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Il Psi dal movimentismo al temporeggiamento

03-04 1991
Osservatorio italiano

La politica italiana sta per affrontare un passaggio delicato e fino a qualche mese fa considerato sostanzialmente implausibile. Nonostante qualche esile riscontro elettorale, conviene accennarvi con misurata cautela, sommessamente e con un filo di doveroso disincanto, dal momento che la realtà immobilista del nostro sistema politico si è già incaricata più volte di annichilire fino al ridicolo ipotesi e suggestioni di portata ben più esigua. Eppure, sono troppo numerosi e compatti gli elementi che inducono a pensare che siamo di fronte, per la prima volta nel dopoguerra, alla possibilità realisti ca del riequilibrio, o del sorpasso, a sinistra. Per essere accettata in tutte le sue conseguenze, questa ipotesi implica che al termine «sinistra» si attribuiscano confini giustificati più dall’eco della tradizione che dalla realtà corrente. Diciamo allora che grazie a una serie di circostanze in cui la grande storia ha congiurato con la bassa cronaca, il Partito socialista può guardare alle prossime elezioni politiche come a un appuntamento decisivo, nel quale si definirà in modo concretissimo la questione della leadership nell’ambito di ciò che convenzionalmente chiamiamo sinistra. Il sogno «mitterrandiano» a lungo cullato da Bettino Craxi, la sconfitta e il ridimensionamento del Partito comunista (o dei suoi resti deideologizzati) per consentire uno schema di alternativa a riconosciuta direzione socialista, appare a portata di mano. Per uno di quei paradossi che non sono del tutto infrequenti nella politica, questa inedita prospettiva è stata introdotta nel rango delle possibilità da una scissione a sinistra del Pds, dopo il congresso di Rimini. Dopo l’annuncio dello scisma nell’ultimo giorno del congresso, con il quale esponenti storici del Pci come Armando Cossutta e Sergio Garavini avevano dato vita a «Rifondazione comunista» come schieramento autonomo, soltanto lo sbandamento delle ultime ore congressuali e la sorpresa avvelenata della bocciatura di Achille Occhetto avevano fatto passare in secondo piano la secessione neocomunista. Nelle settimane successive, tuttavia, si è avuta la sensazione che l’ atteggiamento di sufficienza con cui si era guardato alla diaspora dei cossuttiani fosse la sintesi di un modo di guardare alle cose della sinistra in cui dominava ancora l’idea di un Pci monolitico, capace di sterminare o ridurre ai minimi termini qualsiasi avventura massimalista al suo esterno. E invece, al posto del vecchio Pci unitario e compatto c’era ormai il nuovo Pds, nel pieno della sua lacerante crisi di identità e delle sue divisioni. Prima del congresso di autoscioglimento del Pci, leader come Giorgio Napolitano avevano parlato di un’eventuale scissione come di un’avventura «ultraminoritaria» e a priori perdente. Pochi giorni più tardi, quando il numero delle nuove tessere è balzato velocemente oltre quota centomila, ha cominciato a farsi strada la consapevolezza che l’ «avventura» non si sarebbe risolta solo in un deprimente scontro legale avente come posta il copyright della falce e del martello: quello che si profilava era ormai un problema tutto politico, e di dimensioni largamente inattese. Le conseguenze della fuoruscita non si limitano infatti alla concorrenza fratricida esercitata da «Rifondazione» verso il Pds. Sul piano degli equilibri elettorali la formazione neocomunista può dare luogo a un autentico terremoto a sinistra. Se consideriamo che il Pds si trova presumibilmente in una condizione di cedimento, diventano importanti anche i numeri piccoli e piccolissimi: e sul filo dei decimali potrebbe giocarsi anche la posizione di capoclassifica nell’area della sinistra. Che questo avvenga attraverso una specie di dedizione minore del «sorpasso in discesa», oppure anche in coincidenza con una rilevabile crescita del Psi craxiano, non toglie nulla alla riscontrabile eccezionalità dello scenario che si dispiega sulla nostra politica. Potrà apparire una sofisticata astuzia della storia che ciò che non è stato possibile per mezzo di un riequilibrio alla francese, a «destra», per mezzo di una spregiudicata raschiatura riformista contro le incrostazioni ideologiche, possa profilarsi alla fine grazie alle combattive espressioni di una residuale quanto irriducibile nostalgia di comunismo. Ma rovesciando i fattori il risultato non cambia: e Craxi intravede la possibilità di riuscire laddove si erano dimostrate ampiamente insufficienti l’Onda Lunga e la Grande Riforma, il miracolo socioeconomico contemporaneo alla presidenza socialista dall’83 all’87, il sigonellismo e l’atlantismo, il movimentismo e la stabilizzazione, il decisionismo e la governabilità: cioè di diventare a suon di numeri il capo della sinistra italiana. Già: ma intanto? L’unità socialista e i complessi d’inferiorità Con ogni probabilità ci si è rapidamente dimenticati che nell’ottobre scorso, pochi giorni prima che Achille Occhetto presentasse alla direzione del P ci la sofferta «dichiarazione d’intenti» con cui si argomentava e si giustificava il cambio del nome e del simbolo del partito, Craxi aveva decisionisticamente cambiato l’etichetta del Psi sotto la dicitura di «Unità socialista». Era solo una specie di «mossa del cavallo» utile a spiazzare e mortificare la faticosissima scelta occhettiana del nome per la «Cosa»? Oppure contemplava un messaggio più sottile ed eloquente? E rivolto a chi? Se era un segnale, si rivolgeva in primo luogo alle forze miglioriste (e non a caso i Borghini e i Corbani, cioè l’ala socialdemocratica «dura», apprezzarono la capacità e lo stile di decisione rispetto alle allora perduranti vaghezze del gruppo dirigente comunista) e poi alle entità in disgregazione del Pci per segnalare che a sinistra un virtuale polo di aggregazione esiste solo ed esclusivamente intorno al Psi e al suo leader, e che ogni ipotesi di alternativa, per essere formulata realisticamente, deve fondarsi sul riconoscimento della leadership socialista. È un argomento, quest’ultimo, che sembra fatto apposta per accentuare le contraddizioni politiche nella casa ex comunista, dal momento che normalmente scatena fra le componenti del Pds accuse e controaccuse di subalternità a Craxi così come, sul versante opposto, di estremismo antisocialista. E difatti, nel teatrino politico degli ultimi mesi si è assistito a una plateale commedia degli equivoci, con Occhetto e i suoi a fingere di non capire che cosa significhi alla fine dei conti «unità socialista», e il Psi a fingere di non capire perché quelli non capissero. In questa commedia degli equivoci, vale la pena di chiedersi quali sono le ragioni di fondo di una simile incomprensione. Si potrebbe