debita considerazione la volontà socialista di passare con uno spettacolare salto istituzionale alla Seconda Repubblica. In questo ritorno della tematica istituzionale dentro la contrattazione politica c’erano tutte le condizioni per capire che ormai la macchina politica italiana era divenuta un ferrovecchio frenato dalle proprie ruggini, in cui ogni manovra sui comandi portava solo all’aumento dei giri del motore senza alcuna conseguenza che non fosse un rumore sgangherato; qualsiasi tentativo di accelerazione provocava soltanto il surriscaldamento delle parti più esposte e usurate. Ma si dispiegavano anche diversi indizi, piuttosto coerenti a volerli leggere tutti insieme, che dovevano risultare vagamente ma sensibilmente destabilizzanti per la psicologia politica che regna nella penombra dei corridoi romani. Per la prima volta dall’avvio del centrosinistra si ponevano le condizioni e il problema dell’interruzione del rapporto fra la Dc e il Psi. Non un incidente di percorso, come accadde con l’Andreotti-Malagodi nel 1972-73, un breve ritorno al centrismo, e neppure la sostanziale perdita di peso governativo del Psi (un Psi drammaticamente sotto il 10 per cento dei voti) durante la vicenda della solidarietà nazionale con i comunisti nel 1976-79, ma una vera e propria questione di fondo, lungo la quale l’equilibrio politico del nostro Paese potrebbe essere alterato in termini strutturali. Le conseguenze del surplace che da questa constatazione è seguito fra i due maggiori alleati di governo ha avuto conseguenze nefaste sulla qualità dell’amministrazione. Occorrerebbe essere ciechi per non osservare che l’ultimo governo Andreotti ha come base di sopravvivenza una sola e sovrana regola: non toccare nessun nodo politico che esca dall’immediato. Lo si era notato fin dal momento della sua formazione, quando la questione istituzionale, che era stata posta (o imposta) dal presidente della Repubblica al centro della trattativa per la formazione dell’esecutivo, all’ultimo momento era stata «sfilata» e rimandata a tempi migliori, dato che sull’argomento non esisteva la minima possibilità di accordo fra i due partner principali della maggioranza. L’immobilità costituiva quindi una connotazione per così dire costitutiva dell’alleanza. Caso o necessità, infatti, la medesima trionfante tecnica è stata usata nei giorni convulsi che hanno portato alla redazione da parte del governo della legge finanziaria; l’unica manovra strutturale che avrebbe dovuto affiancare la legge di bilancio, vale a dire la riforma del sistema pensionistico, è stata messa da parte, dopo un’opposizione del Psi in cui molti hanno visto il peso decisivo di valutazioni di stampo elettoralistico. In termini di bassa cucina politica, è lecito pensare che alla fine il «no» socialista al progetto del ministro del Lavoro Franco Marini avesse fatto comodo anche ai democristiani (le pensioni costituiscono un argomento che brucia, sotto elezioni), come pure che il Psi avesse scommesso su un definito calcolo politico, secondo cui nessuna decisione di un certo peso va presa da un governo che non sia contrassegnato da un più distinguibile marchio socialista. Dunque si deve rilevare che una percepibile linea di crisi passa dentro il centrosinistra. Craxi tiene il Psi nell’esecutivo, ma solo per l’obbligo morale di «assicurare la governabilità». Nello stesso tempo, cresce il risentimento del Psi verso metodo e stile di Andreotti (lo si è visto benissimo nel corso del congresso straordinario barese, con la platea dei delegati che invocava una netta sterzata a sinistra). Da parte democristiana, analoga acredine viene nutrita verso l’alleato, insieme con il disagio provocato dal diffondersi di un umore politico che vede nella Dc il «regime», l’intreccio istituzionalizzato di corposi interessi clientelari, di grandi corporativismi garantiti politicamente, oltreché di minimi privilegi distribuiti a pelle di leopardo per ancorare l’opinione pubblica al consenso. Ma ci sono anche aspetti meno soggettivi che accentuano la tendenza all’instabilità: la fine del pregiudizio ideologico verso l’ex Pci esalta la fluidità del sistema politico; e se è vero che la politica, come la natura, ha orrore del vuoto, sul fronte di sinistra si apre un arco di opportunità politiche inedite, dovute al fatto che in