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La musica del Quartetto. Il quadripartito al canto del cigno

05-06 1992

Come ormai si è diffusamente capito, le elezioni del 5 -6 aprile non sono mai avvenute. O meglio, si sono svolte in un’area dell’immaginario fatta della materia di cui sono fatti i sogni, le impressioni frammentarie, i ricordi gratuiti. Nell’incipiente primavera del 1992, o meglio, a dirlo con minore esattezza cronologica e maggiore precisione psicologica, nell’autunno inoltrato e grigio del nostro sistema politico, si è svolto un massiccio sondaggio d’opinione, impreciso e non immediato nelle conseguenze come tutti i sondaggi. Per un eccesso di ottimismo, o di fede nel principio di causalità, molti avevano creduto che questa indagine sui gusti politici degli italiani avrebbe avuto qualche inesplicabile effetto sulla situazione politica e sul confronto tra i partiti. Che si trattasse di una misera illusione percettiva lo hanno dimostrato i fatti: e che per oltre due mesi la situazione politica sia rimasta in uno stato molecolare, di dissoluzione gassosa, in una fluidità inerte senza che nessun reagente potesse catalizzare una formula, una maggioranza, un’ipotesi di governo, appare la dimostrazione definitiva che nel laboratorio di chimica della politica italiana sono sbagliate le dosi, gli alambicchi sono fuori uso, da nessuna reazione esce il composto voluto. Alla fine, il sistema è riuscito nell’impresa di creare soltanto minoranze, un ventaglio di rappresentanze amorfe. Sarebbe la situazione ideale per chiunque volesse, stregonescamente, evocare dal disordine e dallo sfaldamento lo spirito di un’iniziativa politica. Ma il caso vuole, si scelga se per disgrazia o per fortuna, che nella classe politica non ci siano più né carismatici né strateghi, né duri decisori né ispirati progettisti della mediazione: sicché quelli che vengono ogni giorno evocati dall’abisso sono spiritelli deboli, a cui si tenta senza troppa convinzione di mettere addosso il lenzuolo dei grandi e vecchi fantasmi della politica. Senza riuscire a conferire loro un tono adeguato, è logico. Una volta c’era l’antro degli arcani, dove aveva luogo lo scontro di forze sufficientemente misteriose per risultare potenti e allusive a entità concrete di ingente estensione politica, sociale e culturale (il mondo cattolico, la diversità comunista, la modernità socialista, il razionalismo degli ambienti laici); in esso si disegnavano e si componevano gli equilibri di potere, in quella reazione a catena di conflitto e mediazione che ha caratterizzato l’esperienza repubblicana e infine l’ha portata al melt down, alla catastrofica fusione del nocciolo, quando la ripartizione del potere è collassata nella perdita definitiva dei criteri di responsabilità. Come risultato, ora sembra esistere solo una immensa e caotica cucina, con fornelli fuori uso, tegami sfondati, cocci e materiali di scarto. In quel disordine vagamente losco, si affollano le reliquie sconsacrate di ciò che è stato il cerimoniale della rappresentanza e della partecipazione, del confronto e della decisione. Anziché apprendisti stregoni vi si aggirano cuochi sempre più incerti sugli ingredienti e perplessi sul menù da preparare per uno stuolo di clienti che appare sempre più avvilito e sfiduciato sulla qualità di quella vieille cuisine. Se la politica è un modo per esprimere in una dimensione immateriale, e quindi calcolabile e convenientemente razionale, la varietà dei conflitti concreti che si agitano nel mondo della vita, adesso dovremmo probabilmente riconoscere che il sistema politico del nostro paese è riuscito alla lunga a realizzare l’operazione esattamente inversa: si è appropriato di idee, preferibilmente le più nobili, e le ha fatte diventare cose, oggetti materiali, settori d’interesse. Ha preso i concetti, e li ha materializzati nel Lebenswelt, come degradata materia di scambio. Ma quando i piani delle idee e della realtà si intersecano, si confondono, si intrecciano, cominciano a verificarsi fenomeni di singolare e irritante imprevedibilità, in cui ogni parola si ribalta in parodia: dal seme concettuale della solidarietà proliferano