rispondere di primo acchito che la prolungata collocazione governativa del Psi, dal centrosinistra in poi, ha comportato a lungo nei socialisti un senso di inferiorità rispetto alla purezza «di classe» dell’opposizione comunista. Quando Francesco De Martino a metà degli anni Settanta elaborò la formula degli «equilibri più avanzati», non si preparava soltanto a ricevere la micidiale mazzata delle elezioni politiche del 18 giugno 1976 (con il Pci al massimo del suo rendimento elettorale e il Psi al minimo, «tre comunisti e mezzo per ogni socialista»), ma addirittura teorizzava – e la spia linguistica era la tardiva adozione di gergalità marxiste – il socialismo italiano in quanto «figlio di un dio minore», e di conseguenza, come si disse in seguito, «balcanizzato dalla Dc e finlandizzato dal Pci». Esprimeva cioè una condizione di handicap, interiorizzata fino a diventare ineluttabile propensione masochista. Lanciati «allo scopo di liberare il partito dalla gabbia dell’alleanza forzata con la Dc», ha scritto di recente Giovanni Sabbatucci (Il riformismo impossibile, Laterza, 1991), gli equilibri più avanzati, cioè la richiesta di coinvolgere il Pci nella maggioranza guidata dalla Dc, finivano «in realtà col suonare come un’implicita confessione di subalternità nei confronti di entrambi i partiti maggiori». Conoscendo come sono andate in seguito le cose, lascia vagamente increduli il fatto che lo stesso Craxi immediatamente post-Midas, presentandosi a un Andreotti che stava per formare il governo che apriva la stagione della solidarietà nazionale, si dimostrasse (stando ai diari publicati dall’attuale presidente del consiglio), rigido come il suo predecessore De Martino riguardo alla «condizione di non avere i comunisti all’opposizione»; e che due anni dopo, nella relazione introduttiva al congresso di Torino, il segretario tenesse una compunta linea di sinistra classica («Siamo certo interessati a frenare lo sviluppo bipolare attorno ai due maggiori partiti, ma ci proponiamo di farlo radicando ancor più la nostra presenza nel terreno storico e di classe della sinistra e non rifluendo su posizioni di equidistanza»). Altri tempi: per il Psi ciò che si stagliava sull’orizzonte politico era un arduo «primum vivere», nel contesto di una cultura che obbligava a continue deferenze agli idola classisti. Non appena avesse potuto ricominciare a filosofare, le conseguenze sui rapporti a sinistra si sarebbero rivelate demolitrici. Dal «Vangelo socialista» del 1978, che dietro la riscoperta di Proudhon e del pensiero eretico della sinistra elevava un’aspra polemica contro il comunismo leninista e l’ ossificazione burocratica del socialismo reale, per almeno un decennio si sviluppa nel Psi una durissima critica della cosmologia e dell’iconografia comunista, da Stalin a Togliatti, da Lenin a Breznev a Berlinguer. Costruzione di un’identità Serve davvero, tutto questo, a indurre il Pci a qualche revisionismo significativo? L’impressione è che serva soprattutto come carta interna nella variegata compagine socialista. La polemica anticomunista diviene, attraverso scadenze piuttosto rapide, un mastice intellettuale d’appartenenza, una delle ragioni vicarie di identità per un partito già orientato verso pragmatismi e riformismi che offrono scarsa connotazione sotto il profilo ideologico. In effetti, il P si che esce dalla «congiura», dal «golpe» del Midas, è un partito che in un solo giorno a Palazzo ha psicanaliticamente «ucciso il padre». Dopo di che, al craxismo, al «nuovo riformismo» socialista che prende vigore negli anni Ottanta, si può attribuire tutto: «la qualifica di socialista è facoltativa» secondo l’ultimo Arfè, in quanto il nuovo partito «non ha più alcuna remora di natura dottrinale e alcun vincolo di programma», «è a gerarchie rigide, a istituzioni fluide, a organizzazione amorfa», «ha trasformato la sua tradizione in iconografia», al punto che «democristiani e comunisti assistono sbigottiti e sgomenti allo spettacolo imprevisto». Per l’ex direttore di MondOperaio Federico Coen, gli iscritti e i quadri «appartengono nella grande maggioranza ai ceti medi, tradizionali ed emergenti, e in parte considerevole al ceto professionale»; le relazioni con l’apparato sindacale sono flebili, soprattutto se paragonate al Labour Party o alla Spd: «per questo aspetto il socialismo italiano è affine ai socialismi cosiddetti mediterranei ma, a differenza di questi, ha una base elettorale non solo ridotta ma anche eccezionalmente instabile. Lo "zoccolo" su cui può contare in ogni elezione si aggira intorno alla metà dei voti raccolti. Il resto è voto d’opinione». E l’elettore socialista, secondo la comunista Mariella Gramaglia, è «insofferente delle tradizionali austerità democratiche, amante del denaro e del potere, infastidito dagli egualitarismi, innamorato del piglio e della baldanza altrui in quanto virtù-poteri che amerebbe avere per sé e in parte imita plasmandosi sui modelli che i media offrono». Sono citazioni tratte dal volume collettivo La questione socialista. Per una possibile reinvenzione della sinistra (a cura di Vittorio Foa e Antonio Giolitti, Einaudi, 1987) e come esempio di benevola critica «da sinistra» non c’è male. Ma essa non fa altro che contribuire a quella demonizzazione del craxismo, diffusasi in modo capillare soprattutto fra i militanti comunisti, che in definitiva costituisce l’altra faccia, quella negativa, di un’auto immagine del Psi che se si va formando si forma grazie anche agli attacchi a cui viene sottoposta senza tregua. Si instaura rapidamente una stretta connessione fra l’esorcismo contro il diavolo e il suo rovescio, l’idolatria. L’elettore, simpatizzante o militante socialista è déraciné dalle convenzioni della politica a causa delle terribili delusioni dovute prima alla superiorità politica, organizzativa, probabilmente morale del Pci, e in seguito alle frustrazioni subite durante la collaborazione nel centrosinistra, in quello che se in ogni caso fu «il governo più a sinistra del nostro paese» (Bobbio), rappresentò senza dubbio anche una palestra di compromissioni e disillusioni: per questo «rampante» elettore/ simpatizzante/militante, la rottura di una serie di tradizioni coatte, di concetti, di parole d’ordine ritenute vincolanti nel galateo della politica progressista contribuisce a istituire il proprio statuto politico ancor prima e meglio che le novità liberal enunciate nei programmi, la rinuncia a ogni residuo di mitologia marxista e la spettacolarità delle idee nuove. «Nel Psi attuale – scrive Ernesto Galli della Loggia pochi giorni prima delle politiche del giugno 1987 – si sono andati sommando e ingorgando molti pezzi d’Italia staccatisi da quel Paese ancora a suo modo compatto che era durato fino agli anni Settanta (ovvero nati proprio allora) perché resisi autonomi dalle tradizionali dipendenze ideologiche, morali, di costume. Questi pezzi d’Italia si sono innestati su un corpo politico ormai esangue che proprio in quel momento era ereditato da un giovane gruppo dirigente, figlio della sconfitta, al quale il passato non diceva e non poteva dare più nulla». Ecco allora l’inedita «sostanza antropologica» dei socialisti, «quel loro fare ribaldo e derisorio che pare talvolta dare sul picaresco e che del picaresco mima certa tolleranza e apertura culturali unite a inaspettati scatti di una generosità sbracata»; ecco «il loro gusto per tutto ciò che è mobile, nuovo, vivo e un po’ plebeo, il loro gusto per la città e per la notte». La rottura delle convenzioni politiche Vampiri metropolitani come dice Galli della Loggia, «gente nova», come sostiene qualcun altro riferendosi a certe rapide fortune personali e di partito conseguite per via politica, «Moderns» secondo il settimanale «L’Espresso» nel 1988 (che si premura di appiccicare un perplesso punto interrogativo al titolo, e che parla di «alto tasso di enigma» a proposito della modernità di un partito «che dialoga con Cl ed è contro il nucleare, che difende gli interessi di Silvio Berlusconi e che lancia frecciate contro la legge sull’aborto»), i «neosocialisti» tuttavia hanno infilato pian piano una leva di potenziale efficacia destabilizzatrice sotto uno dei macigni più ingombranti dell’ideologia italiana del nostro tempo: vale a dire quel complesso di convinzioni secondo cui nel nostro paese esistono due grandi partiti, entrambi «popolari», di massa, estesamente insediati nell’ambito di un variegato spettro sociale e soprattutto radicati in una cultura che attinge (pur con una gamma di strumenti diversi) a valori tutto sommato omogenei. Si tratta di una classica equazione a due incognite da cui poi sono stati fatti discendere in linea politologica due risultati differenti ma in fondo complementari: uno, che per uscire dall’impasse, dal blocco, dalla dissoluzione politico-istituzionale occorre pensare a qualche cosa di non troppo dissimile da una Grosse Koalition fra Dc e P ci, in modo da ancorare il mutamento della società alle due piattaforme sociopolitiche più solidamente rappresentative; due, ed è un ragionamento più elegante e aggiornato, che il sistema politico deve essere ridisegnato con nuove regole maggioritarie per giungere a due schieramenti in competizione, ognuno egemonizzato da uno dei due partiti «popolari». Ma entrambe le soluzioni, sia quella auspicata ormai sempre più debolmente dagli ultimi orfani della solidarietà nazionale sia quella sostenuta (ammiccando al Pci-Pds) da Ciriaco De Mita sulla scorta delle analisi di Roberto Ruffilli, agli occhi dei socialisti presentano il non lieve difetto di produrre la fine prematura della cosiddetta «rendita di posizione» del P si, quella posizione centrale e dirimente nell’arco dei partiti che ha consentito a Craxi, per esempio, di giungere con poco più dell’undici per cento dei voti alla presidenza del consiglio. Non è affatto casuale in tal senso che le punte di maggiore rivalità si siano registrate, oltre che con il Pci, con la sinistra democristiana. La Dc di De Mita e di Bodrato è, proprio dal punto di vista dell’ «antropologia», quanto di più lontano dal P si si possa immaginare. La sofferta e pensosa mentalità degli eredi di Moro, cultori di quella «politica come servizio» che male si attaglia a chi concepisce la politica come festosa prevaricazione o decisione comunque risolutiva, sembra fatta apposta per entrare in rotta di collisione con la linea di navigazione socialista. La raffica di più di duecento bocciature parlamentari nel corso dei quattro anni della presidenza Craxi può spiegare meglio di qualsiasi argomentazione di alta politica l’incompatibilità quasi fisiologica che si stende fra il Psi e la sinistra democristiana e li pone in rumoroso attrito. Ma anche questa guerra di logoramento è solo uno dei sintomi che illustrano la novità abnorme rappresentata dall’irruzione del Psi craxiano nel villaggio politico italiano. Una novità di carattere comportamentale così come culturale. Il fatto è che nella sua grande maggioranza il ceto politico del nostro paese era assolutamente coeso, legato a un codice condiviso che aveva consentito una crescente partecipazione «consociativa» alla gestione del potere. Il conflitto non veniva accettato come principio essenziale della vita democratica, bensì inserito in una complessa trama di mediazioni, e le istituzioni finivano per essere concepite più che altro come strumenti di produzione o camera di compensazione del consenso. Non è tutto: i canali culturali che collegavano la vita politica all’opinione pubblica tendevano a riprodurre automaticamente le grandi convenzioni su cui si reggeva il patto materialmente stipulato dai principali schieramenti politici. E queste convenzioni prevedevano che tanto l’area cattolica quanto l’area laica, così come in fondo l’area comunista, possedessero standard analoghi di legittimazione (nel settore dell’informazione, durante gli anni Settanta, ciò era puro senso comune, spirito del tempo, ideologia dominante, anche se con un più marcato birignao «di sinistra»). Si può verificare facilmente, a suffragio di questo argomento, che superato il periodo delle grandi scelte internazionali, negli anni Cinquanta, la polemica democristiana contro il Partito comunista ha assunto una netta coloritura ideologica quasi soltanto in funzione di richiamo, rastrellamento, o se si vuole ricatto, elettorale. Sul piano della prassi parlamentare, è più facile vedere Dc e Pci come operatori che condividono gran parte della scala di valori politici di riferimento e dei metodi di mediazione. E per quanto riguarda l’area laica, la vicenda nazionale ha visto certo il gran rifiuto di Giovanni Malagodi verso il centrosinistra e le nazionalizzazioni, ma ha registrato anche il paziente e insistito ruolo dei repubblicani rispetto ai comunisti, sempre attesi a una mutazione genetica che li potesse trapiantare senza rischi di rigetto nell’ambito governativo, con il Pri a fare da marchio di garanzia liberaldemocratica. Ormai sono fin troppo numerosi coloro che pensano che il sistema politico italiano ha subito il condizionamento derivante da una specie di vizio ciellenistico di fondo, che ha esaltato le caratteristiche collusive di una classe politica propensa a ripartire il potere piuttosto che a rischiare in proprio sulla base di programmi vincolanti e contendibili. E si accetti o no la tesi di questo peccato originale che continuerebbe a dare luogo a connubi non sempre casti, sta di fatto che l’arrivo del Psi «nuovo» sulla scena è stato percepito da ampi settori della politica e della cultura come