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Che ne sarà della Democrazia cristiana

01-02 1991

Perché parlare della Dc? Affrontare oggi la questione democristiana appare un compito vagamente smisurato rispetto agli strumenti analitici a cui ci si vorrebbe affidare. «In tempi in cui dalla politica non ci si aspetta niente di buono, Andreotti corrisponde bene all’immagine di uomo del tempo», aveva detto Italo Calvino: e il giudizio risultava forse più spietato per ciò che riguardava la politica che per la definizione dell’attuale capo del governo. Se dalla politica non ci si aspetta nulla, che cosa ci si aspetterà dal maggiore partito italiano? Per ragioni forse connaturate fisiologicamente all’evoluzione delle grandi formazioni politiche, la Dc si è trasformata progressivamente, anehe agli occhi di molti cittadini a essa non ostili pregiudizialmente, in un oggetto dai contorni troppo indistinti per risultare ragionevolmente giudicabile. La sua evidente sovrap­ posizione su ampie fasce della società italiana così come il suo profondo intreccio con il sistema politico e istituzionale sembrano impedire di fatto un’indagine puntuale su singoli temi e su rubriche limitate del «discorso politico» che essa rivolge al paese; esaminare dall’interno la situazione sul metro di un classico esame dell’organizzazione di partito si manifesta a priori come un approccio insoddisfacente, come se qualcuno volesse proporre una ricerca sul rendimento economico della Fiat attraverso l’identikit della strut­ tura aziendale vista come un’articolazione di capireparto e di personale tecnico ai vari livelli. Dal basso, lascia perplessi ogni eventuale tentativo di fotografare il partito dal lato della partecipazione, prendendo in considerazio­ ne indicatori come il numero degli iscritti o la loro suddivisione in quota parte tra le varie aree democristiane; dall’alto, non sembra più il caso nemmeno di ricorrere al tradizionale – e in fondo astratto – schema «poliarchico» che interpretava la composizione per correnti come l’esplicazione in blocchi di potere di realtà clientelari e fasce corporative «razionalizzate» nell’ampio spettro politico della struttura dirigente. A scanso di equivoci, sottolineo che ho parlato fin dall’inizio di «questione» democristiana per una ragione semplicissima e fondamentale: e cioè che una questione democristiana esiste ed è centrale nella vita italiana contempo­ ranea e per le prospettive del nostro paese. È, in sostanza, la questione di un partito autenticamente «pigliatutto», con un bilancio in attivo per un miliardo e 896 milioni, che raccoglie circa un terzo dell’elettorato, che fa da perno all’attuale alleanza di governo, che si ritrova dopo l’annus mirabilis 1989 e la svolta del Pci-Pds senza la tradizionale rendita di posizione anticomunista, che promette e non di rado mantiene (malgrado una costante propensione ai bizantinismi, come si è visto durante la crisi del Golfo) una certa affidabilità in politica estera più o meno nello stesso modo in cui promette e per ora ha mantenuto, in politica interna, di non produrre l’affondamento definitivo della nave Italia. Il modello democristiano: «Prendere o lasciare» Ci si potrebbe accontentare di questi esili dati di fatto, se non fosse che gli obiettivi e le responsabilità del primo partito di governo fuoriescono dalle rotte della navigazione a vista, o come suggerisce Ciriaco De Mita, dalle esigenze vischiose, attaccaticce del «tirare a campare». O perlomeno: per galateo si è ancora affezionati alla vecchia idea che i partiti, e quindi a maggiore ragione la Dc in quanto incarnazione in forma di partito dell’attitudine a governare, debbano possedere alcune idee-guida relative al modo in cui esercitare il mandato conferito dai cittadini elettori. Non si sussurra nemmeno più una parola impegnativa come progettualità, ma ci si riferisce almeno per convenzione a una serie limitata di finalità, che non siano del tutto slegate né dalla necessità di raccogliere il consenso dei cittadini né da alcuni semplici obiettivi di miglioramento della condizione del paese. Uno spirito quindi ben educato potrebbe chiedere con le buone maniere e senza intenti provocatori ai responsabili della Democrazia cristiana se hanno qualche nozione non eccessivamente imprecisa, per dire, sul risanamento del Mezzogiorno, sulla riformabilità del sistema tributario, della pubblica amministrazione, della sanità. A cui farebbe da contraltare, sempre sul piano dei fondamentali, una domanda su quale tipo di «prodotto politico» intendono offrire all’opinione pubblica, all’elettorato giovanile soprattutto, sempre beninteso che il prodot­ to non sia costituito dal piccolo cabotaggio volto a conservare un consenso di carattere più che altro inerziale. Ma anche quest’ultima è una via poco promettente. Il catalogo dei problemi italiani è talmente ampio e ricco, dal livello elevatissimo del debito pubblico agli standard piuttosto bassi di funzionamento dei servizi pubblici, che domandare una risposta alla classe politica costituisce un esercizio infruttuoso. Si rischia di ottenere una involontaria quanto meccanica risposta ideologica, la riemersione pavloviana del riflesso condizionato dovuto al fatto che i partiti italiani non sono stati in competizione sul come gestire il paese, e quindi disponibili a sottoporre al giudizio collettivo le misure concrete da elaborare per reagire ai problemi della realtà effettuale, ma sono stati invece rivali sul piano dello statuto fondamentale, dei pregiudizi e delle idealità costitutive. A partire dal 18 aprile 1948, in genere la Dc si è preoccupata di offrire agli italiani, e di farglielo sapere, un «orizzonte di libertà», o qualcosa di simile. Era un intento altamente apprezzabile. Ma dopo i primissimi anni di governo, in cui vennero costruite le intelaiature dell’Italia contemporanea, tutte le programmazioni divennero in breve altrettante occasioni perdute, sufficienti tutt’al più per alimentare i rimpianti degli alleati di