i frutti rinsecchiti e sterili dell’assistenzialismo, dall’idea alta del consenso derivano le pratiche più basse di acquisizione del voto, dalle radici comuni e dal sostegno democratico fra partiti alleati è nato ed è diventato grande, ramificato, inestinguibile l’albero della spartizione. Con il risultato che in questo humus insalubre le cose e le parole si sono ammalate insieme, le une hanno perso valore, le altre sono precipitate nell’irrealtà. Referendum per il Quartetto Nel deserto di proposte politiche che precedeva le elezioni, fra miraggi e piste scomparse, ad un certo momento la competizione ha cominciato a profilarsi come un referendum pro o contro l’alleanza di quadri partito. Tornava comodo alle opposizioni, parlamentari o giornalistiche, qualificare l’alleanza fondata sul rapporto Dc-P si come l’espressione di un ancien régime da battere, una bloccata società d’ordini da scompaginare per riaprire i tavoli del gioco politico. E probabilmente anche l’impostazione che Arnaldo Forlani e Bettino Craxi hanno dato alla campagna elettorale, tutta all’insegna di una governabilità continuista, accettava il rischio di un giudizio popolare sul pacchetto politico costituito dal quadripartito. Anzi, lo sollecitava esplicitamente: presentare l’alleanza di governo qualificandola come l’unico strumento possibile per la gestione del paese, chiamare sul proscenio i Quattro come i soli interpreti plausibili del concerto dell’amministrazione pubblica, forniva in un certo senso alla coalizione una specie di legittimazione politica minore, in cui la compattezza di facciata della partnership poteva servire a mascherare il vuoto di programma politico, il contenitore surrogare il contenuto. Anche in questo caso, idee e fatti si confondevano senza scampo, dal momento che le parole predominavano sulle cose, la formula di governo sostituiva il governo assente. Si chiedeva un voto per l’affidabilità degli orchestrali anziché per la qualità della musica. Ma se non altro veniva sottoposto all’elettorato un quesito abbastanza chiaro, fondato su un criterio di valutazione semplice ed esplicito: il 5 aprile si votava sì o no al Quartetto. E invece, dalle urne è uscito uno shock assai più intenso del previsto. Uno schiaffo al governo, ma niente carezze all’opposizione tradizionale. Quasi otto milioni di italiani hanno deposto nelle urne una scheda «contro il sistema», scegliendo l’area della protesta (Lega Nord) o dell’antagonismo frontale rispetto ai partiti liberaldemocratici (Msi a destra e Rifondazione comunista a sinistra). I partiti maggiori hanno visto franare la loro consistenza, come nel caso della Dc e del Pds, o hanno registrato la cocente delusione di uno stallo, come per il Psi. Il cuneo del senatore Bossi si è infilato all’altezza della linea gotica, dividendo la rappresentanza nazionale e meridionalizzando i due principali partiti di governo. L’alleanza a quattro è sopravvissuta all’uragano, ma si è salvata solo in base al calcolo numerico dei seggi ottenuti: dopo il naufragio dei vascelli di governo, i partiti della coalizione si sono trovati a galleggiare su un mare cosparso di rottami; potevano ancora aggrapparsi ai relitti della vecchia maggioranza, ma non c’era nessuna prospettiva ragionevole di rabberciare politicamente la nave della coalizione. Riportare in cantiere la flottiglia, e costruire con i resti del naufragio una nuova navicella, poteva portare a esiti estetici vagamente mostruosi e a risultati funzionali di portata assai ridotta. Il mare della metafora era quello dei guai. Tuttavia la lezione del 5 aprile era piuttosto semplice, per chi l’avesse voluta trarre. La scelta politica fondamentale riguardava due soluzioni: se la prossima coalizione di governo doveva portare a un esecutivo a termine, improntato da una funzione costituente, appariva, più che difficile, impossibile sbarrare ancora la strada a un Pds ridimensionato, che aveva fatto di tutto per tramutare un fiasco in un trionfo ma che aveva visto aumentare la propria marginalità e quindi il proprio coefficiente di utilizzabilità; in alternativa c’era solo la possibilità di allargare l’ex quadripartito alle pattuglie verdi