il principio di uno scardinamento delle regole, scritte e non scritte, su cui si è articolato e sviluppato il sistema politico durante l’età repubblicana. Contro Togliatti e contro tutti: c’è del metodo nell’ostilità Ha scritto Angelo Bolaffi («MicroMega», 3/1986) che «l’accanimento feroce con il quale Berlinguer ha condotto la sua battaglia contro Craxi, venendo del resto ripagato con una violenza e brutalità pari se non superiori, non può essere ricondotto né a miserabile affare privato né semplicemente allo scontro fra due linee: si tratta di … una Realrepugnanz, una vera e propria antinomia tra due opposte concezioni del mondo e immagini del rapporto tra sinistra e Moderno». Dal canto suo, rispetto al Partito comunista il Psi ha condotto una lunga campagna «antistalinista», esattamente simmetrica agli attacchi che il Pci rivolgeva a Craxi nel nome del tradimento di classe o della questione morale. Da un lato un intellettuale comunista come Alberto Asor Rosa, nella primavera del 1987, rintracciava infatti la direzione presa da Craxi nei seguenti itinerari: «il deciso superamento di ogni pretesa di rappresentare la classe operaia (alla quale, anzi, il governo Craxi ha dedicato una delle sue battaglie più decise, quella per la soppressione del punto di scala mobile); il desiderio d’interpretare le esigenze di benessere e di affermazione dei ceti usciti dalla rivoluzione culturale, informatica e dei servizi dei decenni precedenti; una sostanziale adesione alle politiche di espansione capitalistica, appena temperata da un giustizialismo abbastanza approssimativo»; dall’altro, il Psi preparava la lunga offensiva anticomunista che avrebbe assunto toni accesissimi durante il 1988, con una serie di convegni, articoli sull’«Avanti!», dichiarazioni pubbliche in cui ciò che appariva evidente, la polemica di ordine storiografico, costituiva solo la parte visibile di un’iniziativa che era diretta in modo tanto evidente quanto non dichiarato a delegittimare il Pci. A delegittimarlo in quanto l’attacco ai fantasmi staliniani, con la deliberatamente provocatoria immersione «nella lettura e nella rilettura delle carte che parlano di una storia ormai lontana» (come scrisse Craxi-Ghino di Tacco il 3 marzo 1988), stabiliva in realtà un decisivo linkage con Togliatti e con quanto «il Migliore» aveva rappresentato nella vicenda della sinistra italiana: sgretolare il togliattismo significava assestare un colpo mortale alla supremazia comunista, frantumarne l’identità, mettere in crisi la consapevolezza di superiorità, rigore, lungimiranza e sagacia politica che si associava al ritratto e al mito togliattiano. Il «duello a sinistra» riprendeva vigore: e che la posta in palio non fosse data propriamente dagli eventuali esiti storiografici della campagna antistalinista è certificato dalla posizione via via più critica assunta da Norberto Bobbio. «Il Psi si sta allontanando sempre più dalla tradizione socialista», aveva confidato nel 1989 il vecchio maestro in un’intervista alla «Neue Gesellschaft». E in una lettera aperta a «MondOperaio» (dicembre 1989), in risposta alle domande di Luciano Pellicani, aveva riassunto tutte le proprie obiezioni alla politica socialista. Si tratta di un documento che nella sua brevità può essere considerato un piccolo quanto intenso manifesto del «disagio socialista». La presunta modernizzazione, stigmatizzava Bobbio, è un bel programma per tecnocrati. Della giustizia sociale non si parla più. L’improvviso «interessamento di alcuni settori del partito per il mondo cattolico» risulta fastidioso «e per me incomprensibile». Il riformismo, forte o debole non importa, non vuoi dire assolutamente nulla. Ma il brano più significativo veniva quando Bobbio citava alla lettera le parole di un suo articolo precedente: «Non ho fatto mistero in questi ultimi tempi di essere in totale disaccordo rispetto alle requisitorie antistaliniane, antitogliattiane, antisovietiche in genere, alle recriminazioni, alle proscrizioni, ai reiterati processi in effigie, alle condanne di una storia terribile da cui peraltro siamo usciti vittoriosi … Non sono mai stato stalinista … Ma non mi è mai passato per la mente di scagliare il più piccolo sassolino quando fosse destinato non a formulare un giudizio storico ma ad alimentare una rissa politica». Evidentemente l’idea nutrita da Bobbio del confronto politico interno alla sinistra era completamente diverso da quella elaborata dal Psi. Il filosofo, fedele al suo dogma di non avere nessun nemico a sinistra, risultava ormai fuori linea. Le parole d’ordine unitarie erano dimenticate, e della vecchia aspirazione all’unità delle forze della sinistra non restava neppure il senso di colpa per averla rimossa. Lo sbigottimento per il craxismo e per certe sue caratteristiche ritenute laceranti, perfino violente rispetto alle consuetudini, è un sentimento trasver- sale, diffuso fra tutti gli schieramenti politici. Dopo il Midas, «il manifesto» scrisse che Craxi è «l’ amerikano, il tedesco, ma anche il portoghese, l’israeliano e il cecoslovacco» e «il prediletto di un ambiente che va da Montanelli a un certo giro di ex comunisti specialisti in appelli per Solgenitsin». Dal che si capisce che il movimentismo socialista non atterriva soltanto i suoi rivali più immediati. Sconvolgeva in profondità, come ebbe a dire Claudio Martelli, i «tre ghetti» in cui erano state separate a suo avviso strumentalmente le culture: «di qui i laici, lì i cattolici, lì i marxisti». Il notissimo e discusso flirt socialista con Comunione e liberazione, avviatosi nell’estate del 1988 al Meeting ciellino di Rimini intitolato «Cercatori d’infinito e costruttori di storia», derivava proprio da questa intenzione di rimescolare tutte le carte: «Abbiamo bisogno di un partito socialista che sia insieme liberale e cristiano, che abbia una coscienza laica e una sensibilità cristiana», reclamava provocatoriamente Martelli, e tra il Psi e Cl c’è «un patrimonio culturale comune, venuto in luce anche sulla base della straordinaria lezione che ci è giunta dal dissenso nell’Est europeo … Sia noi che loro ci possiamo definire post-marxisti». In realtà il «patrimonio culturale comune» comprendeva anche alcuni aspetti piuttosto utili anche in termini di politica applicata. Comunione e liberazione, come il Psi, aveva in orrore De Mita, le giunte anomale tipo il «laboratorio politico» retto da Leoluca Orlando a Palermo, il comunismo e i comunisti, le aristocrazie politico-intellettuali «azioniste». Ciò che come si è visto risultava incomprensibile per Bobbio («Politicamente i cattolici non esistono. Ci mancherebbe altro che oltre i democristiani e i catto-comunisti, ci fossero nel nostro paese anche i catto-socialisti. Fa parte della tradizione socialista un fermo e coerente