centrosinistra; e i programmi di governo una serie di schede e indicazioni largamente svincolate dalla loro applicazione pratica e dalla valutazione della loro efficacia se non al momento delle verifiche e dei rimpasti, cioè della ricontrattazione degli accordi di governo. È arduo insomma portare la Dc sul terreno della discussione approfondita dei risultati dell’attività di governo, a meno che non si accetti il «prendere o lasciare» che riguarda il sistema italiano nella sua totalità. Questo tuttavia non è privo di conseguenze sull’identità stessa del partito: se si accetta la prospet­ tiva, suggerita talvolta esplicitamente anche da molti dirigenti democristiani di spicco, che l’azione di governo della Dc avviene entro i confini di uno spazio generico, nel quale si assiste di solito a un disinteresse di fondo per i termini concreti e ultimativi del governare, l’immagine dell’amministrazione democri­ stiana difficilmente potrà sfuggire a quella di un laissez-faire incessantemente mediato, teso soprattutto a garantire una continuità media delle condizioni del paese, ma con scarse indicazioni sulle priorità effettive, e quindi suscettibile di giudizi anche perentori sull’inadeguatezza della percezione dei problemi reali. Un osservatore che adottasse l’ottica dell’ingenuità potrebbe chiedersi qual è l’atteggiamento democristiano di fronte ai contenuti del governo, alle scelte e alle decisioni, e ricavarne per serie storica che la via Dc alla gestione del paese consiste nel subordinare ogni provvedimento a una concezione squisitamente politica (anche se nei termini di politique politicienne), in cui è prevalente la predeterminazione del consenso. Ciò stempera ogni soluzione nella contrat­ tazione, e, una volta che sia tramontata la posizione antisistema del suo massimo antagonista, rende manifesta la povertà culturale della Dc: un partito che si limita ad assecondare variamente le richieste di benessere del maggior numero possibile di elettori, le domande di sgravi fiscali della Confindustria e di aumento delle pensioni d’annata, tagliando la testa e la coda di ogni rivendicazione, non sembra candidarsi con prepotenza per governare nei prossimi anni la transizione all’Europa, al mondo, al Duemila. Potrà forse rivendicare una più consumata saggezza paternalistica rispetto alle velleità dei concorrenti politici, una consuetudine e un controllo del sottogoverno che altri non possiedono, ma si ritroverà scoperta, priva di punti di vista, non appena le scelte si faranno stringenti. Il partito delle correntzi cioè l’alternativa fatta in casa Allora non sembra tanto casuale che anche la configurazione del partito abbia perso gran parte delle differenziazioni a cui ci si era abituati (in realtà le distinzioni peqnangono, si acuiscono, proliferano: ma se ciò è vero sul piano individuale o di piccolo gruppo, e quando l’identità di corrente viene evocata nell’ambito di trattative negoziali o spartitorie, non risulta altrettanto vero quando gli schieramenti interni democristiani si definiscono coalizzandosi in funzione dell’esercizio della leadership del partito). In questo senso, le anime della Dc, che un tempo venivano date per numerose, oggi appaiono ridotte al minimo, accorpate in schieramenti non particolarmente differenziabili. Oltre tutto, se «il valore delle correnti – come ha scritto un insider come Marco Follini (L’arcipelago democristiano, Laterza, 1990) – … era nella loro capacità di accrescere, diffondere, irradiare la presenza dei partiti in una democrazia che affidava ad essi, e soltanto ad essi, la funzione di collegamento tra la società e le istituzioni», nell’epoca di un giudizio popolare senza appello contro la partitocrazia, tutte le differenze, di fatto, evaporano. I commentatori provano ancora a distinguere fra il Grande Centro doroteo (o post-doroteo) e la sinistra. Ma chi è in grado di definire la differenza, poniamo, fra Gava e De Mita sulla base di solide opzioni governative? «Credo che le correnti non esistano più come tali», ha confessato De Mita: «Probabilmente sono rimasti i capicorrente, e bisognerebbe risolvere questa contraddizione». Difatti, l’idiosincrasia fra il centro e la sinistra Dc coinvolge quasi esclusivamente da un lato problemi di leadership interna, com’è naturale in qualsiasi organizza­ zione complessa in cui si svolgono lotte di potere, e dall’altro le questioni ormai vagamente irritanti del rapporto con gli altri due grandi partiti, il Psi e il Pds. Non è un segreto che la fortuna della Democrazia cristiana è dipesa a lungo dalla sua capacità di presentarsi, in un sistema politico bloccato dalla inutiliz­zabilità del Pci, come continuamente alternativa a se stessa. La rotazione fra i cavalli di razza, i patteggiamenti fra le correnti, le rotture e i riequilibri congressuali garantivano l’incessante rimessa in cartellone di uno spettacolo trasformistico che sembrava fungere in modo abbastanza efficace da surrogato di un modello di alternanza autentica. Questo articolatissimo sistema di potere e di rappresentanza permetteva da un lato di metabolizzare tutte le spinte centrifughe, e dall’altro di scaricare all’esterno, specialmente sugli alleati di governo, i propri conflitti e le proprie tensioni. La rottura di questo schema dell’alternativa per partenogenesi è dipesa soprattutto dall’irruzione di Bet­tino Craxi sulla poltrona di primo ministro. Il decisionismo craxiano, l’enfasi del segretario socialista sulla governabilità (che, non va dimenticato, nella percezione collettiva sono andati in parallelo con uno dei migliori periodi della vicenda nazionale) hanno determinato almeno due effetti: in primo luogo hanno dimostrato all’immaginario di massa che la scienza del governo non era infusa per sanzione divina nel corpo democristiano, e inoltre hanno posto allo scoperto la debolezza delle strategie consociative su cui la Dc aveva costruito la propria posizione nel nostro sistema politico e che consisteva nel considerare sostituibile – e quindi ricattabile – ogni alleato. Approfittando del proprio ruolo decisivo nella costituzione di ogni alleanza di governo, il Partito socialista ha potuto sviluppare una rendita che per lunghi tratti ha dato risultati elevatissimi. Contrattando la propria presenza nel pentapartito, grazie al proprio ruolo di partito di governo con in tasca la chiave dell’alternativa, il Psi poteva riscuotere dividendi inusitati sul piano della politica applicata. Ma soprattutto poteva esercitare un’originale ed efficace funzione di blocco verso ogni prospettiva tesa a limitarne il potere. La tradizionale propensione democristia­na a risolvere per via consociativa ciò che sarebbe stato precluso dagli accordi espliciti di coalizione, e cioè ad ammiccare al Pci secondo convenienza, veniva tagliata di netto dai veti socialisti. La celebre «politica dei due forni», il capolavoro pragmatico e tattico della Dc andreottiana, consistente nell’uso e nella strumentalizzazione dei comunisti per ammorbidire i propri alleati, perdeva ad un tratto moltissimo del suo potenziale di stabilizzazione. Inoltre la «corsa al centro» aperta da Craxi poneva il Psi a diretto contatto con l’elettorato democristiano «laico» e intensificava il quoziente di concorrenzia­ lità dei socialisti rispetto alla Dc. Come rispondere a Craxi La risposta democristiana al partner rivale socialista si è sviluppata in due tempi e in due modi. Nel primo caso ha assunto la figura e i tratti politici di Ciriaco De Mita, cioè della sinistra democristiana. «Intellettuale della Magna Grecia», secondo la nota definizione di Gianni Agnelli, come segretario democristiano De Mita non appariva affatto un uomo politico banale. Aveva alcune convinzioni assolutamente rispettabili: che occorreva risolvere l’ano­ malia italiana di un sistema politico privo éli alternanza; che l’intero apparato pubblico e istituzionale del nostro paese risentiva i danni della mancata concorrenza fra raggruppamenti politici tutti legittimati a competere per assumere la responsabilità del governo. Tuttavia dal teorema dell’alternanza discendevano anche alcuni corollari per qualcuno meno nobili o apprezzabili. Le ipotesi demitiane di riforma elettorale, mutuate dalla riflessione di Roberto Ruffilli, presentavano il grave difetto di risultare insopportabili a Craxi, in quanto la costituzione di due grandi schieramenti alternativi sembrava strut­ turata apposta per azzerare le quote della rendita socialista. La stessa ideolo­ gia, se si può chiamare così, che animava la riforma di De Mita era soffusa di un visibile alone non propriamente filosocialista: in ogni caso la prefigurazione di due grandi forze parallele e non disomogenee, entrambe «popolari», entrambe attente alle esigenze e alle richieste di larghe fasce di cittadini raccolte da due costellazioni di partiti «di massa», appariva in flagrante e stridente attrito quanto meno con la fisionomia di leader nazionale, sfiorato da qualche evocazione carismatica, attraverso la quale si era imposta la «gover­nabilità» craxiana. La parentesi del «governo di programma» con a capo De Mita, ambiziosa quanto si vuole sul piano politico generale, lasciava in realtà irrisolta la questione strategica del rapporto fra Dc e Psi. Ed era difficile pensare che proprio nella fase in cui il partito di Craxi era reduce dall’aver fatto il pieno alle politiche dell’87 intonando il leitmotiv della governabilità (erodendo quindi in misura sostanziale l’egemonia democristiana sull’amministrazione e intro­ducendo di riflesso nel pentapartito una intensa carica di instabilità), la Dc accettasse passivamente la concorrenza socialista nell’occupazione del «cen­tro» politico. La seconda risposta democristiana a Craxi assume le spoglie del Caf. Già a partire dalle elezioni politiche del 1987 non era difficile prevedere che se esiste uno «spirito democristiano» non avrebbe mancato di dare i suoi frutti. Lo spirito democristiano, la cui esistenza è deducibile dal comportamento del partito da De Gasperi in poi, si è sempre esplicato in atteggiamenti orientati alla cooptazione di alleati. In estrema sintesi, la vicenda democristiana nel dopoguerra è caratterizzata almeno da tre scelte strategiche di una certa esemplarità: dopo la rottura del patto «costituente» che comprendeva anche il Pci ecco la costituzione dei governi centristi con il coinvolgimento dei partiti laici; alla fine degli anni Cinquanta, quando sulla scia del miracolo economico appare opportuno integrare nello stato democratico le componenti operaie, si sviluppa il modello del centrosinistra; durante la stagione del terrorismo, e in una fase di pesantissima e opprimente crisi socio-economica, Moro definisce la solidarietà nazionale con l’apertura al Pci di Enrico Berlinguer. Si tratta di tre soluzioni che potranno essere discusse sul piano dei metodi, dei contenuti, delle finalità autentiche che le muovevano. Ma alla fine sembra impossibile attribuirle semplicemente a un disegno strumentale. O meglio: esistono certamente connotazioni strumentali nella distribuzione pilotata del potere, nello sterilizzare oppositori potenziali ed effettivi inducendoli a sporcarsi le mani attraverso l’associazione alle pratiche di governo. Ma è propagandistico ignorare un aspetto di lealtà democratica da parte della Dc, intensamente sentito dentro il partito: in ogni caso, per essere brutali, nella scelta fra il monopolio e la spartizione, la propensione democristiana ha sempre inclinato verso quest’ultima. A prendere per buono questo pur semplicistico modello interpretativo, risultava facile prevedere dopo le politiche del 1987 che le teorizzazioni di De Mita e il suo radicalismo non costituissero lo sfondo ideale per giocare in modo adeguato la partita con un Psi ancora in fase di crescita elettorale e in piena «corsa al centro». Oltretutto, costituisce una regolarità riscontrabile del comportamento democristiano che nelle occasioni che contano il partito ha schierato come registi non tanto gli atipici di talento, i profeti o