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Viaggi di Vertone: la Russia dopo l’Urss

03.1990 - 04.1990

«Sta crescendo in Urss una massa di manovra di scontenti che vogliono una meritocrazia senza meriti ma non rinunciano all’eguali­ tarismo senza equità, vale a dire al diritto di lavorare poco e male e al privilegio di non doverne rispondere a nessuno»: è questa la sentenza sull’Unione Sovietica certificata da Saverio Vertone nel suo nuovo libro Il collasso. Verdetto senza appello. Ma se dal suo viaggio, compiuto fra marzo e luglio dell’anno scorso, Vertone avesse tratto solo un catalogo di disfunzioni, fondato sugli immancabili paradossi che alimentano la ricca aneddotica attuale sulla débacle del socialismo reale, questo diario russo non farebbe che aggiungere eloquenza d’autore all’ormai vasta letteratura sul disastro-Urss; mentre in realtà Il collasso lascia trasparire fin dalle prime pagine un tentativo di interpretazione assai più flessibile e ambizioso. L’impero del Male di reaganiana memoria non esiste più: «La Russia comunista non è cattiva, è fallita». Sulla base di questa disarmante presa d’atto, Vertone ha scritto un libro seguendo una prospettiva -è questa la prima novità – che non si lascia attrarre completamente nell’orbita della figura e dell’azione di Michail Gor­baciov, il monarca che regna su un bowling geopolitico in cui ormai «i birilli sono tutti a terra». La personalità del grande comunicatore, dell’uomo che «sembra possedere la misteriosa capacità di trasforma­ re in successi internazionali i suoi insuccessi interni» non riesce a esaurire la sua curiosità. Il suo vero obiettivo di viaggiatore intellet­tuale, che sa circoscrivere gli indizi più sottili per poi penetrare in realtà enormi e complesse, e non di rado madornali, consiste piutto­sto nello sforzo di esplorare fino in fondo una società. Anzi, potrem­mo dire, il paradigma di un contratto sociale. Terribilmente fallito, come si diceva, o viceversa riuscito con implacabile perfezione. In ogni caso, impazzito. Il contratto sociale Soviet Style si basa com’è naturale su uno scambio: mentre lo Stato ha organizzato la concretissima finzione storica del potere del proletariato, «il popolo si è preso la sua fetta di potere… e lo ha usato per come sapeva e sa usarlo, vale a dire per lavorare il meno possibile, secondo il suo cieco interesse immediato». Nei settant’anni dall’Ottobre 1917, l’Urss è man mano sprofondata in una stanchezza sempre più torpida. Mentre i sovchoz e i kolchoz diventano monumenti post-ideologici dell’improduttività e dell’irre­sponsabilità collettiva, mentre da vent’anni, dicono le ufficialissime «lzvestija», la durata della vita media addirittura diminuisce, e Gorbaciov riesce solo ad accusare «un male misterioso, inspiegabile, che avrebbe colpito la società negli anni Settanta e che sarebbe estraneo al sistema sovietico», l’unione delle quindici repubbliche e delle infinite nazionalità, etnie, culture, religioni, abituata a una santità folk non esente da barbarie atavica, lenisce la propria sofferen­za per il desencanto ideologico dormendo: la gente capisce, dice Vertone, che la festa è finita; è consapevole che sarà più difficile uscire dal socialismo di quanto sia stato entrarvi. Sospetta oscura­mente che occorra smontare l’immenso palcoscenico «sul quale per settant’anni politbjuro, Stati Maggiori, polizia segreta e masse proletarie hanno recitato, qualche volta credendoci, più spesso credendo di crederci, la parte eroica dei costruttori del comunismo»: ma non si muove. Dormono tutti, anche sul lavoro, operai, commesse, tassisti, camerieri, «forse per compensare con un nulla di fatto il valore nullo, o quasi, della moneta con cui si è pagati»: il potere che il popolo si è ritagliato consiste nel ridurre al minimo i propri doveri di lavoratori nell’inutile attesa «che qualcuno (Dio, Gorbaciov o l’Occidente) riempia i negozi e soddisfi al massimo i propri diritti di consumatori». In questo stato di attonita frustrazione permanente, il consumi­smo all’occidentale si dispiega come un valore