e radicali, tentare un problematico recupero dei repubblicani, oppure occhieggiare avventuristicamente e trasformisticamente alla Lega. Ma in quest’ultimo caso, cioè nel caso di un governo tampone, il riassetto istituzionale avrebbe dovuto poi essere esplorato su un altro tavolo, nel cuore del Parlamento, sfidando altissimi rischi di attrito fra maggioranza governativa ed eventuale «seconda maggioranza» parlamentare. Il primo degli sconfitti, il segretario dc Arnaldo Forlani, dimostrava di avere capito benissimo il senso del voto, e si presentava dimissionario al consiglio nazionale del 14 aprile. Ma a questo punto cominciava a prendere forma una situazione che uno spettatore ingenuo avrebbe giudicato più o meno incomprensibile. All’abbandono di Forlani si opponeva quasi tutto il partito: tranne alcuni settori della sinistra ( Goria, Bodrato) le correnti si schieravano all’unanimità contro le dimissioni del segretario. I leader maggiori, da Andreotti a De Mita, da Gava a Marini, rigettavano con sdegno l’idea così profondamente antidemocristiana di fare di Forlani l’immediato capro espiatorio della sconfitta subita alle elezioni. C’è quasi sempre una vena di sottile sadismo nel modo in cui la Dc tratta i leader sconfitti, obbligandoli «per spirito di servizio» a sopportare gli esiti delle défaillances; ma occorre intendersi: si sa che il sistema politico italiano è il meno adatto per indurre i responsabili dei partiti puniti dagli elettori a «trarre le conseguenze», come si dice eufemisticamente nel gergo politico, dall’esito sfavorevole delle urne. Cioè a dimettersi quando le campagne finiscono in un disastro. Se n’è guardato bene dal trarle, le lezioni o le conseguenze, Bettino Craxi, che pure negli ultimi giorni della campagna elettorale aveva incautamente impegnato sul banco dei risultati del voto la propria stessa posizione di monarca assoluto del partito; e nemmeno Achille Occhetto, quantunque il Pds avesse registrato un risultato al di sotto della soglia minima di tenuta. Ciò nonostante, Forlani ha compiuto un’analisi sostanzialmente precisa: ha riconosciuto l’esaurimento della formula a quattro, e ha offerto il suo mandato per consentire una trattativa a mani libere e a raggio più ampio. Bisogna considerare che Forlani non è stato il Re Travicello di una Dc sbandata, un segretario qualunque di una transizione senza orientamenti: è stato il regista e l’interprete di una fase politica precisa, quella fondata sul rapporto di ferro con il Psi dopo la fase di conflitto gestita da De Mita. Se questo rapporto preferenziale andava in crisi, occorreva quanto prima una strategia di riserva. Le strategie assenti E con ogni evidenza la Dc questa strategia di riserva non l’aveva. Ma c’è di peggio: l’aggravante è che non l’avevano neppure gli altri partiti usciti sconfitti dal voto. Può sembrare implausibile, ma tanto la Dc quanto il P si avevano fatto una puntata secca su una sola combinazione di numeri. Avevano scommesso sulla paura del vuoto. L’unico risultato buono di questa improbabile tombola era la vecchia quaterna. Ma dal momento che i numeri non erano usciti, i due partiti si ritrovavano a cartelle scoperte. Con la remissione del mandato, Forlani lasciava libero il partito di cercare contatti e alleanze fuori dalla vecchia formula, e probabilmente anche dall’asse con il Psi, di cui era sempre stato il tutore; ma il partito non era pronto a un rimescolamento interno così immediato, non c’era nessun leader che potesse proporsi con plausibilità per un deciso cambiamento dì indirizzo politico, e così la segreteria è stata temporaneamente puntellata. Vale la pena di sottolineare un elemento che forse non è stato notato a sufficienza: in questo momento, uno degli aspetti centrali dell’evoluzione politica italiana (per non dire l’aspetto centrale tout court) si riferisce all’ipotesi che il trentennale rapporto di collaborazione fra Dc e Psì sia prossimo all’esaurimento. Tutte le ipotesi di riforma elettorale che sono state formulate tendono, in maggiore o minore misura, con meccanismi più o meno incisivi, a rettificare l’ «anomalia» italiana di un centro politico occupato da due partiti che in