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L’estinzione della classe operaia

07-08 1990
Dalla lotta di classe all'invidia sociale

Come il Romanzo, Dio, l’Ideologia, come diversi altri protagonisti della storia e del processo di civilizzazione, a un certo punto la classe operaia muore, e questa volta non c’è né un Musil né un Nietzsche o un Aron a redigerne l’atto di morte. Conta poco che i cinque milioni di persone che in Italia ne fanno parte continuino imperterriti o rassegnati a vivere e faticosamente a produrre: all’inizio degli anni Ottanta lo spirito del tempo decide l’estinzione di massa di un soggetto sociale e politico che aveva avuto una funzione cruciale nel miracolo economico e nella recessione, nei racconti collettivi e nelle realtà quotidiane. Come per la scomparsa dei grandi erbivori, l’impatto di un asteroide alieno, un radicale cambiamento climatico, l’apparizione di concorrenti più agguerriti nella struggle for life, oppure tutti questi fenomeni messi insieme, determina la scomparsa della specie. Così come si estinguono i dinosauri, il Cipputi in simbiosi con il tornio o la catena di montaggio svanisce rapidamente dalle percezioni della struttura psicologica collettiva: e con lui svaporano l’orgoglio operaio e le mitologie dell’operaio-massa, unitamente agli strumenti e ai simboli del potere che si illudeva di avere guadagnato: anzi, conquistato, secondo l’enfasi del lessico sindacale. Si dileguano conflittualità e assenteismo, consigli di fabbrica e ruolo di supplenza politica, sindacati e striscioni, manifestazioni e slogan. Figure prima di allora rispettate, blandite e sovente mitologizzate come i metalmeccanici e i tessili, i chimici o gli edili cedono il passo all’era della ristrutturazione dell’innovazione tecnologica, della terziarizzazione, della finanza. Non sanno ancora che sul loro cadavere si verrà completando una colossale spartizione, di cui non potranno essere che le vittime supine. Eppure, fino a pochi mesi prinia la classe operaia esisteva eccome; investito dal soffio vitale di una missione salvifica e redentrice nei confronti dell’intera società, il movimento operaio, con il suggerimento e il plauso dell’Italia marxisteggiante, poteva impersonare l’ultima epopea politica della modernità, cioè la lotta di classe. Che tradotta nelle ipermediazioni del sistema italiano poteva significare tanto la possibilità di dare una spallata a un Andreotti-Malagodi quanto l’opportunità di aggravare il costo del lavoro per unità di prodotto in misura indesiderabile per il duo Cadi-Colombo e per la Confindustria. Dall’autunno caldo in poi la retorica nazionale era stata dalla loro parte, dalla parte degli operai. Chi non parlava dei ritmi di lavoro «disumani» alla linea di montaggio, dell’ «autoritarismo» in fabbrica, di una «condizione operaia» giunta all’acme dello sfruttamento tayloristico? In realtà, soprattutto nei «dark satanic milis» della produzione di massa profetizzati da Milton, e specialmente nei reparti produttivi delle imprese multinazionali, la disumanità e la spersonalizzazione del lavoro erano piuttosto relativi, ed è probabile che l’investimento straniero in Italia mettesse in conto come fisiologica una bassa produttività relativa della nostra forza lavoro. Al punto che uno spirito sufficientemente critico e moderatamente scettico potrebbe chiedersi oggi se non ci sia una relazione magari di tipo causale, proprio «post hoc ergo propter hoc», fra il coro di lamentazioni sulla proclamata disumanità di ieri e la silenziosa rivoluzione successiva, quando grazie alle applicazioni della ricerca ergonomica e all’automazione, alla psicologia del lavoro e allo studio disincantato della curva dell’attenzione si è giunti finalmente alla definitiva «Saturazione» dei tempi di attività. Per almeno un decennio un intero ceto sindacale e politico aveva vissuto di rendita sulla classe operaia. Per il Partito comunista essa costituiva una sicura riserva di caccia elettorale, con le fabbriche equiparate a santuari della socializzazione politica, agenzie dell’identità di classe, scuole elementari di partito. Per i sindacati, le aziende si erano rivelate il terreno