prospettiva le formule delle alleanze di governo non appaiono più dettate implacabilmente da dogmi politico-ideologici stringenti. Finiscono le dighe, le rendite, ma finiscono anche le formule di coalizione obbligate. In sostanza, almeno fino a settembre siamo di sicuro entro una situazione caratterizzata da una immobilità parossistica, ma le vie d’uscita appaiono ancora praticabili. Tutto potrebbe ancora essere giocato en politique, se i protagonisti della politica decidessero di assumere una iniziativa. Ma non lo fanno. La classe politica italiana sembra assoggettarsi senza resistenza a due spinte esattamente opposte, l’istinto di conservazione e un’oscura volontà di autoannientamento. Mentre cominciano a cedere a uno a uno i pilastri che avevano sorretto l’evoluzione politica del Paese e accompagnato il suo sviluppo socio-economico, comincia all’improvviso ad allentarsi anche il patto che aveva unito gruppi d’interesse e partiti di governo. A metà settembre, il «partito dell’industria » alza il tiro cominciando a bombardare il quartier generale: fa sapere che ormai l’apparato industriale non riesce più a tollerare i costi del disfunzionamento. L’amministratore delegato della Fiat, Cesare Romiti, evoca la necessità di un imprecisato trauma, che possa schiodare il meccanismo politico. Eppure, benché i toni confindustriali diventino via via ultimativi, non si sente circolare una sola parola sul «come» l’attacco alla paralisi governativa possa tradursi in una spinta al cambiamento. La diagnosi fa aggio come sempre sulla terapia. Dal punto di vista del «regime», in assenza di indicazioni concrete, la storia degli ultimi decenni, da parte sua, autorizza a pensare che l’irritazione imprenditoriale non sia molto più che un episodio; malgrado infatti le ricorrenti lamentele delle associazioni imprenditoriali, che hanno costituito una sorta di basso continuo nella vicenda repubblicana, l’esperienza italiana è stata segnata da un accordo sostanziale fra ceto produttivo e classe di governo. Nulla di strano, com’è ovvio in una società avanzata. Dietro la parola d’ordine della ripartizione di competenze, «l’industria agli industriali, la politica ai politici», si è dispiegato un tavolo in cui si sistemava l’intreccio degli interessi comuni: gli industriali contrattavano sgravi fiscali, misure di sostegno agli investimenti e all’innovazione, politiche monetarie favorevoli alla competitività dei prodotti italiani, cassa integrazione e prepensionamenti, e i politici ricevevano un contributo diretto e indiretto dell’industria al mantenimento del sistema di consenso su cui si è basato il nostro Paese. La chiave di questo matrimonio d’interesse era data dalla premessa di perpetua immutabilità degli equilibri politici. In una convivenza obbligata, è opportuno ridurre al minimo l’intensità dei conflitti, e la mediazione, in una democrazia bloccata, diventa la regola primaria. Ma se la situazione si fa all’improvviso più fluida, in sé e per sé non ci sono più ragioni decisive perché il patto storico venga rinnovato come è sempre tacitamente stato rinnovato finora, insomma perché venga rinnovata gratuitamente la cambiale alla costellazione di potere fondata sulla Dc. Fino a pochi mesi fa, il sistema politico era irrigidito dall’inutilizzabilità del Pci. Oggi è ingessato dall’assenza di alternativa. Il «trauma» elettorale atteso e quasi auspicato da Romiti, come pure altre espressioni critiche verso il regime partitocratico, finisce inevitabilmente per precipitare entro l’assurda perfezione del congegno politico così com’è: un eventuale shock provocato da un voto di protesta significherebbe la crescita abnorme dell’ingovernabilità; il ricambio viene impedito dalle rigide norme di autoriproduzione che regolano l’esistenza dei partiti. La drammaticità della situazione politico-economica consiste allora nella somma di due fattori di segno negativo: da un lato c’è l’impossibilità di trasferire al livello della decisione politica le scelte essenziali per orientare nuovamente allo sviluppo la società italiana, in quanto il sistema dei partiti negozia ogni istanza smembrandola fino alla dissoluzione; dall’altro lato fa sentire i suoi ipnotici effetti l’incapacità di allestire quello schema di competitività politica, proprio delle democrazie adulte, che è