metafisica ( «addirittura un’utopia»), proprio perché gli scaffali delle botteghe sono vuoti. E se la perestrojka annaspa, se gli economisti dello staff gorbaciovia­ no come Aganbegjan e Smelev paragonano ormai l’economia sovieti­ca a un aereo in stalla che comincia a cadere, nella società civile in pochissimi sono disposti ad ascoltare e a darsi da fare per salvare il salvabile: «Gorbaciov ha un bel dire che per avere il dentifricio bisogna produrlo. La gente gli risponde che per produrlo deve potersi lavare i denti». Così il cerchio si chiude. «La scoperta, a quanto pare conturbante, che i diritti dei cittadini in quanto consumatori tendono a coincidere con i loro doveri in quanto produttori, è recente anche in Italia, dove ancora dieci anni fa Bruno Trentin considerava il salario una ‘variabile indipendente’. Ma in Urss è nuovissima e molti la considerano una diabolica invenzione di Gorbaciov». Il contratto sociale sovietico, che si era alimentato della generale corruzione negli anni sordi dello Stato consortile gestito da Breznev e dalle sue mafie, si è alla fine avvitato su se stesso generando una rovinosa implosione di risorse, energie, intelligenze. Intorno al faro del socialismo è scesa la foschia indolente dell’accidia di massa. Al punto che per impedire la bancarotta non sarebbe sufficiente neppu­re un violento contraccolpo autoritario: «Lo stalinismo è stato un particolare miscuglio di terrore e di speranza. Oggi le speranze sono finite per sempre. Rimarrebbe solo il terrore. E il terrore, da solo, non basta». L’ipotesi del colpo di mano autoritario deve essere stata discussa, nelle stanze segrete del potere, nei santuari dove l’élite intellettuale, separatasi dalla società, si è racchiusa: «nel Pcus, nell’Accademia delle Scienze, nell’esercito e nel Kgb, dove si possono trovare, qua e là, specie nelle alte gerarchie, intelligenze taglienti, passioni minacciose, ambizioni segrete, insomma la sindrome perenne del sapere, del suo fascino e della sua pericolosa potenza». Ma per ora invece è passata la via di una democratizzazione disordinatamente octroyée, tanto tumultuosa nella sua espressività quotidiana quanto incerta nella strumentazione politica. Optando per le figurazioni simboliche della glasnost e della perestrojka, l’ultimo erede di Lenin «non ha scelto la libertà, ma la sopravvivenza». Tuttavia la volontaristica mobilitazione delle coscienze dettata dall’alto, il tentativo di aprire il mercato senza la chiave dei prezzi reali e di stimolare la competitività a stipendi egualitaristicamente pianificati lasciano drammaticamente inerti gli apparati nel loro rigorosissimo fatalismo di cifre improbabili e statistiche opportunamente truccate per risultare in regola con il Piano. Nel frattempo, in assenza di una vera opinione pubblica, in un’arena politica deserta di attori plausibili, il paese della «Terza Roma» (come il monaco Filofej di Pskov aveva chiamato Mosca), destinato a illuminare i popoli, ricade vittima di un’indole o un’attitudine assimilata nella lentezza dei secoli, cedendo al fascino consolato­ rio e alienante della segretezza, del mistero e del sospetto, cioè «il lascito dell’autocrazia bizantina, che Stalin e Breznev hanno portato alla perfezione». Una parte della Russia tende insomma a ripiegarsi su se stessa: rinascono serpeggiando insidiosamente nel corpo della società movimenti tradizionalisti come Pamjat, che riesumano perfi­no l’antisemitismo più volgare; deflagrano con premoderna intensità i conflitti etnici; e l’arcaismo di fedi e integralismi intorbidisce ogni possibile e ragionevole progetto di religione civile. «Oggi, a Mosca come in provincia, le chiese sono frequentatissime e a volte si riempiono di giovani e giovanissimi che, anche senza essere battezzati e senza credere veramente in Dio (oggi è difficile dappertutto, persino in Russia), ci vanno per far finta di credere in qualche cosa, per turare alla meglio un buco interiore che non sanno come riempire». La storia sembra vendicarsi. Sembra di avvertire nell’aria il vociferare dei populismi che hanno acceso