un sistema a somma zero dovrebbero fronteggiarsi da avversari, sulle sponde opposte del sistema politico. Bene, proprio allorché i risultati delle elezioni politiche mettono sotto cruda luce che l’ «ambiente», l’ecosistema politico in cui si è sviluppata nel tempo la collaborazione fra cattolici e socialisti, cioè il centrosinistra, si è insidiosamente ristretto e impoverito, i due protagonisti della lunga coalizione si rivelano privi di una linea alternativa. I numeri cominciano a dare corpo a un’ipotesi che comunque era nell’aria, e Dc e Psi devono fare finta che i numeri siano in essenziali, e le ipotesi di conseguenza irreali. O meglio: le alternative ci sono, ma come sempre non sono mature. Una decisa virata democristiana verso il Pds, che sarebbe logica anche per le affinità dei progetti di riforma elettorale dei due partiti, non ha ancora dentro la Dc il timoniere giusto. E la vera novità in area democristiana, l’emersione di Mario Segni, continua a essere guardata con sospetto, nel timore che i congegni elettorali di tipo anglosassone pensati dall’ «uomo nuovo» di Sassari possano intaccare l’ispirazione interclassìsta della Dc, consegnandola a un ruolo moderato che negherebbe al partito la sua tradizionale capacità di fare il pendolo fra destra e sinistra e quindi di reìnventarsi quando occorre come alternativa a se stesso. Occorre un congresso che prenda atto della fine di una formula e indichi il leader di una strategia diversa. Per ora, a Forlani viene lasciato il compito di fare il curatore fallimentare del quadripartìto. E non è matura nemmeno questa volta la linea di alternativa a sinistra. Per chi non l’avesse ancora intuito, l’alternativa di sinistra è quella cosa che tutti dicono di volere, «ma domani». Sulla base di questo brillante schema il Psi ha potuto restare al governo trent’anni, e per trent’anni il Pci si è potuto consentire il lusso di rimandare il suo appuntamento con l’orologio di Bad Godesberg. Dopo il 5 aprile, Claudio Martelli ha tentato di istituire un rapporto più stretto fra Psi e Pds, per poter gestire più fruttuosamente l’equilibrio con la Dc. Nelle condizioni piuttosto cattive in cui la sinistra versava dopo il voto, l’operazione era fra le poche che aprissero un barlume, se non una vera e propria prospettiva. Il Psi, dopo anni di durissima conflittualità con il Pci, dopo uno scontro che soprattutto negli anni di Berlinguer aveva assunto i toni di un conflitto fra due «nature» perfettamente incompatibili, dopo il crollo del Muro e lo scioglimento del Ghiacciaio sì trovava nelle mani un risultato cedente, che sanzionava oggettivamente la fine dell’onda lunga. Tanto rumore per nulla. E tuttavia l’iniziativa di Martelli si è infranta prima sul fuoco di sbarramento di Massimo D’ Alema ( «Craxi è l’esponente di una fase politica conclusa») e poi sulla reazione, meno prevedibile ma altrettanto dura, di Occhetto. Ci si è chiesti a lungo quali fossero le ragioni di una presa di posizione del Pds che aveva tutta l’aria di essere drammaticamente «impolitica», e le spiegazioni sono risultate tutte piuttosto deludenti. Il no al Psi si può argomentare con la necessità di Occhetto di fronteggiare la concorrenza di Rifondazione comunista (uno dei vincitori, l’altro è ovviamente la Lega, delle politiche), che minacciava anche di esercitare attrazioni fatali entro l’area neocomunista del Pds. Un altro argomento a cui si è accennato è che a Botteghe Oscure si fosse già a conoscenza della piega che avrebbe preso l’affare «Tangenti a Milano», e quindi che relazioni più ravvicinate con una leadership socialista in procinto di essere danneggiata da vicino dallo scandalo ambrosiano fossero giudicate inopportune. In ogni caso resta il mistero di una presa di posizione del Pds che isolava ancora una volta il partito, e poneva le premesse per la perdita della presidenza della Camera, attraverso una successione di eventi che registra il sacrificio (e l’aspro risentimento) di Nilde Iotti, il fallimento dell’operazione che doveva sostituirla con il leader dei riformisti Napolitano, l’esclusione del partito nel processo che ha portato all’elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento, la