l’alternanza. Tuttavia ciò che risulta alla fine più preoccupante è che in Italia non si sta combattendo una facilmente identificabile partita manichea fra i buoni e i cattivi. Il «contratto» stipulato nel tempo fra amplissime fasce sociali e la classe politica di governo è sempre operante, ed è basato su una generosa redistribuzione senza contropartite (attraverso i titoli di Stato, gli stipendi pubblici, il regime previdenziale, cioè attraverso una creazione fittizia di ricchezza e benessere) che ha colpito al cuore le regole fondamentali a cui dovrebbe attenersi una collettività. Sarebbe ingenuo non registrare che gran parte della società italiana è divenuta in tal modo speculare alla classe politica, perfettamente «irresponsabile» di fronte a se stessa, incapace di accettare il profitto come indicatore della buona imprenditorialità allo stesso modo in cui non sa più concepire lo stipendio pubblico come il corrispettivo di una prestazione, bensì solo come una erogazione automatica o un diritto dovuto. Date queste condizioni, comincia piano piano a chiarirsi il paradosso tipicamente italiano che vede un sistema allestito pezzo su pezzo per rastrellare consenso attraverso la magia della redistribuzione raccogliere alla fine il maleficio del disprezzo e del rancore dei beneficati; ma si ha l’impressione che i partiti di governo non siano nemmeno in grado di elaborare la risposta della protervia: cioè, state zitti voi, che ci avete guadagnato abbondantemente. Ascoltare il segretario della Dc Arnaldo Forlani che parla delle prospettive italiane equivale a un’overdose di Valium, che tuttavia non riesce più a risultare rassicurante. Tutto si intorpidisce, e il crampo della politica produce asfissia e spasmi tetanici. Il famoso disgelo a sinistra, atteso a ogni primavera per convogliare in una forza di governo i fiumiciattoli riformatori, si rivela come sempre un’illusione; l’azione degli altri partiti, se si esclude l’exploit contestatore di La Malfa, sul quale ritorneremo, è ininfluente. Così, durante il lungo autunno del ‘91, il rivolo del mugugno diventa un torrente impetuoso, lo sgocciolio della protesta una cascata. In novembre, a Brescia, le elezioni amministrative, convocate dopo una spaccatura all’interno della Dc che aveva reso la città ingovernabile, danno luogo a un risultato che appare immediatamente come il paradigma futuro e finale della dissoluzione del sistema politico. Anche se per poche decine di voti, la Lega lombarda diventa il primo partito. Perdono tutti i grandi partiti, Dc e Pds evaporano. Non si tratta più dei soliti «campanelli d’allarme», come per anni i giornali hanno titolato dopo le elezioni non appena aumentava l’astensionismo o qualche altra leggera forma di protesta. Quella di Brescia non è una febbricola, è potenzialmente una malattia letale. Il pensiero che alle prossime elezioni questo risultato possa essere duplicato su scala nazionale dovrebbe fare scattare le oligarchie di partito, indurre all’invenzione di contromisure. E invece, come al solito, sotto la paura niente. In Parlamento la discussione sulla legge finanziaria continua a rivelarsi quella trafelata disavventura fatta di ricerca di fondi attraverso misure come minimo problematiche e di assalti alla diligenza che era stata annunciata con largo e sconsolato anticipo. Sul piano delle contromosse politiche, il Psi propone nuovamente la soglia di sbarramento al 5 per cento (con una serie di correttivi piuttosto complicati), che tutti interpretano come un provvedimento ad personam contro il senatore Bossi. Tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, la Democrazia cristiana tiene dopo dieci anni una nuova conferenza programmatica, nella quale la riorganizzazione del partito viene modulata in chiave (auto)illusionistica, come se esistesse ancora un terreno comune fra partito e società. Il Pds, in assenza di una politica, si attesta su un ruolo di difesa della legalità costituzionale minacciata dal presidente della Repubblica, e apre la controversa e discutibile (e contestata di fatto anche a Botteghe Oscure) pratica dell’impeachment contro Cossiga. Siamo paurosamente vicini al risultato definitivo della politica afflosciata su se stessa, implosa, pronta a precipitare nel collasso che la ridurrà a materia amorfa. Eppure qualcosa si muove. Si