ideale per uno scontro globale di potere i cui cardini erano le finzioni persuasive e demagogiche dell’unità e dell’uguaglianza, dell’abbattimento coatto delle differenze, e soprattutto del disprezzo per ogni rivendicazione o tentazione «salarialista». Il disprezzo per i soldi merita probabilmente un modesto approfondimento, perché è rappresentativo di una concezione largamente diffusa, anzi, dominante nel pensiero sindacale: secondo cui l’antagonismo universalistico, cioè per l’appunto «di classe», è preferibile al conflitto regolamentato degli interessi, su temi negoziali circoscritti. Il perché è chiaro: se le rappresentanze sindacali avessero chiesto in primo luogo aumenti retributivi, ciò avrebbe innescato, dopo gli inevitabili turbamenti confindustriali, un calcolo di compatibilità in cui entrambe le parti sarebbero state coinvolte ed eventualmente responsabilizzate. E in una logica di compatibilità, la domanda di «più salario» avrebbe ovviamente ricevuto come risposta la richiesta di contropartite da trattare su altri aspetti del lavoro: più produttività, maggiore flessibilità, migliore utilizzo degli impianti. Ci si sarebbe approssimati in questo modo a un modello negoziale in cui la componente schiettamente economica sarebbe prevalsa su quella politica: e il dramma ricorrente dei vari rinnovi contrattuali non sarebbe stato recitato dalle cosiddette «parti sociali», con la mediazione preoccupata del governo e del ministro del lavoro di turno, bensì da contraenti impegnati a discutere specificamente sugli aspetti concreti del lavoro. Via dunque le gabbie salariali, simbolo di un’intollerabile diseguaglianza su base geografica, avanti con il punto unico di contingenza: ogni contratto si rivela un’occasione strategica per introdurre nell’industria una serie di vincoli che con il miraggio di garantire in realtà mortificano. Attraverso l’illusione di tutelare di volta in volta le donne rispetto agli uomini, il neo-assunto rispetto alle aristocrazie operaie, l’operaio nei confronti del capitalista, il disoccupato di fronte ai già occupati (in poche parole il contraente più debole rispetto a quello più forte), di fatto si stende sul mercato del lavoro una rete di lacci e lacciuoli che rischiano di bloccare qualsiasi dinamismo residuo. Le norme che tutelano la maternità (le uniche al mondo, ricorda Fiorella Padoa Schioppa, che obbligano le donne a lasciare il lavoro due mesi prima e tre dopo il parto) riescono persino a bloccare l’ingresso nelle unità produttive della forza lavoro femminile fino al 1973, cioè in una fase in cui in tutti i paesi avanzati si assiste a uno spettacolare incremento dei tassi di occupazione delle donne. Attraverso la Cassa integrazione – lo ha spiegato in diverse occasioni Giuliano Amato – si instaura una muta alleanza impropria fra i presunti sfruttati e i conclamati sfruttatori, scaricando sullo Stato il costo di stipendi relativamente elevati e scoraggiando in tal modo sia la crescita dell’occupazione sia il perseguimento di economie di gestione. «La legge Prodi e la Cassa integrazione straordinaria – ha ricordato sul «Corriere della sera» nell’agosto dell’anno scorso l’ex ministro del tesoro – insegnarono a imprenditori e sindacati che era inutile farsi la guerra ed era meglio mettersi d’accordo sulla dichiarazione di crisi aziendale. A quel punto operai e fornitori li pagava lo Stato». Questo modello poteva adattarsi a meraviglia sia per il sindacato, che aveva sempre limato il conflitto d’interessi definendolo in funzione di ulteriori conquiste generali (l’occupazione prima di tutto) sia al Partito comunista, che ormai da tempo si era abituato a scambiare legittimazione contro riduzione dell’intensità del conflitto. Tuttavia questo statalismo implicito comportava conseguenze vagamente disastrose. Ad esempio, l’accento altamente negativo, quasi di tradimento sociale, che grava a quei tempi sul profitto rende assolutamente imperscrutabile il pensiero che le aziende nascono e si sviluppano dove trovano, condizioni adatte e soprattutto interesse a nascere e a svilupparsi. E il caso, ad esempio, del Mezzogiorno, che non si riesce a svincolare dal circolo vizioso