i guastatori, quanto le personalità più rappresentative, i democristiani a tuttotondo. A guardare la realtà senza gli occhiali dell’illusione, De Mita si dimostrava come un leader troppo debole per controllare gli inevitabili attriti della nuova situazione. Debole perché troppo schierato, troppo ideologico e quindi prevedibile, prigioniero dei suoi stessi schemi politici. È anche per questa ragione che De Mita entra da segretario nell’ultimo congresso Dc e ne esce gravemente e platealmente sconfitto. Il sacrificio congressuale di De Mita, ordito dai neo-dorotei in nome del realismo politico, non costituiva soltanto l’approdo di un colpo di mano interno. Era piuttosto un segnale squillante, rivolto al Psi, che d’ora in poi il match per l’egemonia politica si sarebbe giocato su un campo completamente diverso: non più sui programmi, non tanto sulle alte progettazioni, bensì sulla ridiscussione di un accordo tutto politico. Governo e non governo La Democrazia cristiana degli anni Novanta comincia a organizzarsi dunque alla fine del decennio scorso intorno alla figura di Giulio Andreotti e di Arnaldo Forlani. Andreotti è uno specialista del giorno per giorno, capace di gestire qualunque situazione, dotato di una spregiudicatezza che per i detrattori è soltanto sintomo di cinismo, per i suoi «non avversari» tende sempre più insidiosamente ad assomigliare alla dote di uno statista. Sfoggia di solito un sovrano minimalismo: per lui, il sangue, il sudore e le lacrime sono sempre impastati con un tratto di scetticismo tiberina. D’altra parte, anche Calvino aveva corretto l’aspro giudizio che abbiamo riportato all’inizio: «Andreotti ha un fondo di cinismo che è certo un limite: ma è meglio il cinismo del fanatismo». Come ha scritto Miriam Mafai, il suo carattere peculiare «è la capacità di volgere a suo vantaggio situazioni e cose, si tratti della televisione come del centro-sinistra, dell’avanzata dei comunisti o della loro crisi, delle ambizioni di Craxi o di Spadolini». Arnaldo Forlani, per restare nel folklore, sembra la reincarnazione del manzoniano conte zio: «Troncare, sopire…». Ogni conflitto all’interno della coalizione di pentapartito è l’occasione per dispiegare una indelebile vocazione al mediare. Se durante l’era De Mita la rivalità con il Psi costituiva una intonazione di fondo, quasi un’eco interna all’alleanza di governo, e quindi il rapporto fra Dc e socialisti si svolgeva attraverso una conflittualità senza requie, con l’avvento del binomio Andreot­ti-Forlani il leader del Psi si trova davanti un muro di gomma, apparentemente in grado di assorbire tutte le spinte, di bloccare sul nascere ogni contropiede, di smussare tutti gli angoli. Era lecito prevedere tuttavia che questa situazione non contenesse in se stessa la ricetta di una bonaccia politica permanente. Eliminato o almeno fortemente attenuato un fattore di conflittualità fuori dal partito (grazie a una specie di Jalta all’italiana, un trattato globale che rinegoziava tutte le posizioni di potere) ci si poteva ragionevolmente attendere infatti che elementi di squilibrio e di vera e propria rottura sarebbero riaffiorati dentro la Dc. An­dreotti e Forlani potevano riuscire nell’impresa di vincere le elezioni comunali a Roma, grazie anche all’attivismo senza quartiere di Comunione e liberazione, trascinando un «signor Nessuno» come Enrico Garaci al vertice delle prefe­renze per poi sacrificarlo senza troppi rimpianti a favore del candidato socialista Franco Carrara. Ma comunque non potevano illudersi che il patto con il Psi lasciasse silenziosa e passiva la sinistra. Negli ultimi mesi, l’esempio maggiormente significativo delle frustrazioni della pattuglia di De Mita è venuto nel luglio 1990 con la discussione parlamentare sulla cosiddetta legge «anti-spot», cioè la proposta di regolazio­ne antimonopolistica dell’informazione elaborata dal ministro repubblicano Oscar Mammì. Il dibattito su questa normativa costituirebbe un eccellente caso di studio per mettere a fuoco i temi del ritardo legislativo, di una democrazia lobbistica, dell’interdipendenza del settore economico con i processi di articolazione politica e partitica. Rappresenta anche un’esemplifi­ cazione piuttosto straordinaria innanzitutto della capacità andreottiana di ridurre l’intensità del contenzioso politico fra i partiti attraverso il patteggia­mento sulle misure di legge (e di conseguenza sugli impatti che esse hanno nei confronti della realtà economica: al momento opportuno, sembra confermarsi la vecchia propensione democristiana a ritenere il dato economico manipola­ bile in nome del consenso politico e delle relative necessità di mediazione fra i partiti). Ma è soprattutto la testimonianza che la Dc di Andreotti non significa semplicemente «non governo». Giulio Andreotti governa, altroché. Se ne sono avute diverse prove, ma almeno due sono state piuttosto piuttosto spettacolari: la prima proprio durante la battaglia parlamentare sulla legge Mammì, quando l’attrito fra demitiani e socialisti ha portato alle dimissioni di cinque ministri della sinistra democristiana. Nel giro di un pomeriggio Andreotti ha sostituito i secessioni­sti, estraendo dai propri miracolistici cassetti i nominativi dei sostituti e rimpastando il governo in pochissime ore. La seconda prestazione si è registrata con la relazione al senato 1’8 novembre 1990 dopo l’esplodere del «caso Gladio»: un discorso di algida rivendicazione del ruolo «professionale» di governo esercitato dalla Dc nell’ambito di relazioni e alleanze internazionali fissate nel clima della guerra fredda, punteggiato da insidiosi segnali rivolti alle file comuniste a proposito dì ciò che contengono gli archivi dei paesi dell’ex socialismo reale. Si può valutare in molti modi tanto la rapinosa fulmineità dimostrata dal capo del governo in una situazione che in altri momenti avrebbe potuto dare luogo a consultazioni fra i partiti e le correnti, a mediazioni e a trattative estenuanti, così come il gelido messaggio che