laicismo»), costituiva invece uno strumento utilizzabile efficacemente nella lotta politica, tanto su un piano generale quanto per applicazioni più particolari. In termini generali, Martelli aveva buon gioco a spiegare le ragioni del suo avvicinamento a Cl: «In tutta Europa e in tutto il mondo cattolici e protestanti votano liberamente o per i partiti democratici o per quelli conservatori: solo da noi tutto è rimasto congelato dentro le varie culture dell’appartenenza». In conclusione, e passando al concreto, «scuotere certezze che hanno determinato anche riserve di caccia politiche ed elettorali non può che rappresentare un beneficio per la democrazia». Già, ma allo stesso modo i benefici per la democrazia a cui alludeva Martelli potevano essere considerati altrettante imboscate dai partiti egemoni che sulla cultura dell’appartenza avevano costruito le loro fortune politiche. Che si orientasse verso i santuari dell’elettorato democristiano oppure verso gli ultimi sacrari del comunismo italiano, la spregiudicatezza socialista veniva percepita ogni volta come un’insidia gravissima alla pace del condominio politico, soprattutto inedita e quindi non facilmente neutralizzabile secondo gli schemi consueti della cooptazione e della ripartizione contrattata del potere. Restava in bilico, come sempre, la terza area, quella laica. «La minaccia più grave alla sopravvivenza dei partiti laici centristi – ha scritto Martin Rhodes (Politica in Italia, ed. 1988) commentando le politiche del 1987, cioè le elezioni del grande balzo in avanti del Psi – è l’ascesa del Partito socialista di Craxi, un partito che, nonostante la propria debolezza organizzativa, ha ridefinito la natura della politica centrista in Italia. Così facendo, Craxi e il Psi hanno accentuato la crisi di identità di repubblicani, liberali e socialdemocratici, provocando in ciascuno di questi partiti una divisione interna tra filosocialisti e antisocialisti». Il terreno politico esistente fra cattolici e comunisti, che Ugo La Malfa aveva cercato di monopolizzare, secondo alcuni ormai appartiene di fatto e di diritto al Psi. Ed ecco allora la prospettiva, finora minoritaria nel Pri, della creazione di un’autentica terza forza, «anche con Craxi in veste di novello Mitterrand di una grande sinistra». Il conflitto fra coloro che intendono stringere i legami orientando il partito verso un polo di democrazia laicosocialista (Susanna Agnelli, l’ex ministro delle finanze Bruno Visentini, l’ex ministro delle poste Oscar Mammì) e gli esponenti contrari a questa ipotesi è ancora intenso, e si è rivelato con una certa drammatica evidenza con il caso Mammì durante la formazione dell’ Andreotti settimo. Lo stesso Giorgio La Malfa appare ostile a un «asse» preferenziale con i socialisti; solo le disastrose posizioni assunte dal Pds a proposito della guerra del Golfo e le sue perduranti incertezze in ordine alla politica economica impediscono al segretario del Pri di procedere con determinazione verso quel progetto trasversale che egli considera razionalmente necessario nel futuro dell’Italia (con il sistema politico scomposto e riallineato sulla base del principio dell’accettazione del mercato: da una parte cattolici liberali, partiti laici, socialisti, ex comunisti «riformisti»; dall’altra cattolici integralisti/populisti, postcomunisti o neocomunisti situati sul fronte dell’antagonismo, area della protesta «anticapitalista»). Progetto che inevitabilmente stempera il ruolo del Psi nell’indistinto di un cambiamento culturale dagli spettacolari riflessi politici, con la spaccatura in due tronconi della Dc e di ciò che resta degli ex comunisti; e che probabilmente maschera la profonda diffidenza di La Malfa verso il Partito socialista e sulla prospettiva di un’alleanza diretta ed esplicita con il suo leader. Una straordinaria ostilità, diffusa in quasi tutti gli schieramenti, accompagna insomma l’evoluzione socialista dal 1976 a oggi. Incapsulato nella nicchia di orrore che suscitano i fenomeni inattesi e sconvolgenti, a sua volta il Psi viene non di rado considerato, come l’Alien di Ridley Scott, «ostilità assoluta». Questo principio di ostilità rende possibile suddividere diagonalmente il mondo politico in antisocialisti e filo-socialisti, e ad alcuni schieramenti o fazioni di definire su questa diagonale horror le proprie scelte politiche. Ma ha consentito anche al Psi, forse per la prima volta nel dopoguerra, di guadagnare un’identità. La Grande Riforma e il governo socialista Sono passati quindici anni dal Midas. Un anniversario può costituire un’occasione utile per formulare bilanci. Ma prima di procedere alla computisteria dei dati positivi e negativi, e di esaminare il saldo, varrà la pena di specificare che i quindici anni dell’era Craxi, questo «feudalesimo diffuso temperato dalla monarchia assoluta», non sono stati affatto un percorso lineare e conseguente, scandito da progressi necessari e deterministicamente prevedibili. Quando il Psi craxiano chiama a raccolta i propri intellettuali (Giorgio Ruffolo, Giuliano Amato, Gino Giugni, Federico Mancini, Francesco Forte, Franco Modigliani ecc.) per stendere il «Progetto per l’alternativa socialista», approvato al congresso di Torino del 1978, il clima è ancora dominato dalle nubi della solidarietà nazionale, e la necessità prioritaria consiste nello sganciarsi dall’abbraccio Dc-Pci. Il termine «alternativa» connotava in quel momento una scelta politica di grande prospettiva ma che nello stesso tempo doveva essere spendibile immediatamente sul mercato politico. Occorreva differenziarsi, proporre l’icona di un socialismo democratico ammodernato, senza nessun tratto di confusione con esperienze di socialismo reale e prendendo qualche distanza anche rispetto alle delusioni procurate dalle rigidità statalistiche delle socialdemocrazie europee. In realtà, a rileggere oggi il «Progetto socialista», «telaio di idee-forza per costruire una società socialista moderna», riesce difficile non provare il senso di un’intrinseca sfasatura: quasi in ogni pagina sono miscelati, o piuttosto emulsionati, elementi derivanti da una concezione liberal, sostenitrice di un pluralismo vivace e compiuto, ed elementi di stretta pianificazione figlia degli anni Sessanta, il Labour Party e suggestioni neomarxiste, i movimenti e le istituzioni, cultura riformista e cultura gauchiste. Ma in ogni caso il «Progetto», oltre che a mobilitare gli intellettuali (anche nell’esercizio critico successivo alla sua presentazione), serviva a segnalare che un partito già ampiamente inserito nei meccanismi dell’amministrazione, logorato sul piano politico elettorale e organizzativo da questa esperienza, sapeva produrre uno sforzo significativo per indicare che tipo di società aveva in mente, e quali