liquidazione di qualsiasi ipotesi di partecipare a un governo in seguito. Si tratta di una terribile catena di incidenti politici, che rappresentano un’implicita conferma a margine del fatto che le elezioni politiche avevano sancito un pesante insuccesso, e non la tiepida affermazione che il Pds aveva cercato, con una certa capacità di convinzione, di accreditare. In secondo luogo, vale la pena di registrare che nei momenti che contano la Quercia non riesce a rientrare a pieno titolo nel gioco politico (era già successo un anno e mezzo fa, durante la Guerra del Golfo, quando il Pds, in piena autotrasformazione, aveva assunto una posizione contraria alle posizioni italiane di politica estera, confinandosi in un ruolo marginale). Ma in questa primavera l’immobilità catatonica del Pds ha assunto una coloritura più grave se si pensa che la sua ridisegnata legittimità democratica aveva ricevuto finalmente il battesimo del voto; e soprattutto che nell’immediato dopo-elezioni il suo inserimento nell’area di governo costituiva il primo argomento all’ordine del giorno. Mentre finisce per sempre, in buona sostanza, la conventio ad excludendum, il Pds riesce a escludersi da solo. E per colmo di ironia riesce in questo modo ad appiccicare al quadri partito salvato dalle acque l’etichetta paradossale di unica formula politica praticabile, per quanto con numeri ad alto rischio. Il Quartetto colpisce ancora Come talvolta succede, ciò che è tramortito, se nessuno si prende la briga di accorciargli la vita per eutanasia, stendere rapidamente l’atto di morte e a procedere a un’onorevole sepoltura, continua a muoversi, per spasmi o per riflessi automatici, o semplicemente per ritrovato desiderio di esserci. Il quadripartito, che sembrava destinato non dare più segni di vita in quanto tale, comincia a stiracchiarsi, a guardarsi intorno, con l’aria stordita di chi non riconosce l’ambiente circostante: troppo apparentemente ostile, privo di appigli per tentare scalate o manovre. Eppure così immobile, privo di iniziative visibili. Al punto da suggerire l’idea che se nessuno si muove, il primo che fa una mossa porta via il piatto politico sotto il naso di tutti. E’ quanto avviene con le elezioni di Scalfaro e Spadolini alla presidenza delle Camere. Un blitz di Craxi, per numerosi osservatori; di sicuro un colpo di coda della vecchia maggioranza. E a questo punto i giochi sarebbero pressoché fatti. Sulla carta c’è già un governo potenziale, basato sulla riesumazione del Quartetto e con l’aggiunta di qualche alleato d’occasione, da consegnare nelle mani del segretario del Psi; l’elezione del nuovo capo dello Stato sarebbe poi venuta di lì a poco a confermare la rete di accordi, come estensione di una trattativa già consolidata. I castelli di carte comincia però a sfasciarli Francesco Cossiga. Se si fosse rassegnato all’elezione di «persone eccellenti» per mezzo di «un’armata Brancaleone», vale a dire la vecchia maggioranza battuta politicamente alle ultime elezioni, la sconfitta di Cossiga sarebbe stata non solo totale, ma forse anche umiliante e irrimediabile, tale da non lasciare prevedere per lui un destino politico di qualche significato. Per questo le sue dimissioni sono state un gesto politicamente inevitabile, e per questo sono risultate politicamente significative. Tutte le strategie sono risultate sconvolte. Sulla lavagna in cui erano stati tracciati con il gessetto i nuovi (vecchi) equilibri è passata una spugna. Gli accordi del giorno prima sono diventati carta straccia. Il secondo colpo di maglio arriva dall’iniziativa della magistratura milanese, l’operazione «Mani pulite» gestita dai giudici Di Pietro e Colombo. Con la nomenklatura lombarda in galera, con la scoperta dello schema redistributivo del sistema delle tangenti, con avvisi di garanzia che arrivano ai piani alti dei palazzi politici, per qualche lunghissimo istante quello che il senatore Bossi chiama «il regime» vacilla. Lo sgomento si diffonde. Probabilmente non c’è mai stata una distanza maggiore fra il sistema politico e l’opinione pubblica. Si comincia a pensare all’intreccio di politica e tangenti non più come a casi