il fuoco nella mente russa negli ultimi anni dell’Ottocento e in apertura dei nostro secolo; sembra di sentire l’eco dei poemi nazionali inneggianti alla «santa» miseria, gli aneliti di quell’ossessivo misticismo gnostico che poteva scorgere le tracce del divino nella corruzione più purulenta. Neppure la Rivoluzione era riuscita a spazzare via quello specialis­ simo impasto di degradazione civile e di autoesaltazione nazionali­ stica, tipico per esempio in Gorkij, che portava difilato alla deificazione del popolo come miracoloso polo di spontanea ener­ gia politica e culturale. «Tempo verrà – aveva scritto Gorkij – in cui tutta la volontà popolare sarà ancora una volta concentrata in un sol punto. Allora emergerà un potere invincibile e miracoloso e Dio risorgerà». Ricorda Mikhail Agursky (in La Terza Roma. Il nazional-bolscevi­smo in Unione Sovietica) che perfino esponenti di spicco della Russia controrivoluzionaria bianca (come Ustrjalov e Kljucnikov, quest’ulti­mo ministro degli esteri nel governo di Kolcak) furono affascinati dal mito del comunismo nazionale: se i bolscevichi avessero vinto, allora questo significava che la Russia aveva bisogno di loro e che la storia procedeva nella loro direzione: «Ad ogni modo, il nostro dovere è di stare con la Russia. Perbacco! Andiamo con i bolscevichi». La fascinazione della necessità storica attraeva anche i vecchi arnesi dell’hegelismo di destra: nel nome della sovrana iper-razionalità del reale, si poteva anche accettare la dittatura del proletariato se ciò significava il compimento, catalizzato dallo Spirito, del grande desti­no nazionale russo. Con i decenni, esaurito il ciclo della mobilitazione di classe, terminato lo slancio collettivo della guerra antinazista, spentosi l’entusiasmo del confronto globale, magari a colpi di Sputnik e di Vostok, con il mondo «imperialista», la violenza di un tremendo paradosso si è abbattuta sulle strutture in cui la proteiforme «anima russa» era stata materializzata nel popolo sovietico dal Verbo marx-leninista. Il popolo, privato della sua testa, ritiratasi nei privilegi della nomenklatura, ha fagocitato se stesso, completando un processo che non ha condotto né all’eliminazione della diseguaglianza né al benessere, e men che meno all’Uomo nuovo del marxismo realizzato. Ciò che ne è risultato, scrive Vertone, è uno smisurato dopolavoro: «un immenso Arci compunto e noioso», nel quale il popolo, ormai divenuto un’entità amorfa, cerca di approfittare delle mediocri opportunità offerte dalle condizioni politiche oggettive per continua­ re una grigia sopravvivenza scopertamente priva di futuro. Il sistema consente di tirare a campare. Per ora il contratto sociale firmato da un Rousseau delle burocrazie non si è ancora del tutto disintegrato: sopravvive a se stesso nutrendosi dei propri detriti e cercando di rimandare finché è possibile il conseguente rischio dell’intossicazione. «La Russia – confessa a Vertone in chiusura di libro un anonimo funziopario del micidiale Gosplan – è un grande poligono sperimentale. E immenso, e proprio per questo è l’unico posto al mondo dove si può provare tutto. Abbiamo perso quasi trenta milioni di persone per la collettivizzazione forzata, e altri venti milioni nella guerra che abbiamo dovuto sostenere per difendere i risultati di quel massacro. Ma siamo ancora qui. E così gli altri sanno quel che non si deve fare. Già una volta abbiamo salvato l’Europa dai Tartari. Adesso la salviamo dal socialismo». Ma è un salvataggio involontario, irriflesso, in cui il socialismo viene esorcizzato dalla sfiducia e invischiato in una fluviale disfunzione: allorché il processo di autodigestione del sistema si sarà completato, annullando le intelligenze e le capacità residue, dell’Unione Sovietica potrebbe restare, se è adeguata la diagnosi di Vertone, solo la lunghissima decadenza di un impero: qualcosa di non dissimile da un virtuale impero ottomano del terzo millennio. Saverio Vertone, Il collasso, Milano, Rizzoli, 1990, pp. 216, L. 32.000.

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