modificazioni voleva introdurre nella dinamica socio-economica che caratterizzava la fine degli anni Settanta: per quanto viziato di enfasi o di astrattezza lo si potesse valutare, rappresentava tuttavia l’estremo tentativo di cogliere nella deriva alcune piattaforme «ideologiche» del cambiamento sociale e di fornire alcune chiavi e l’attrezzatura per interpretarlo e forse gestirlo. Bastano però tre o quattro anni perché il dibattito fra il «riformismo pragmatico» di Giuliano Amato e il «riformismo radicale» di Giorgio Ruffolo si esaurisca, sopraffatto da evenienze di maggior momento. Dopo le elezioni politiche del1979 (con il Psi per la terza volta consecutiva sotto il dieci per cento) salta per aria l’alleanza fra Craxi e la sinistra di Signorile, e nel rinnovato clima di scontri gli intellettuali fanno la loro parte: riunioni segrete, contestazioni contro il segretario, accuse a Craxi di incoerenza, mancanza di serietà, connessioni con poteri economici, svuotamento del partito, mentre «la ragione politica si corrompe nell’intrigo, la parola compagno assume una connotazione derisoria». Nel 1980 però il Psi è di nuovo nel governo, e nell’agosto del 1983 Bettino Craxi diviene il primo capo del governo socialista nella vicenda della repubblica. Il passaggio alla nuova fase «governativa» è sottolineato da due congressi (42°, Palermo 1981 e 43°, Verona 1984) e da un altro appuntamento fondamentale, la Conferenza programmatica di Rimini del 1982. Il «partito nuovo» nasce da questi meeting e il cambiamento di prospettiva è, questo sì, «radicale». Dal Congresso di Palermo in poi, la parola «progetto» scompare dal lessico socialista: da un lato, si comincia a inneggiare alla creatività spontanea, all’energia innata nella società e nella vita economica. Per il Psi che qualcuno comincia a chiamare «neoliberale», la dialettica fra stato e mercato tende a inclinare sempre più a favore di quest’ultimo, fino a considerare fattori ineluttabili di paralisi e di stagnazione le programmazioni pubbliche di lungo periodo. Dall’altro lato, occorre trovare gli strumenti perché la spontaneità sociale ed economica non venga mortificata da un sistema politico inadeguato, condotto al ristagno dai propri vincoli intrinseci: «I programmi del Psi – ha scritto Wolfgang Merkel (Prima e dopo Craxi. Le trasformazioni del Psi, Liviana, 1987) – non sono caratterizzati negli anni ’80 da una esigenza di trasformazione della società, ma da misure atte a incrementare l’efficienza e la razionalità dell’attuale sistema politico. Alla rinuncia a interventi programmatori nell’economia … si giustappone il rafforzamento dell’esecutivo centrale che ha ormai il compito di garantire la governabilità del sistema. Così, l’idea di una "società riformista" … si è risolta nell’idea d’una "grande riforma" delle istituzioni politiche … ». Anche se gli strumenti della Grande Riforma non sono mai stati specificati con esattezza, o si sono via via modificati in larga misura, l’idea craxiana della governabilità ha preso corpo sul campo, dall’83 all’87, cioè negli anni di Bettino Craxi primo ministro. Ad esempio, le argomentazioni di stampo neo-corporativo affiorate nella Conferenza programmatica di Rimini si incarnarono nel decreto sui tagli alla scala mobile del 14 febbraio 1984. Il San Valentino socialista spaccava il sindacato, metteva il Pci in un’opposizione non agevolmente sostenibile (e che lasciava trasparire significativi dissensi e malumori interni), e inaugurava un possibile «modello» che prometteva di governare insieme trasformazione e stabilità. Il fatto poi che per le 27.200 lire lorde del suddetto decreto si sia giunti al referendum del 9-10 giugno 1985, è soltanto un’appendice, e rappresenta una prova lampante della capacità di Craxi (si potrebbe forse dire: del Craxi di allora) di puntare alto, di scommettere tutta una politica su una questione probabilmente più simbolica che sostanziale. A proposito del decreto sulla contingenza infatti, tecnici del valore di Guido Carli o fustigatori della politica come Eugenio Scalfari avevano espresso giudizi freddini, considerandolo raffazzonato, più declamatorio che efficace, «un decreto piccolo piccolo»: in effetti, i tre o quattro punti di contingenza tagliati potevano significare una riduzione dell’inflazione compresa fra lo 0,5 e l’uno per cento, una quota non propriamente decisiva. Ma ciò che sfuggiva in giudizi simili era la portata suggestiva di un’ipotesi di sviluppo tesa a costituire il benessere, a distribuirlo in modo regolato, a «corporarlo» su base consensuale. Si trattava di qualcosa che magari oscuramente era in sintonia con l’umore collettivo degli italiani in quel momento: dopo i lunghi anni passati a liberare cariche di risentimento sociale e politico, tutto congiurava a favore di un governo che desse l’impressione di assecondare nuovamente la crescita, determinando con chiarezza rinunce e obiettivi. L’abbattimento dell’inflazione, il ribasso delle materie prime, il ritorno delle industrie al profitto, la terza Italia dell’imprenditoria diffusa, «l’industria oltre la siepe», il sommerso, l’occupazione informale, il design, il made in ltaly, la Borsa alle stelle e l’improbabile sogno del «capitalismo di massa» trovavano un principio di sintesi politica nella leadership craxiana. In questo senso, il referendum sul costo del lavoro del 1985, con la richiesta di legittimazione della politica economica del governo saltando alcune delle tradizionali mediazioni politico-sindacali, può essere considerato con qualche ragione un episodio di «democrazia plebiscitaria» ante litteram. Primi bilanci Secondo l’analisi proposta di recente da Sabbatucci, tuttavia, anche la prolungata presidenza socialista rappresenta un’occasione mancata: i risultati raggiunti dal P si negli anni Ottanta «erano … ottenuti in base a una logica tutta interna al sistema politico vigente in oggi in Italia… Sfruttando tutte le opportunità offerte da questo sistema (che pure dichiarava di voler riformare) e diventandone il massimo beneficiario in termini di potere, il Psi finiva con l’identificarsi con esso e col precludersi la possibilità di intercettare l’ondata crescente di dissenso che proprio contro quel sistema andava montando» (Il riformismo impossibile, ci t.). Ci sono buone ragioni per considerare viziate dal senno di poi osservazioni di questo tipo: durante il quadriennio Craxi le prospettive potevano di fatto apparire assai diverse. Certo, un Asor Rosa poteva sottolineare che «Craxi … ha dimostrato che quattro anni ininterrotti di governo sono di per sé, almeno in Italia, un valore. Mentre il governo, bene o male, ha governato, il paese è andato avanti, più o meno per suo conto, ma è andato avanti. Ma i socialisti, nel frattempo, non hanno modificato il sistema