fatto di cattedrali nel deserto più l’assistenza. La «società a somma zero» con cui Lester C. Thurow ha descritto l’età della stagflazione diventa nel nostro paese una parodia, in cui tutti fingono di cooperare in vista di un interesse ritenuto superiore. Un’eccezionale lungimiranza di facciata, la rinuncia alle differenziazioni salariali in nome dell’estensione della tutela, comincia a prendere i tratti di una straordinaria miopia. Che si tratti di un crudele errore sulla natura umana o di un’involontaria ma colossale imprecisione nella definizione dei processi sociali e del ruolo che in essi hanno i loro rappresentati, sta di fatto che i tre sindacati si rendono responsabili della prima grande dinamica di corporativizzazione della società italiana. Lama & c. probabilmente non se lo immaginano neppure, ma stanno evocando al tavolino il fantasma dell’ organicismo. Gli operai vengono indotti dall’alto a operare uno scambio fra l’utile privato (il male) e l’interesse pubblico (il bene), e non c’è dubbio che quest’ultimo, per quanto remoto e problematico, viene fatto percepire come indiscutibilmente migliore sotto il profilo della qualità morale, civile, etica. Il prezzo di questo scambio non può non essere elevatissimo, perché implica la rinuncia unilaterale a più adeguati e moderni standard di reddito e di benessere: ma questa rinuncia viene surrogata con la soddisfazione (vicaria, impalpabile, ma per non pochi in prospettiva entusiasmante) di avere ipotecato un ruolo di primo piano nell’equivoca commedia degli equilibri più avanzati (o del nuovo modo di fare l’automobile) che ineluttabilmente, come una promessa della storia, sarebbe stata messa in scena nella società futura. Poveri ma buoni, antagonisti ma portatori di un antagonismo pensosamente responsabilizzato e già di stampo «governativo», gli operai non si rendono conto di essere messi a bilancio non già come una variabile dipendente con cui fare i conti, ma come un soggetto politico improprio, e in quanto tale immobilizzabile. Quando viene lanciato da Bruno Trentin l’infelice slogan del «salario variabile indipendente», la classe operaia comincia a entrare in agonia. Se gli stipendi costituiscono una grandezza immodificabile e inelastica, l’adeguamento del costo del lavoro ai livelli della competitività del mercato interno e internazionale si sposterà su altri fattori più duttili e facilmente manipolabili (finanza, recupero di produttività, ristrutturazione). A Luciano Lama sfugge, ma la classe operaia comincia ad assumere le sembianze di qualcosa troppo simile all’imposta di fabbricazione. Qualcuno provi a spiegare perché una vocazione di tipo superiore dovrebbe spingere le imprese a investire in aree e regioni dove la produttività è rilevabilmente più bassa della media nazionale e il costo del lavoro praticamente identico. Esiste certamente una dimensione sociale e «socializzante» dell’economia, e un’ occhiata alla Soziale Marktwirtschaft della Repubblica Federale Tedesca da Adenauer a Erhardt, o da Brandt a Schmidt, avrebbe potuto suggerire alcune notevoli ipotesi su come promuovere il mercato senza strangolare i più deboli, o su come articolare il sistema di Welfare senza precipitare negli avvitamenti e nelle spirali viziose dell’indebitamento inefficiente e senza trasformare la società in un esercito di free riders. Ma lungo tutti gli anni Settanta si diffonde invece la tetra e provinciale sensazione che tutte le economie a capitalismo avanzato hanno ormai raschiato il fondo del barile: due shock petroliferi, il deficit energetico, gli sbandamenti dei petrodollari e il collasso degli equilibri monetari stanno lì a dimostrare che siamo alla vigilia del day after, e che il modello di sviluppo basato sull’accumulazione capitalistica è giunto alla fase terminale. A che serve allora preoccuparsi di dare fiato alle residue energie imprenditoriali? Nel tramonto dell’Occidente, il ruolo dell’Italia potrà essere tutt’al più quello di ricrearsi come riserva protetta, parco nazionale, laboratorio crepuscolare in cui si possa consumare l’eutanasia del capitalismo. Tuttavia, così facendo e così pensando si trascura un aspetto più sfumato