possono vedere almeno tre novità politiche di un certo peso: in primo luogo, anche per la sua platealità, il ruolo assunto dal presidente della Repubblica; poi, la posizione in cui si è collocato il Pri di Giorgio La Malfa; e infine la coalizione referendaria, che sta maturando una trasversalità inattesa e assume dimensioni e livelli di consenso inaspettati. Cominciamo dal Quirinale. La contabilità politica dice che il capo dello Stato, sotto il profilo politico, è da tempo uno sconfitto. Teneva a liquidare il Parlamento attuale, verso cui non ha perso occasione di manifestare la sua ostilità, e non c’è riuscito. Ha puntato alle elezioni anticipate, e invece la legislatura ha resistito. Ha cercato di fare saltare Andreotti imponendo una crisi di governo centrata sui temi costituzionali, e ha dovuto sopportare sia la formazione claudicante dell’Andreotti settimo sia che le riforme istituzionali venissero «sfilate» dagli accordi che hanno portato all’ultimo governo. Ha tentato di scuotere la scena con il messaggio alle Camere sulle istituzioni, e il risultato finale ha visto le ipotesi della Seconda Repubblica e del presidenzialismo confinate in una limitata minoranza del Parlamento. Ha varato l’operazione Curcio, cioè la soluzione di una grazia politica verso il fondatore delle Brigate rosse per chiudere i conti con le ombre del passato, provocando la ribellione non solo della classe politica ma soprattutto di quella «gente comune» a cui Cossiga ama riferirsi contro le oligarchie del potere. Il suo poker contro la corporazione dei giudici, che avrebbe potuto guadagnargli un piatto politico di eccezionale rilievo, è stato dissipato per la sua incapacità di uscire dalla logica della denuncia tonitruante e di stringere con pazienza alleanze ragionevolmente fruttuose. Non si è ancora capito del tutto che cosa abbia indotto il presidente, dopo cinque anni da notaio, a trasformarsi nel grande esternatore. Chi sottolinea il suo continuo oscillare fra pathos e prudenza, fra insulto e riconciliazione, fra attacco a freddo e successiva pacificazione ha considerato la frenetica loquela di Cossiga o come un caso psicologico (il che non ha alcun rilievo politico), oppure come una serie clamorosa di infrazioni del galateo politico. Tuttavia sarebbe una sottovalutazione consegnare l’uomo del Quirinale al puro folklore. Tanto più che, preso di per sé, il contenuto di molti pronunciamenti presidenziali è ampiamente condivisibile. E dunque occorrerebbe cercare di capire se esiste da parte dell’uomo politico Francesco Cossiga – non del suo alter ego che si dedica allo spettacolo – un disegno razionale che non sia stretto calcolo difensivo (alzare il polverone per esorcizzare i fantasmi che gli sono stati evocati contro come Gladio, il Piano Solo, la P2) né attribuibile ad alti e bassi dell’umore, né dovuto a un’urgenza di comunicare così spasmodica da abbattere le formalità della carica che ricopre. Se fosse uscito dal Quirinale dopo un settennato incolore, Cossiga sarebbe rientrato nei ranghi democristiani confinato in un notabilato senza gloria. Può darsi che in passato abbia nutrito qualche speranza di raddoppiare il mandato, cosa che oggi sarebbe impossibile senza accettare candidature e investiture vagamente imbarazzanti come quelle espresse sui manifesti pubblicitari dal Movimento sociale. Ma i mesi vissuti pericolosamente da «Externator», nonostante la «catastrofe stilistica » che gli è stata ripetutamente rimproverata, devono averlo convinto che il suo destino è tutto nella politica, altro che ritornare alla polvere degli studi universitari. Prima ha nutrito un rapporto simbiotico con il Psi, che però, pur facendogli continuamente da supporto, ha via via maturato una posizione di prudenza. Poi ha avviato una strategia di aggressione spregiudicata contro quello che chiama «il mio ex partito», cioè la Dc. Ormai potrebbe importare poco delle ragioni per cui il Cossiga presidente parla e agisce come ci ha abituati; forse sarebbe più interessante giudicare le sue azioni e le sue parole come le premesse di una sua nuova avventura politica. Non senza qualche ragione, benché suffragata soprattutto dagli effimeri dati degli indici televisivi di popolarità e dalle ambigue cifre dei sondaggi, egli si sente sorretto da un ampio consenso popolare. Intravede un