politico italiano: lo hanno soltanto "usato" ai loro fini. Il massimo di movimento potrebbe quindi essere soltanto l’immagine spettrale, fantasmatica, del massimo d’immobilità e di conservazione». Si tratta di obiezioni argomentate in modo eccellente dal punto di vista della teologia politica, ma piuttosto inessenziali se il compito è quello di giudicare dei risultati, a caldo. Se l’obiettivo imputato al Psi craxiano era la trasformazione di lungo periodo dell’Italia in direzione socialista e riformista, probabilmente il bilancio può apparire smilzo, e l’allegro falò degli anni Ottanta appunto uno dei tanti fuochi fatui prodotti dai resti del socialismo italiano. Se invece si guarda alle condizioni specifiche in cui il governo Craxi si trovò a operare, alla composizione del quadro politico, all’impraticabilità di alleanze con i comunisti per trasformazioni, come si diceva una volta, «di struttura», i risultati appaiono di profilo tutt’altro che ordinario. Si arriva al risultato (perfino stridente, nel nostro sistema intessuto di delicate armonie spartitorie), di vedere un socialista al Quirinale e un altro socialista a palazzo Chigi. Pura logica di occupazione e sfruttamento del potere? «Quando sento parlare, a proposito di Craxi, di una logica di puro potere, o di uno scontro di potere, provo una noia e un fastidio che nulla vale a curare», scrive su «MicroMega» (3/1986) uno degli aedi del craxismo, Giuliano Ferrara. Segue l’elenco degli effetti, di questo scontro per il potere, «quelli sì che mi interessano… L’Italia non è più democristiana. La leadership governativa del partito di maggioranza relativa è e resterà in discussione: da dogma si è fatta problema politico. Nell’industria di Stato, nelle banche, nel sistema dell’informazione, nell’economia privata è successo qualcosa. Il riassetto dei poteri, amministrati per decenni in regime di condominio laico-cattolico, ma sempre con una dominante democristiana da nient’altro limitata che da un diritto di veto comunista, è il tema vero che la presidenza socialista ha squadernato davanti ai nostri occhi». Secondo queste logiche di Realpolitik corsara si concepisce meglio anche lo stile di governo praticato dal Craxi dei medi anni Ottanta. Se «sovrano è chi decide nello stato di eccezione», c’è un altro caso davvero esemplificatore di questo stile, quello di Sigonella: «Craxi, l’ amerikano, – commenta Adriano Sofri (La questione socialista, cit.) – espugna in un sol colpo il territorio su cui il Pci, nato col peccato originale d’essere un partito di Mosca, aveva costruito la sua faticosa identità: il risorgimentismo, l’indipendenza nazionale, la denuncia della sudditanza agli Usa. Craxi maneggia il caso Lauro e i suoi sviluppi come capo del governo e insieme leader dell’opposizione». Il leader Craxi ignora il blocco del sistema politico, taglia in due gli schieramenti come fossero di burro, sconvolge l’atlantismo tradizionale degli alleati laici, scopre le venature antiamericane che serpeggiano sotto la pelle della Dc, brucia la terra sotto i piedi del Pci. Per finire, dopo la crisi e il reincarico, legittima la propria (discutibile, eccome!) posizione con un discorso parlamentare di violenza inaudita, passato alla storia perché accomuna Giuseppe Mazzini e Yasser Arafat nella giustificazione della lotta armata per la sovranità nazionale. Forse a quel punto la sinistra sarebbe pronta a conferirgli un’investitura, se qualcun altro, a sinistra, possedesse analoga fantasia politica e decidesse che vale la pena di tentare un’alternativa sotto la copertura carismatica del capo del Psi. Ma è anche lo stesso Craxi che non se la sente di proseguire nelle scorribande movimentiste dentro il sistema parlamentare, e rinuncia alle occasioni di sconvolgere alleanze e rivalità cercando equilibri questa volta sì più avanzati con radicali e Verdi. Dopo un lungo attimo con il fiato sospeso, non succede niente. Il Pci è alle prese con il dopo-Berlinguer, e prepara la sua evoluzione fatta di ricorrenti involuzioni. Craxi, bocciata la «staffetta» di governo con la Dc, va alle elezioni, guadagna tre punti percentuali e se li mette in tasca. Poi si siede sulla sponda del fiume, e attende che la lunghezza dell’onda di piena socialista gli riconsegni quanto la contrattazione partitica gli ha nuovamente sottratto. Il riflusso e l’attendismo Ma il fiume è traditore: serpeggia, ristagna, imbocca cunicoli carsici. Alle attesissime elezioni europee dell’89, nonostantela sindrome cinese, l’effetto Tiananmen, mentre il Pci resiste più del prevedibile, il Psi cresce di uno striminzito mezzo punto; alle amministrative del ’90, il Pci comincia a sgretolarsi, e il Psi pesca un altro mezzo punto. Anche se è l’unico partito a non perdere sullo sfondo dell’attacco leghista, l’onda è più lenta del previsto. Forse per questo motivo, Craxi si trova nella condizione di dover temporeggiare. Sul piano dell’immagine ciò non gli è troppo funzionale: che cosa rappresenta per l’opinione pubblica un «governatore che non può governare», un decisionista senza decisioni da prendere? È probabile che dopo avere movimentato dall’interno il sistema politico, per riprendere concretamente l’iniziativa gli occorra un avvenimento esterno, uno shock sugli equilibri dei partiti. Può essere la concorrenza del senatore Bossi alla Dc nell’Italia settentrionale, oppure il rapido degrado di un Partito comunista ormai sempre più ex. Sta di fatto che, nell’attesa della condizione più favorevole, deve annidarsi dentro il governo, tenere le posizioni, aggrapparsi all’alleanza con Andreotti e Forlani. La ricontrattazione complessiva del potere con la Dc è una specie di garanzia impropria per evitare che qualche sommovimento imprevisto o gli spasmi del sistema paralizzato producano un cambiamento di regole che il Psi giudica sfavorevoli. Dalla conclusione del «patto del camper» con Arnaldo Forlani, il segretario socialista entra definitivamente installo: priva la strategia socialista del suo strumento più tradizionale e sperimentato, vale a dire la rivalità con la Dc all’interno della medesima coalizione di governo. Per qualche tempo, sulla politica italiana si dispiegano gli effetti di un faticoso «trattato globale», una specie di] alta all’italiana, che ridisegna le posizioni dei due partiti, assegna i posti di governo, definisce gli accessi alle maggiori cariche istituzionali, e via via ricompone gli assetti in tutte le articolazioni degli organi pubblici, nelle amministrazioni locali, nell’informazione, nelle banche. La riconosciuta lealtà del Psi nei confronti dell’esecutivo sottolinea il rispetto degli impegni assunti nel nome della vecchia idea della governabilità, ma a questo punto rappresenta anche il coperchio sistemato ermeticamente sulle prospettive del