le regole della politica non sopportano né dilettantismi né piazzate. E ci sono pochi dubbi che alla consumata abilità di gestire le crisi all’interno del pentapartito e nei confronti dell’opposizione corrisponde una prassi governativa, in particolare per ciò che riguarda la politica economica, che non appare ispirata da direttrici sicura­ mente e coerentemente orientate vèrso il risanamento del paese. È difficile non notare la schizofrenia di un comportamento che sul fronte interno, per ciò che riguarda soprattutto il deficit pubblico, tende a riprodurre una politica da anni Sessanta, riducendosi a misure tampone e non invece alla correzione dei meccanismi che generano i buchi nei conti dello stato; mentre all’esterno, sull’orizzonte europeo, adotta misure che comportano la fine delle tradizionali manovre di adeguamento del tasso di cambio, cioè di svalutazione, che avevano sempre costituito la risorsa estrema per restituire all’economia italia­na una competitività continuamente a rischio. Questione cattolica, questioni cattoliche Ma Andreotti non è la Dc, o perlomeno non è tutta la Dc. Se l’obiettivo democristiano consistesse semplicemente nel durare, è probabile che fuori dell’andreottismo non esisterebbe una soluzione migliore per garantire al partito appunto la certezza di una durata. Tanto più che in molte occasioni si è avuta l’impressione che oltre la tattica quotidiana si delineassero anche gli indizi di una strategia andreottiana di lungo periodo: fondata su un giudizio, inespresso quanto crudamente pessimistico, sul sistema politico italiano e sulle sue possibilità di uscire dalla crisi che lo ha investito. Si spiegherebbe forse sulla stregua dello scetticismo di questa valutazione l’europeismo di Andreotti: un après mai l’Europe, che nella sua visione scettica potrebbe ri­sparmiare agli italiani, oltre che il diluvio, l’improba necessità di provvedere da se stessi a governarsi. Un sentimento obiettivamente vicino alla coralità di un paese, come ha scritto Saverio Vertone, in cui «serpeggia la strana speranza che la total immersion nell’Europa possa liberare i cittadini dalla farsa delle Poste, delle Usi e delle Ferrovie, senza costringerli al dramma di dover pagare le tasse». Ciò non toglie che un grande partito, proprio perché è anche un agglomerato di correnti ognuna dotata di propri statuti etico-politici, non possa ridursi all’amministrazione quotidiana. Il cattolicesimo liberale non può accettare che la Dc diventi in tutto e per tutto una sorta di esteso comitato d’affari per assicurare tutt’al più la gestione day by day per mano sottogovernativa. In modo analogo, quelli che sono sempre stati i maggiori supporter di Andreotti, i cattolici intransigenti di Comunione e liberazione e del Movimento popolare, esprimeranno in futuro, come è già accaduto con il dérapage pacifista durante la guerra del Golfo, richieste che potrebbero determinare pesanti contraccolpi dentro il partito. C’è la sensazione che nel futuro alcune questioni di fondo, relative al radicamento della Dc nel paese, e soprattutto al complesso rapporto di interazione fra il partito e i blocchi di società civile a esso collegati, emergano con una certa forza: perlomeno fino al punto di meritare una riflessione. Che poi questa riflessione coinvolga un tema virtualmente drammatico come il mutamento in senso «moderno» di una realtà politica che è stata ancorata a lungo a organizzazioni e movimenti, come pure a sensibilità, mentalità e valori, che un laico giudicherebbe appartenenti a una fase politico-sociale «pre-moderna», ciò restituisce il rilievo culturale e anche una certa carica di dramma che i dilemmi democristiani assumono nell’ambito dell’attuale società italiana. In prima approssimazione, sembra lecito sostenere che una delle questioni ancora non analizzate completamente riguardi la condizione di un partito che si richiama espressamente alla concezione cristiana dentro una fase di trasformazione sociale che ha ampiamente e profondamente mutato, in termini di secolarizzazione, la nostra società. Estremizzato nei termini più semplici, l’itinerario democristiano dagli anni Sessanta in poi ha portato a definire il ·partito sempre più sul versante della caratterizzazione governativa piuttosto che sul piano dell’espressione confessionale. Al punto che in questo momento la Dc si trova davvero di fronte a una «questione cattolica»? Probabilmente sì. E, quel che agli occhi democristiani deve sembrare più preoccupante, sia a destra sia a sinistra. Cominciamo da sinistra, dove la situazione sembra più logicamente prevedibile. Il cosiddetto «disagio cattolico» era riaffiorato ben prima della crisi del Golfo e della guerra. Vale la pena di ricordare l’esperienza palermitana, il «laboratorio politico» dai tratti marcatamente clerico-populisti, che comun­ que ha portato la Dc di Leoluca Orlando a un clamoroso successo elettorale alle ultime amministrative. «Il passaggio della sinistra democristiana all’oppo­sizione nel partito è stata accolta con sollievo e con soddisfazione dal mondo cattolico», ha scritto su «MicroMega» padre Bartolomeo Sorge nel marzo del 1990, quando il «paradigma Palermo» s mbrava ancora elaborabile dentro la Dc e comunque suscettibile dell’appoggio di settori della gerarchia cattolica. La fuoruscita dal partito di Orlando, e il successivo lancio della «Rete», potrà apparire un fenomeno politicamente – e domani elettoralmente – marginale, come si sono rivelate marginali e fallimentari in passato altre esperienze di scisma politico dalla Dc (forse ci si può riferire utilmente all’insuccesso del Movimento politico dei lavoratori promosso nel 1972 da Livio Labor). Ma non appare affatto un fenomeno marginale che la Dc andreottiana non abbia potuto metabolizzare l’eresia di Palermo attraverso il gioco negoziale di concessioni e risarcimenti politici in cui è sempre stata maestra. E ancor meno marginale appare la ventata pacifista che ha investito il tradizionale insediamento cattolico del