proseguimento di carriera che lo sottrarrebbe all’anonimato politico. Forse non ci si dovrebbe stupire più di tanto se dal Cossiga presidente dovesse nascere il Cossiga capo-fazione. Potrebbe diventarlo addirittura di una nuova corrente democristiana, se cambiasse nuovamente idea sul partito da cui proviene e decidesse di scuoterlo dall’interno; ma anche fuori dalla Dc, come emulo populista di Leoluca Orlando in un movimento dai pronunciati caratteri antisistema e antipartito, o in una sorta di «Rassemblement du peuple italien» che si proponesse di coagulare la protesta in chiave cripto-gollista. Ma per giungere a una soluzione di questo genere (che forse potrebbe risultare non implausibile dato il tifo calcistico che riscuote ormai il «partito del piccone»), per sciogliere il tortuoso rapporto di amore-odio per la Dc, occorre appunto la determinazione di passare decisivamente, come Cossiga ebbe a dire una volta, «dalla commedia al dramma, dalla farsa alla tragedia», e finora invece abbiamo conosciuto soltanto il Cossiga a giorni alterni, oggi che promette di non firmare il decreto che prolunga l’attività della Commissione stragi, domani che all’ultimo minuto appone la firma, oggi volutamente a un passo dalla farsa, domani rischiosamente in bilico sulla tragedia. Per ora si può solo registrare che si è di fronte a una rappresentazione a sipario strappato, senza fine, in cui il capocomico fa vedere agli spettatori la mediocrità dei trucchi che animano la commedia. Un secondo fattore con ragguardevoli connotati di novità, nel corso di questa anonima crisi, è l’inedita posizione assunta dal Partito repubblicano. Giorgio La Malfa era uscito tempestosamente dalla compagine di governo proprio nel momento in cui Giulio Andreotti stava per annunciare la composizione del suo settimo gabinetto. I giudizi della prima ora avevano posto in rilievo che il ritiro della pattuglia repubblicana dall’esecutivo e dalla maggioranza nasceva impreparato, dal momento che era il frutto di un calcolo politico interno al Pri (centrato sulla sostituzione di Oscar Mammì al ministero delle Poste), che avrebbe determinato senza dubbio ripercussioni a cascata sulla situazione politica, ma appariva ancora dettato da una situazione contingente. Nei primi tempi dopo il ritiro dal governo, le valutazioni sulla decisione assunta dal segretario repubblicano erano state piuttosto dibattute, e la controversia si era sviluppata anche all’interno del partito. L’«opposizione di centro» inventata da La Malfa era apparsa eccessivamente estemporanea per il partito a più forte vocazione governativa presente in Parlamento. Secondo alcuni, per il Pri sottrarsi al compito di governare poteva equivalere di fatto a un’abdicazione politica. E invece almeno per ora il progetto elaborato a posteriori da La Malfa sulla trama di equivoci dell’Andreotti settimo sembra attrarre consensi e guadagnare peso. Ciò si è verificato a Brescia, dove la contestazione repubblicana nei confronti della Dc è risultata pagante; ma soprattutto è opportuno prendere atto che la guerriglia che La Malfa conduce contro il governo, soprattutto a colpi di interviste giornalistiche, in qualche forma e misura intercetta l’insoddisfazione espressa dalle organizzazioni degli imprenditori, dall’Italia che si richiama ostentatamente a criteri di onestà, da quel mondo insomma che ha sempre guardato al Pri come custode di quel tanto di rigore amministrativo che era residualmente possibile nel clan della contrattazione. Nelle ultime settimane, La Malfa e Bruno Visentini hanno tentato più volte di puntare forte su una roulette politica ancora in movimento, formulando l’auspicio che il governo del Paese possa essere assunto da un governo di competenti, capaci, onesti. Il segretario ha addirittura manifestato l’opinione che il Pri potrebbe dissolversi in un più ampio schieramento alternativo, capace di sfidare il «regime» per consegnare l’Italia in mani più efficienti. Come per miracolo della dimenticanza si è ricominciato a parlare del fantomatico «partito degli onesti», dimenticando per l’ennesima volta che nessuna alternativa realistica si può costruire su fondamenta extrapolitiche. Si è anche dimenticato, solo per citare ad esempio uno degli onesti più sovente evocati, che Norberto Bobbio ebbe a definire più volte il