isolati, ma come un elemento generalizzato e fisiologico dell’attività pubblica, come se la metastasi dell’interesse di partito avesse sostituito integralmente scheletro e organi dell’amministrazione. Entro un impianto istituzionale forte e legittimato, e sulla base di strutture politiche robuste, gli scandali costituiscono di norma un fattore marginale della politica. Partiti strategicamente consapevoli, e impianti istituzionali solidi ed efficaci, li riducono di norma a fenomeni controllabili, con qualche medicina o qualche chirurgia. Invece, la malattia politica, quasi un infarto del sistema, che è cominciata con l’arresto di Mario Chiesa ha dispiegato tutta la sua sinistra potenza dopo che un altro trauma (proprio le elezioni del 5 aprile) aveva scomposto le quote della rappresentanza politica, rendendo estremamente più difficile il mantenimento dello status quo nella politica nazionale. L’emersione di una forza dichiaratamente «contro il regime» come la Lega Nord, la difficoltà anche solo di ipotizzare una formula diversa di governo, i conflitti impliciti nelle scelte per il Quirinale e Palazzo Chigi costituiscono il terreno su cui si configura l’impossibilità dei partiti di reagire politicamente allo scandalo. Ecco allora una successione senza scampo: di fronte al degrado morale, l’opinione pubblica si aspetta una iniziativa politica forte e immediata; i partiti non sono in grado si assumerla; ciò che ne risulta è un sordo faccia a faccia tra la società e la politica di cui non si intravedono esiti razionali. Hanno perfettamente ragione i cittadini a chiedersi come mai, a diverse settimane dalle elezioni, la paralisi continua e l’incertezza domina su Roma. Ma c’è da tenere presente che in un momento difficile, e che è difficile in particolare per il Psi, qualsiasi iniziativa verrebbe interpretata come un’alterazione dei vecchi equilibri. Se ad esempio, in quanto partito di maggioranza relativa, nel momento di maggiore sbigottimento la Dc avesse assunto il compito di un’esplorazione politica a largo raggio, da parte socialista ciò sarebbe stato interpretato come una rilevante alterazione del rapporto che ha legato i due partiti, fino a determinare contraccolpi vistosi: di tipo politico ma anche di altro tipo, più opaco e insidioso. Per questo, anche nei giorni delle maggiori sfortune socialiste all’ombra del Duomo, Forlani si guarda bene dal calcare la mano con Craxi: è la rassicurazione che il disastro milanese non verrà utilizzato politicamente contro il Psi; ma è anche il verdetto che ufficializza il fatto che non c’è via d’uscita dalle formule di ieri, perché ogni soluzione diversa rischierebbe di innescare ritorsioni e vendette, sul piano politico come sul piano giudiziario. Tutti zitti, quindi, e tutti insieme, perché a dividersi non si sa che cosa possa succedere. Guai a fare una mossa. E si arriva all’appuntamento con le elezioni per il Quirinale, il 13 maggio, in una situazione di assoluta impreparazione. Sarebbe stato necessario e urgente uno scatto d’orgoglio di tutta la classe politica, un atto di coraggio e di fantasia. Fra il bene assoluto e il male minore c’era sicuramente una piccola gamma di candidati che potevano assicurare una tenue coloritura ideologica, il massimo di unità virtuale sul minimo di definizione politica, in grado di esercitare un ruolo di garanzia rispetto ai partiti storici e al riconoscimento della loro esperienza, e con i contorni morali di una figura al di sopra dei sospetti, capace di restituire un segno di rilegittimazione alla classe politica. Un compromesso avrebbe steso un’ala di protezione su tutto il Parlamento. E invece, dopo le prime votazioni, dal golfo mistico tornano a risuonare le striminzite note del Quartetto. Le prime battute del difficile concerto per il Quirinale sono assolutamente esemplari di un tentativo di rianimare ciò che è stato tramortito dal voto. La premessa maggiore dice che le forze politiche non possono permettersi un altro presidente corsaro. La premessa minore asserisce che non ci sono fronti contrapposti, per ispirazione politico-ideale o per programma, che possano giocare un candidato contro l’altro (cioè una