partito. Non tanto perché abbia effettivamente posto le premesse per dividere il partito, quanto perché ha messo in discussione, forse per la prima volta, l’effettiva rappresentatività democristiana del mondo cattolico. Anche l’elettore cattolico medio, quello che non nutre particolari simpatie per le suggestioni di sinistra, si è trovato a dover fare i conti.con una inedita e sostanziale differenza fra le posizioni governative della Dc e quella di consistenti settori della gerarchia e degli ambienti cattolici. È sembrato che alcuni legami si stessero vistosamente allentando. Per una volta, il quietismo naturale della componente cattolica della società italiana è sembrato trovarsi istintivamente più vicino agli appelli alla pace lanciati da sinistra anziché al centro del partito, alle posizioni espresse per mano governativa. Su questo sfondo, assume una caratterizzazione più marcata la deriva di sinistra osservata nelle tante «lobby di Dio», nell’associazionismo, nelle comunità, nei settori del volontariato, nel mondo cattolico giovanile, nel vecchio cattolicesimo «sociale» delle Acli o del sindacato: la trasversalità intrinseca all’enunciato «contro la guerra» rende notevolmente più precario un rapporto che di certo era in crisi già da tempo (perlomeno dal referendum sul divorzio nel 1974), ma che in questo momento sembra tagliare fuori dal gioco soprattutto un giocatore, lo strumento principale che nel corso dell’evo­luzione politica italiana era servito per tenere aperto il tavolo rispetto al cattolicesimo sociale, e cioè la sinistra Dc. A destra. Uso questo termine in funzione più che altro topologica, nella consapevolezza che «Il Sabato» e i ragazzi irresistibili di Comunione e liberazione rifiuterebbero – non irragionevolmente – una collocazione conservatrice. Tuttavia sembra sensato rilevare che il rapporto fra il cattolicesimo d’attacco del Movimento popolare e l’apparato democristiano poteva trovare un’integrazione soprattutto in una situazione di fluidità. Fintantoché ci si trovava di fronte a un panorama politico caratterizzato da una sostanziale genericità e asetticità degli obiettivi, sorretto specialmente dalla necessità di assicurare una stabilità politica grazie a un’alleanza dai contenuti non partico­ larmente impegnativi, il movimentismo di Comunione e liberazione risultava funzionale alle recite del teatrino trasformistico del pentapartito. Formigoni o Cesana erano autorizzati a lanciare slogan anche suggestivi sulla società e lo stato, ad aprire al Psi sotto la copertura di un andreottismo vissuto, ed è inutile che ciò appaia incongruo, come un Erlebnis di tipo carismatico, a partecipare alla lotteria politica democristiana con tutto il peso di una spregiudicatezza «politicista» che finiva per essere il contrassegno principale di un’identità e uno stile. Comunione e liberazione si proponeva come agente di una «prati­ cabilità» politica ad amplissimo raggio, in cui gli imperativi proclamati vigorosamente non precludevano inventività locali e adattamenti parziali. Ma non appena la guerra del Golfo ha posto in primo piano, insieme con il messaggio papale, una soggettività cattolica intensamente orientata a definir­si ancora una volta come alternativa interna al sistema dei partiti, è riemersa ancora una volta, con qualche sorpresa dei laici, una posizione terzomondista, pacifista, antiamericana, che ha squilibrato perlomeno i moduli interpretativi a cui si era abituati. In realtà, la posizione di Cl sul Golfo non faceva che portare alla luce i fondamenti che ne avevano determinato l’affermazione: fondamenti che erano disegnati, fin dall’origine, sul profilo di un estremismo realista, proprio nel senso della Realpolitik, declinato e proclamato in funzione pro­pagandistica nella sua connessione strumentale con visioni integrali. Insom­ma, il successo di Comunione e liberazione era basato anche sulla capacità di spendere con la massima disinvoltura concezioni fondamentaliste come cartamoneta nel mercato politico corrente. Per questa ragione «l’antagonismo governativo» di Cl è saltato in aria sulla questione del Golfo, dal momento che Saddam Hussein non richiedeva esorcismi politici ma opzioni chiare e distinte. A questo punto, la catena di ossimori su cui Cl aveva costruito la propria progressiva fortuna si è spezzata, e la sua scelta di tipo filo-arabo e terzomondista si è posta in una contraddizio­ne così netta con la leadership democristiana, fino al punto di fare sospettare una sorta di gioco delle parti fra partito cattolico e movimento di base: con la Dc di governo a condurre i necessari «affari sporchi» della politica, e Cl a tenere il piede nel magma antimilitare. Ma rispetto ad altri momenti, si è avuta l’impressione che lo spettro di differenziazioni nel mondo cattolico non costituisse più una ragione moltiplicatrice di consensi settoriali quanto la premessa di una molecolarizzazione dell’«ideologia cattolica» fino allo sfalda­ mento di quanto di unitario persiste sotto il profilo politico. Il vento del Nord Il pendolo democristiano fra le ragioni talvolta necessariamente brutali della politica e le aspirazioni terzaforziste dal basso è stato reso più mobile anche dalla scomparsa, per autodissoluzione, del Partito comunista. E’ dipeso certamente da una fatale congiura della storia che il congresso di scioglimento del Pci e di fondazione del Partito democratico della sinistra sia avvenuto proprio nei giorni in cui più aspro era il dibattito sulla guerra; ma ciò non toglie che la crudezza delle scelte implicate dal conflitto abbia contribuito a rimesco­lare le carte, anche in seguito al sincretismo cristiano-pidiessino reso esplicito da Achille Occhetto, prima e dopo il congresso di Rimini, con l’adozione chissà quanto strumentale di stilemi wojtyliani. Rimescolamento che, al di là della contingenza politica, riporta in primo piano il problema della collocazio­ne della Dc all’interno della repubblica dei partiti. È ormai inutile sottolineare il blocco del sistema