partito degli onesti come una «truffa reazionaria». Si deve anche segnalare che l’ipotesi «ideologica» su cui La Malfa ha scommesso nel lungo periodo è assolutamente eroica, ed è fondata sulla spaccatura in due tronconi del sistema politico italiano, da una parte coloro che si riconoscono nel mercato (e quindi in criteri di efficienza, compatibilità economica ecc), e coloro che invece sono legati a principi e umori di tipo populistico: eccellente sul piano della astrazione, per essere calata nella realtà questa idea strategica dovrebbe essere confortata dalla simultanea spaccatura in due blocchi della Dc: un’ipotesi che anche in questo momento continua a prospettarsi scarsamente plausibile. Su basi più realistiche, è ragionevole aspettarsi che la grande fuga di La Malfa dalla Dc possa portare al Pri qualche punto percentuale alle prossime elezioni politiche, ma è assai dubbio che possa catalizzare uno schieramento di alternativa. Il terzo caso di contestazione interna al sistema dei partiti viene dal fronte referendario. Il Comitato Segni, sulla scia della grande vittoria riscossa il 9-10 giugno, incarna la volontà di porre fine al sistema consociativo, alla lunga stagione trasformista prodotta dal sistema elettorale proporzionale; il Comitato Giannini aggredisce più direttamente l’occupazione partitocratica dell’economia. Ma ciò che sembra farsi più evidente di giorno in giorno sul piano generale è che l’esperienza referendaria tende irresistibilmente ad assumere una forma che prelude a un più diretto coinvolgimento nella lotta fra i partiti. Sono state formulate esplicite proposte affinché lo schieramento che promuove i referendum possa diventare una forza politica trasversalmente antagonista alle vecchie e compromesse forze politiche. Anche in questo caso, il progetto di un partito dei referendum sarebbe più o meno un’assurdità, considerata l’amplissima varietà di posizioni politiche presenti nello schieramento referendario, e concordi soltanto sul tentativo di sbloccare i cardini del sistema facendo leva sulla consultazione popolare. Tuttavia il successo del fronte referendario, sia di critica sia di pubblico, tanto fra le aristocrazie quanto a livello popolare, appare comunque innegabile. Ma anche se gli obiettivi di Segni e Giannini appaiono ragionevoli e condivisibili, lo spettacolo schizofrenico di un’Italia buona e onesta che attende ansiosamente i referendum, separata dall’Italia maligna dei partiti, chiusa nel proprio irriducibile mutismo e dedita alle proprie perfide liturgie, risulta ancora una volta irrealistica. Un gioco delle parti tipicamente da società di corte fa sì che i salotti dell’alta borghesia milanese si aprano ai promotori dei referendum. Ma se è concesso formulare un’ipotesi consapevolmente impopolare, si può prevedere che non sarà l’incongruo partito trasversale dei referendum a modificare la situazione politica e a riportarla su un sentiero di razionalità, a costituire la nuova maggioranza o la nuova opposizione. Dai referendum elettorali dobbiamo aspettarci solo (ed è già moltissimo) una vigorosa spallata alle regole attuali, e un impulso fortissimo a una riforma complessiva delle istituzioni. Invece, e non si scappa, la questione politica dovrà essere elaborata politicamente. Non sarà la Lega nazionale vagheggiata da Eugenio Scalfari, non sarà l’improbabile partito degli onesti, non sarà il supergoverno dei tecnici a trarre la politica italiana dalle secche in cui è incagliata: ammesso che ne siano capaci, saranno ancora una volta i partiti, o nessun altro. Numerosi indizi e molti dati di fatto lasciano pensare che i partiti politici italiani non abbiano ancora assorbito completamente l’ondata d’urto provocata dalle rivoluzioni del 1989 e dalla decomunistizzazione nell’Europa centrale e orientale. Nel momento in cui l’Unione Sovietica si dissolve e ogni residuo ideologico viene estinto, il Pds si ritrova finalmente come un partito davvero «nuovo», purificato magari senza troppo merito dal peccato originale leninista; e di conseguenza vengono necessariamente a cadere gran parte delle convenzioni politiche che hanno retto il nostro sistema, a partire dalla prima e fondamentale: vale a dire la scelta di parte anticomunista, che ha inciso in profondità tutta la vicenda repubblicana e che oggi non riveste più