linea politica contro l’altra), rischiando sconfitte o lacerazioni rovinose. E il sillogismo si chiude, certo temporaneamente, con la travolgente riscossa dell’alleanza a quattro, che giunge nel capolavoro di candidare per il Colle il segretario Dc, proprio lui, l’uomo del Caf, del centrosinistra, del vecchio «preambolo» contro il Pci, del «concorso» e del «raccordo» con gli alleati socialisti. Ma soprattutto l’uomo della sconfitta del 5 aprile, l’uomo del Quartetto. Conta poco che la sua candidatura sia durata lo spazio di due votazioni. Il tentativo di fargli scalare il Colle era per molti aspetti più che arrischiato, addirittura temerario. Innanzitutto perché Forlani è un leader di partito, funzione che di questi tempi male si attaglia, presso l’opinione pubblica, alla figura di un primo cittadino super partes, garante e non giocatore, arbitro e non contendente. E in secondo luogo perché la sua discesa in campo a Montecitorio metteva a rischio un numero eccessivo di posizioni: la segreteria democristiana, il rapporto con il Psi e gli alleati, la scelta di Craxi che aveva dovuto convincere il partito, e specialmente la fronda interna di sinistra, che il gioco di un dc sul Colle valeva la candela del prossimo governo a guida socialista. Foto di famiglia Queste rilessioni si interrompono nel momento in cui a Montecitorio i mille grandi elettori si sono spettacolarmente avvitati nell’impotenza più drammatica. Tutti propongono tutti e nessuno vota nessuno. Potrebbe anche darsi che nell’impasse generale l’alleanza a quattro si rivelasse nuovamente l’ extrema ratio di un sistema sfaldato. Intanto, qualcuno potrà osservare che per il momento il «partito che non c’è» ha battuto il «quadripartito che non c’è più». Di sicuro, gli strateghi della candidatura Forlani, i grandi eredi della politica di quadripartito, hanno sbagliato qualche calcolo, e ovviamente l’errore non riguardava solo l’esito delle elezioni presidenziali. Dentro un’ ipotesi di stretta continuità ci sono difficilmente le condizioni politiche, e perfino i semplici numeri, per poter governare il paese. Ma soprattutto manca una caratteristica che agli osservatori medi, alla «gente comune» a cui si appellava di continuo Cossiga, non sfugge. Cioè la credibilità. Quando una classe politica si presenta trascinandosi dietro la montagna indebitata su cui ha costruito il suo effimero consenso, dovrebbe avere almeno la faccia di investire un po’ di risorse residue come minimo in una finzione di movimento. Almeno, come si diceva nei regolamenti degli equipaggi della flotta borbonica, «facìte ammuina». E invece no: nessuna iniziativa, nessuna mossa. Inamovibile, anche se spennacchiata, la vecchia compagnia è sempre lì. Dovrebbe muoversi freneticamente, e invece se ne sta quasi immobile, pensosa, preoccupata dei propri rituali e del loro esoterico significato. Ma sarà vero che quei signori al centro del ritratto rappresentano effettivamente in politica il mondo cattolico italiano? E quelli a sinistra saranno effettivamente così diversi, onesti e morali come hanno detto per anni? E gli altri, saranno davvero tanto moderni, decisivi, à la page come hanno sempre detto? Nella foto di gruppo, tutti simulano la convinzione di avere un avvenire, e in questo avvenire un ruolo. Sembra che non debbano fare nessuno sforzo per ignorare che l’avvenire è drammaticamente precario, e il loro ruolo in discussione. Fuori dal quadro di famiglia, infatti, la Lega Nord prepara secessioni e successioni, nel senso della sostituzione integrale di segmenti di classe politica. Poco più in là, si proietta l’ombra minacciosa dei referendum, elettorali e no. Si è potuto ignorare con una certa miope disinvoltura il messaggio del referendum sulla preferenza unica. Adesso ci si può permettere di non fare la legge elettorale nuova, a patto di essere consapevoli che il prossimo referendum sarà di tipo insurrezionale. E anche la patetica navicella del quadri partito, se uscirà davvero dai bacini di carenaggio per affrontare il mare aperto, non riuscirà né a superare le prime prevedibili burrasche, né a sedare l’ammutinamento.

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