politico-istituzionale del nostro paese. Ma è tutto da vedere che costituisca un esercizio futile cercare di porre sotto osservazione quegli elementi che nel medio periodo, in assenza di contromisure appena adeguate, potrebbero accentuare drammaticamente la sindrome italiana di dissoluzione nella stasi. Per la Dc, la minaccia più evidente è profilata dall’«aggressione» leghista. Per un «partito-stato» come la Dc il cuneo inserito dal senatore Bossi nel sistema politico è ancora più insidioso, in quanto si orienta al cuore di quello che si definisce «sistema di potere» democristiano. E anche al cuore dell’elettorato Dc: e in questo caso è curioso osservare un dispiegarsi del confronto perfino sul piano dei simboli, fra l’Alberto da Giussano e il Carroccio della Lega lombarda e lo scudo crociato democristiano, mutuato proprio dagli emblemi innalzati nella batta­glia di Legnano (1176) dalle forze della Lega lombarda contro l’imperatore Federico Barbarossa. Ma c’è un altro aspetto che è stato valutato in misura insufficiente: la propaganda leghista ottiene i risultati più appariscenti, l’«effetto bulldozer» di cui ha parlato il senatore Bossi, in Lombardia e in altre regioni del Nord industriale, dove da tempo il consenso alla Dc è su livelli piuttosto bassi (se si prendono come riferimento le regionali del 1990, la forbice fra il voto democristiano fra Italia settentrionale e Mezzogiorno è di quasi 12 punti percentuali: 30% contro 41,8). Oltretutto sembra investire più direttamente proprio quelle aree produttive di più tradizionale insediamento «bianco» che avevano contribuito in modo decisivo alla tenuta elettorale del partito nell’ul­ timo ventennio. Ciò non è privo di conseguenze su un piano generale. Potrebbe prospet­tarsi in primo luogo uno squilibrio accentuato fra la consistenza democristiana nel Settentrione e la performance elettorale nel Sud. Quasi mai i partiti reagiscono con lungimiranza alle situazioni di difficoltà, ed è nella natura delle grandi macchine politiche adattarsi alle sfide scegliendo la linea di resistenza minore. Se questo fosse vero, sarebbe legittimo aspettarsi che la Dc, per mantenere gli attuali livelli di consenso, sia obbligata a tenersi strettamente aggrappata al Mezzogiorno. In tal caso, le illusioni sono inutili: esiste un solo strumento funzionale nelle condizioni attuali, ed è il mantenimento e lo sviluppo del sistema di trasferimenti pubblici, di erogazioni a pioggia, di spesa senza controllo dei risultati. Si tratta di una politica che viene da lontano, che si è dispiegata sia attraverso gli investimenti nel deserto sia mediante gli interventi straordinari in caso di calamità naturali e, ad personam, con le pensioni di invalidità o le assunzioni nell’amministrazione locale. Non dovrebbe sfuggire tuttavia che questa politica, la politica delle decine di migliaia di miliardi «per lo sviluppo del Mezzogiorno» che continua a essere sostenuta e argomentata da esponenti democristiani di notevole spicco no­ tabilare come Riccardo Misasi, si trova oggi al centro di un diffuso rifiuto da parte dell’opinione pubblica (anche perché non sfuggono le implicazioni di carattere illegale, e mafioso tout court, di un sistema politico che vive sugli appalti così come sulla dimensione clientelare). Qualora la Dc scegliesse, e sotto diversi profili si tratterebbe di una scelta non esattamente libera, di diventare il «partito del Sud», potrebbe entrare in fibrillazione, prima ancora che la sua rappresentatività nazionale, l’equilibrio interno al partito. Una progressiva meridionalizzazione dell’apparato, contemporaneamente al completamento del processo di subalternizzazione al Nord in seguito all’attacco delle Leghe, metterebbe in gravissima difficoltà proprio quelle fasce del partito che finora hanno potuto continuare a proporsi come esponenti di una modernità corretta da un dichiarato spirito sociale, in grado di amministrare localmente (come in molte zone della Lombardia e del Veneto) assecondando la crescita in modo non troppo diverso rispetto al più propagandato modello emiliano. Non è un problema da poco, e potrebbe diventare decisivo per sanzionare come si assesterà l’asse del partito al prossimo congresso, slittato dalla primavera all’autunno del ’91. La candidatura di Mino Martinazzoli non sarebbe emersa – almeno a parere di chi scrive – se non fossero stati percepiti due fattori di rischio sicuramente di rilievo nella prospettiva democristiana. Il primo concerne la collocazione della Dc nel sistema politico. Anche se in questo momento riesce arduo ipotizzare con qualche plausibilità che cosa rappresenterà il neonato Pds rispetto agli altri partiti, ci sono pochi dubbi sul fatto che se si prende sul serio la metamorfosi comunista la Dc attuale – e poco cambierebbe con un Gava a capo di un rassemblement generale – corre il ri­schio di ritrovarsi schierata o schiacciata su una posizione conservatrice­ moderata che ampi settori del partito rifiuterebbero sulla base del richiamo alle ispirazioni popolari e sociali del partito. L’ipotesi di una segreteria Martinazzoli (eventualmente in ticket con un leader sindacale come Franco Marini) rappresenterebbe quindi il tentativo deliberato di rilanciare, se non la componente di sinistra, il suo potenziale di suggestioni politiche, al costo di procedere all’elezione di un candidato di minoranza (e quindi o di rimescolare le carte facendo saltare le alleanze attuali oppure attraverso un processo negoziale interno che assicuri punto per punto a tutto il ventaglio democristia­no una redistribuzione di potere in tipico stile cencelliano). Il secondo fattore è rappresentato invece proprio dalla necessità di una risposta rapida e anche simbolicamente efficace alla minaccia delle Leghe. Così come nella seconda metà degli anni Settanta la segreteria di Benigno Zaccagnini rappresentò il tentativo di reagire al diffondersi di una valutazione negativa dell’opinione pubblica sulla consistenza morale del partito, oggi uno degli obiettivi