alcun significato effettivo. Cambia quindi l’ambiente dell’agire politico, il copione della commedia si trasforma radicalmente: la Dc non può fare conto ulteriormente sulla rendita di posizione garantita dalla scelta di civiltà, occidentale e liberaldemocratica, contro il Pci stalinista di Palmiro Togliatti, e nemmeno sull’intonazione moderata che aveva fatto valere contro i tratti fortemente antagonistici assunti dopo la solidarietà nazionale dalla segreteria Berlinguer. Ma nessuno è immune dal flusso di trasformazione. Per il Psi svanisce il ruolo corsaro esercitato con evidente consapevolezza e determinazione nell’ultima parte del quindicennio craxiano, caratterizzato da un’alleanza «obbligata», in nome della governabilità, con la Dc e da un aspro anticomunismo che bilanciava a sinistra la rissosa rivalità esercitata nei confronti del partito di maggioranza relativa. Contemporaneamente, nel momento in cui lo show di fine secolo a Mosca e a San Pietroburgo spazza via ogni tara ideologica, il Pds può salutare la propria mutazione genetica e la propria resurrezione sotto legittimate spoglie liberal, ma vede simultaneamente sbrecciarsi la sua comoda posizione di oppositore coatto, di fisiologico raccoglitore di tutte le proteste, niente affatto preoccupato di tradurre in programma potenzialmente governativo l’antagonismo sociale e politico di cui si faceva portavoce. Se queste premesse sono accettabili, la prima conclusione consiste nell’attestare che oggi tutti i maggiori partiti appaiono nudi. Ognuno di essi dovrebbe misurarsi sui programmi, presentare proposte amministrative e su queste chiedere il giudizio degli elettori, competendo per porsi alla guida del Paese. Ed è proprio su questo punto che la pletorica macchina politica italiana rivela tutti i suoi deficit di qualità. I partiti, infatti, sono abituati a confrontarsi sul terreno che va dal più gretto clientelismo e dai tatticismi negoziali alle più sesquipedali e barocche questioni ideologiche, ma non sulla buona amministrazione della cosa pubblica. Fino a pochi mesi fa, più che su progetti concreti, hanno chiesto il consenso su una Weltanschauung, oppure hanno offerto pensioni e impieghi nel parastato. Adesso che devono abbandonare il piccolo cabotaggio, e navigare in alto mare senza più la precisa stella polare della contrapposizione ideologica, non possono non trovarsi drammaticamente disorientati, legati a una serie di comportamenti che non hanno più riscontro con la realtà, a dichiarazioni di principio che sembrano prodotte da una morbosa coazione a ripetere. Le elezioni della primavera prossima saranno le prime che si svolgeranno senza la condizione base che ha contraddistinto la politica dell’Italia repubblicana, e cioè la conventio ad excludendum nei riguardi del principale partito di opposizione. La sclerosi della politica attuale tende a smorzare il significato di questa prospettiva inedita. Ma anche Luigi XVI annotava cinicamente «Rien» sulla pagina di diario del 14 luglio 1789, a Bastiglia appena presa. Se si prendono le distanze dallo scetticismo con cui i santuari politici della capitale registrano le novità, non si può ignorare che l’acquisita normalità del Pds significa che una moltitudine di potenzialità politiche finora ibernate sotto una campana di vetro vengono liberate, ed è insensato pensare che ciò non si ripercuota sulle strategie dei partiti, sulla formazione delle alleanze, sugli accordi di prospettiva. Certo, si è legittimati a pensare che il gioco al suicidio dei partiti possa proseguire inesorabilmente; ma accettare questa ipotesi comporterebbe accettare l’ineluttabilità di un cammino di decadenza avviato dal Paese, con un inevitabile destino sudamericano, nel cui orizzonte si configurano la perdita progressiva di legittimità, l’iperinflazione, le aspettative irrazionali che al posto della politica qualcuno, un uomo, un gruppo, sia capace di assumere un ruolo provvidenziale. Il fatto è che per tentare l’ardua impresa di uscire dal trasformismo occorre paradossalmente un ulteriore esercizio trasformistico. È proprio necessario che il Barone di Munchhausen si afferri per il codino della parrucca e depositi se stesso e il cavallo dall’altra parte della palude. Chi nega questa ipotesi, e invoca spallate e traumi, sembra ignorare che le capacità di