partito. Anche quando manda in crisi il penultimo «esausto» governo Andreotti, a metà marzo 1991, Craxi deve comunicare all’assemblea nazionale socialista che la collaborazione con la Dc non è affatto esaurita e orizzonti di alternativa non se ne vedono. Per potere esercitare questo sfibrante surplace in attesa di occasioni più favorevoli, i socialisti sono obbligati però a rinunciare a qualsiasi spinta riformatrice sul terreno istituzionale. Anzi, il presidenzialismo socialista, tutt’ora non definito nell’ambito delle regole generali di un sistema politico rifondato, e non suffragato da ipotesi definitive di riforma elettorale, è servito soprattutto come deterrente rispetto alle riforme altrui. Il quesito di fondo della nuova condizione socialista lo ha posto sinteticamente ma in modo stringente Gian Enrico Rusconi ( «MicroMega», 2/1991): «Il Psi ha raggiunto la maturità necessaria a guidare l’operazione presidenzialistica? Oppure sta semplicemente sfuggendo all’esaurimento delle sue risorse?». Un possibile e approssimato schema interpretativo del comportamento socialista, intermedio fra le due domande estreme poste da Rusconi, è allora il seguente. Il Psi non può accettare una mutazione per partenogenesi del sistema politico che conduca a effetti per lui indesiderati. Deve attendere, avere pazienza, aspettare che si creino le condizioni per un’offensiva con ragionevoli probabilità di successo. L’attendismo socialista è stato più volte teorizzato a chiare lettere sulla rivista teorica del partito: «per l’Italia, – ha scritto infatti Salvo Andò su «MondOperaio» (aprile 1990) – riteniamo che bisogna guardare in due possibili direzioni. Una è certo quella del bipartitismo. A questo però fa ancora ostacolo un fattore essenziale: il fatto che in uno dei due possibili poli coesistono culture e in culture di governo … l’introduzione di un bipolarismo coatto favorirebbe soltanto un polo dello schieramento, condannando l’altro alla lacerazione: alla vecchia lacerazione tra riformismo e avventurismo». Che è un bell’argomento ad un tempo per dirsi di sinistra, attribuire al P ci l’impraticabilità dell’alternativa, ed essere contrari alla riforma con premio di maggioranza alla coalizione vincente. Difatti, suggerisce Mario Patrono nella stessa sede (ottobre 1990), per accettare un modello liberale di alternanza, «al Pci … ci vuol tempo, e forse un paio di elezioni da tenere ancora con la proporzionale: la quale, secondando le fasi fortemente dinamiche del quadro politico e dei singoli partiti, dovrebbe consentire al Pci di maturare quel processo di chiarificazione interna e di avvicinamento alle posizioni del socialismo riformista che costituiscono la premessa per una modifica in senso maggioritario della legge elettorale da fare in un disegno organico di riforme istituzionali». Ecco allora che il Psi dichiara a gran voce «incostituzionali, incostituzionalissimi », nelle parole di Craxi, i tre referendum elettorali promossi da Mario Segni; e più di recente un caso di «ubriachezza molesta» la volontà di tenere il 9 giugno 1991 l’unico referendum non bocciato dalla paternalistica sentenza della Corte costituzionale, quello sulla riduzione a una sola delle preferenze nel voto per la Camera (dimenticando, sulla scia della diversità del momento politico, che questa soluzione era stata indicata a suo tempo come uno dei punti fermi della della Grande Riforma socialista). E ancora, ecco il Psi assumersi la responsabilità di azzerare l’opportunità/rischio di riforme istituzionali, durante la complicata trattativa di aprile per la formazione dell’Andreotti settimo: ciò che era apparso come un paradossale miracolo della politica italiana, con la classe politica che accettava di autoriformarsi per superare il sistema di veti che essa stessa aveva posto in essere, cioè puntava su una soluzione miracolistica per l’incapacità di produrre soluzioni «normali», viene bloccato in extremis da Craxi con un rilancio del presidenzialismo, via referendum propositivo, inaccettabile per la Dc. Tutto comprensibile, tutto legittimo. Ma al prezzo di alcune conseguenze. Innanzitutto un legame sempre più intenso, che l’immaginario collettivo ha enfatizzato nel Portaborse impersonato da Nanni Moretti, con le zone d’ombra del sottogoverno. L’identificazione definitiva, da parte dell’opinione pubblica, del Psi come componente di quel «sistema di potere democristiano» che «MondOperaio» si affanna a censurare e di fronte al quale Giorgio Ruffolo non smette di sospirare. Su un piano più generale, l’accentuazione di uno statuto di rivalità rispetto al partner Dc – come ultima risorsa di differenziazione – che non mancherà di produrre ulteriori occasioni di disordine amministrativo nel finale elettoralistico della legislatura. E infine il sospetto più imbarazzante: vale a dire che per qualche misteriosa ragione il partito del movimento si sia trasformato rattrappendosi in fattore di blocco del sistema politico. Se si comprendono agevolmente le ragioni per cui il Partito socialista è diventato, da neo-liberale o neo-corporativo, neo-attendista, non è detto però che alla grandezza delle attese debbano seguire necessariamente risultati proporzionali. Temporeggiare troppo a lungo può risultare pericoloso, e difatti Craxi, nell’ultima crisi di governo, aveva tentato di andare subito allo scioglimento delle Camere e alle elezioni anticipate. Non gli è riuscito, e ora deve aspettare ancora. Intanto, il principio di novità politica, incarnato dal Psi negli anni Ottanta, gli è stato sottratto dalle Leghe (i «grandi eversori», come li ha definiti Giuliano Amato: ma un esorcismo non fa una contromossa politica). Per resistere i dodici mesi che mancano alla fine naturale della legislatura, Craxi deve proporre all’opinione pubblica una visione bifocale, capace di distinguere fra il ristagno di oggi e le promesse di domani: cioè brandire la soluzione presidenzialista a venire come l’unica svolta istituzionale capace di produrre una vera trasformazione; e nello stesso tempo convincere l’opinione pubblica che solo in nome di quell’altissimo obiettivo ha dovuto sottomettersi all’obbligo penoso di bocciare le bassezze riformiste degli altri partiti suoi alleati. È un esercizio di alta acrobazia, che in altri momenti si sarebbe giudicato facilmente come pretestuoso e condannato al fallimento. Ma nel clima di insofferenza per il sistema partitocratico, e considerando il probabile crescente desencanto di una sinistra sempre più frammentata e priva di leader veri, chi può giurare che rispetto al basso profilo degli altri partiti storici non risulti più attraente, mobilitante, «plebiscitabile» insomma, il funambolico, apparentemente schizofrenico, strabismo craxiano?

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