più immediati della Dc è quello di tamponare le emorragie di voti che sono tanto più prevedibili quanto più il partito risulta identificato con il volto «romano» se non «irpino» della politica. Conclusioni Sono ormai passati quasi due anni da quando Giorgio La Malfa avvertì che il maggiore partito italiano aveva «raschiato il fondo del barile», e che Andreotti era l’ultimo democristiano per palazzo Chigi. Secondo il segretario repubblicano, c’erano ormai le condizioni per individuare un baricentro alternativo, imperniato su un’intesa fra le forze laiche e socialiste, nella prospettiva di governi che al momento opportuno potessero abbandonare questa «stremata» Dc al suo immobilismo. Il giudizio di La Malfa si situava sullo sfondo della vertiginosa caduta di Ciriaco De Mita, e di conseguenza del declino della sinistra democristiana. Per lunghi anni la sinistra Dc aveva ipotecato sul terreno politico un ruolo di cerniera fra il centro politico e il Partito comunista, che demandava al Pri la funzione di garante istituzionale dell’affidabilità democratica e occidentale del Pci. La guerra del Golfo ha reso evidente che nemmeno il neonato Pds riesce a proporsi come un attore presentabile per rinnovare la compagnia. Dal canto suo, senza il contributo della sua sinistra, la Dc rimane orfana delle ampie visioni e delle geometrie sistemiche attraverso le quali la «setta» di De Mita si era autonominata ultima interprete di un impegno progettuale complessivo e definita come serbatoio di intelligenza politica con una specifica vocazione alla direzione del paese. L’estrema flessibilità, la duttilità ameboide della Dc forlaniana e andreottiana hanno senza dubbio tolto dalla scena del pentapar­ tito conflitti, pregiudiziali, incompatibilità individuali, e infine anche tutti quei dottrinarismi che confluivano in una sorta di teologia della politica destinata poi a non sfociare quasi mai in misure coerenti e decentemente praticabili. Tuttavia ciò lascia impregiudicati i problemi intrinseci alla Dc, non tanto rispetto alla sua attitudine burocratico-amministrativa quanto alla sua identità come partito di massa. Sarebbe estremamente difficile, infatti, per una forma­ zione politica radicata in modo così complesso nella realtà italiana, qualificarsi soltanto nella chiave del primum vivere. In ogni caso, per il partito sarebbe un rischio troppo pesante se il realismo politico diventasse al suo estremo sordità verso il rumore di fondo che percorre la società: come abbiamo visto, una galassia politica come la Dc, per quanto incline, diciamo così, a cedere alle tentazioni e agli automatismi del potere, non può trasformarsi definitivamente in un consiglio d’amministrazione. Contro una tendenza del genere, la tradi­zionale articolazione della vita del partito (il gioco delle correnti, i ribaltamenti congressuali, le redistribuzioni delle tessere) appare ormai largamente insuf­ficiente e troppo legata a una concezione meccanicamente professionalizzata della politica. Quale grado di plausibilità ha il wishful thinking, espresso di frequente almeno alla periferia del partito in combinazione con la disarmata convinzione dell’immutabilità, che auspica per la Dc una sorta di riprogettazione di medio­ lungo periodo? Uno spirito moderatamente scettico – di quello scetticismo che come si è visto abbonda nelle file scudocrociate – si premurerebbe di sottolineare che di «fasi costituenti» ne è già bastata una, negli ultimi movi­ mentati mesi: ma forse ciò che è risultato in larga misura dannoso per la trasformazione comunista, legata a un anacronistico schema di mobilitazione sociale e politica, si adatterebbe probabilmente di più all’organizzazione «debole» democristiana, proprio in considerazione dell’estrema, quando non di rado caotica, libertà che essa consente. Ma riprecisare i propri nessi con l’Italia contemporanea, drenare la società attuale raccogliendo e interpretan­ do ciò che si muove nell’ombra, le nuove sensibilità, i nuovi valori, i nuovi conflitti può apparire come un compito sostanzialmente troppo costoso per un’organizzazione di partito che colloca perlopiù nel breve termine il proprio riferimento privilegiato (o obbligato). Con ogni probabilità costituisce tutta­ via anche una delle pochissime strade praticabili per non sottrarsi al compito di indicare un ventaglio di principi-guida e di obiettivi che tengano conto delle punte di drammaticità che si manifestano nel paese. È insomma un processo di rivitalizzazione culturale tanto più necessario quanto più diviene plateale lo sfacelo della politica italiana, a cui non può sottrarsi nessun partito che non voglia ridursi senza scampo a pura somma di nomenclature. Comporta l’obbligo, in linea di fatto oltre che di principio, di saper ascoltare la società, coinvolgere le élite, discutere in profondità temi qualificati; e soprattutto pretende l’umiltà di domandare e assimilare apporti differenziati e non convenzionali, aria fresca fuori dal chiuso delle conoscenze e dei vincoli consortili. Si tratta almeno in parte dell’orizzonte in cui si era collocata la sinistra del partito, salvo poi amalgamare tutto ciò in un connettivo culturale di non eccezionale qualità e originalità, e senza sfuggire a molti peccati tipicamente democristiani. Ma si tratta anche di un problema strate­gico, ne siano consapevoli o no i vertici e i santuari del partito, che investe tutta intera la Dc, e ne condiziona in modo decisivo le prospettive. Alla fine, la questione democristiana sembra giocarsi oggi sull’alternativa fra le amorfe certezze di una persistenza priva di futuro e una certa assunzione di rischio per riproporsi come forza moderna, cioè non datata, di democrazia. Si può pensare legittimamente che su questo tavolo il giocatore preferirà rischiare poco per perdere il meno possibile. Ma davvero il paese deve escludere ogni possibilità di puntare appena più alto per tentare un risultato meno insoddi­sfacente per tutti?

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