assorbimento del sistema politico sono enormi. Già il Pds non rappresenta più fortunatamente un’alternativa di sistema, e quindi potrà essere cooptato nel governo non appena ciò sarà ritenuto necessario: costituisce una delle primarie forme di difesa di qualsiasi organismo complesso la soluzione di associare nella gestione i soggetti più conflittuali, per ridurre al minimo il tasso di scontro. Ma perfino la Lega lombarda, una volta emersa come forza politica di una certa consistenza in un Parlamento fortemente frammentato, potrebbe essere coinvolta nelle pratiche di governo. Angelo Panebianco ha parlato del sistema socio-politico italiano come di una «maionese impazzita», nella quale tutti gli ingredienti perdono coesione e degradano senza scampo; tuttavia, a pensarci bene, potrebbe darsi che la maionese sia perfettamente riuscita, che riesca a integrare attraverso chimismi misteriosi qualsiasi nuovo componente si butti nell’impasto. D’accordo che il sapore risulta pessimo, ma la formula funziona con diabolica perfezione e promette anzi minacciosamente di resistere per l’eternità. D’altra parte, risulta difficile contraddire il pessimismo sulla capacità dei partiti e del Parlamento di giungere concordemente a una invenzione alchemica che permetta di scomporre razionalmente maggioranze e minoranze, per arrivare insomma a uno schema di tipo europeo, quello stesso che permette alla Cdu di governare con il 43,8 per cento dei voti, ai conservatori inglesi con il 42,3, ai socialisti spagnoli con il 39,6, ai socialisti francesi con il 37,5 (tutte percentuali che vengono poi esaltate dal congegno elettorale dei vari Paesi, e portate oltre la maggioranza assoluta o alle soglie di essa). Toccherà in primo luogo alla Dc dimostrare se la sua proposta istituzionale è stata avanzata semplicemente per dovere di ufficio oppure per impegnare effettivamente il partito su di essa. E toccherà di conseguenza al Psi decidere come comportarsi di fronte a un’eventuale presa d’iniziativa democristiana. Durante i mesi di novembre e dicembre, Bettino Craxi è sembrato piuttosto deciso nell’affermare che la prossima legislatura vedrà una maggioranza di governo ancora fissata sull’asse Dc-Psi. L’unica novità che si potrebbe intravedere è il ritorno del leader socialista a Palazzo Chigi. E resta da notare che in questa politicamente tranquillizzante, anzi narcotica, prospettiva politica non c’è alcun elemento di novità, alcuna risposta che non sia personalistica o volontaristica, e quindi arbitraria, ai problemi del Paese. Ad ogni modo, per il momento non rimane altro che aspettare l’esito delle elezioni politiche: perché sulle percentuali della primavera prossima si misurerà il grado di consapevolezza dei partiti riguardo alla crisi del sistema, e se essi mostreranno la volontà di adeguarsi a un principio di razionalità (oltre che allo scadenziario dettato dalla Conferenza europea di Maastricht, che di per sé imporrebbe l’abbandono della computisteria di fazione in favore di una strategia nazionale improntata all’impegno richiesto). Sappiamo già che nel caso di una frantumazione della rappresentanza avremo di fronte una sola alternativa: il proseguimento, da un lato, della grande coalizione trasformistica, con la cooptazione assicurata a chiunque prometta di alimentarla nei limiti di una conflittualità interna accettabile e di uno sperimentatissimo gioco di contrattazioni, veti, ricatti, negoziati, risarcimenti, scambi; oppure, dall’altro, la ripresa di iniziativa dei partiti, una scommessa civile che si decida a mettere a rischio il capitale per non vederlo eroso giorno per giorno. A malincuore, e con la consapevolezza che la condizione di questi partiti è tale da non autorizzare speranze troppo complesse, i cittadini italiani dovrebbero augurarsi un altro paradosso politico, e cioè che – per paura – i responsabili del degrado riescano a diventare i restauratori, gli autori dello sperpero i risanatori, gli scialacquatori della morale i moralizzatori. Per garantirsi una sopravvivenza, è l’ultima strada che hanno di fronte. Nel pessimismo di quest’ora così inquieta, in assenza di strategie coerenti, dovremmo essere disposti a credere per l’ultima volta alla più imbarazzante delle risorse e abitudini italiane, il colpo di teatro.

Facebook Twitter Google Email Email