ma non insignificante: vale a dire che probabilmente non tutti gli iscritti al sindacato e gli addetti alla produzione di massa avvertono come gratificante l’idea di rimanere congelati per tutta la vita al terzo livello grazie a un mansionario che garantisce l’impiego, in cambio dell’immutabilità delle funzioni e delle responsabilità. E tutto da dimostrare che possa ritenersi socialmente soddisfatto chi trova nella fabbrica un grande ospedale dove si deve permanere per decenni nella condizione dell’ammalato. In questo senso, la tuta di lavoro vale il pigiama del ricoverato. Nel cronicario di classe l’aspettativa di chances professionali, di carriera, di promozione delle risorse migliori e delle capacità comunque acquisite sul posto di lavoro è imbrigliata in un intreccio di regole che se da un lato promettono la sicurezza contro la perdita dell’impiego e la tutela contro una serie impressionante di sventure individuali e collettive, dall’altro azzerano le possibilità di crescita. I miglioramenti di reddito avvengono infatti esclusivamente attraverso l’anzianità e la contrattazione collettiva, gli avanzamenti di categoria sottostanno a un modello complessivo di relazioni industriali in cui le risorse umane costituiscono l’ultimo e tutt’altro che decisivo anello di una catena di mediazioni. La scelta di proteggere la classe operaia anziché di promuoverne la qualificazione anche selettiva manifesta a posteriori un oscuro vizio paternalistico, un ossessivo timore verso le differenziazioni e ogni genere di individualità, la nozione che i lavoratori erano massa da accompagnare per mano a «conquiste» lente e laboriose a cui non sarebbero mai arrivati da soli. Era questo il promesso «allargamento della democrazia», come con le consuete metafore spaziali si usava dire? Storie. Era il socialismo davvero realizzato su questa terra, il modello brezneviano tradotto nello stile italiano. La «condizione operaia» si iscriveva in una grigia quotidianità prolungata fino alla promessa-minaccia della pensione. E la catastrofe esistenziale, sociale, politica, economica di Cipputi e dei suoi colleghi acquistava contorni piuttosto horror perché proprio mentre i ceti per definizione produttivi, costruttori di manufatti, venivano consegnati alla mummificazione economica, la società italiana perseguiva al contrario – spesso riuscendoci, nonostante tutto – obiettivi di autopromozione, di mobilità, di diversificazione dei consumi e dei comportamenti. Le differenze omogeneizzate nel frullatore di un negoziato rissoso ma in fondo «istituzionale» o di una conflittualità pervasiva ma senza sbocchi esplodevano o si esaltavano invece nel magma ribollente della comunità egoista, maleducata e cafona, irresponsabile e arrabbiata, ma alla fine viva. C’è da chiedersi come sia potuto accadere che una fascia sociale le cui energie venivano represse ope legis abbia assistito senza protestare alla deflagrazione dei desideri altrui e al loro goloso soddisfacimento. Con un eccesso di ragione cinica si può pensare che mentre delegavano alle conquiste en politique la definizione del proprio ruolo sociopolitico, sul piano concreto i metalmeccanici duri e puri abbiano rincorso per via privata ciò che la virtù pubblica considerava poco elegante. E cioè che il soddisfacimento di quella ridda di bisogni, materiali e immateriali, ma comunque accessori rispetto al decalogo della moralità della sopravvivenza operaia, sia stato ottenuto in maniera informale attraverso l’intensificazione di attività complementari – il doppio lavoro – oppure approfittando del reddito aggiuntivo prodotto dai componenti del focolare domestico. Tuttavia, se questo è vero, implica anche una intensa redistribuzione spontanea delle risorse individuali, con conseguenze pregevoli dal lato dei livelli di benessere, ma tutto sommato irrazionali sotto il profilo dell’ ottimizzazione delle capacità. Come ha mostrato a suo tempo Luciano Gallino, il doppiolavorista non cercava soltanto una quota aggiuntiva di reddito, ma tentava di ottenere fuori dalla fabbrica ciò che in fabbrica gli era negato, dal «padrone» o dalle rigidità imposte dal sindacato. In ogni caso, in questo modo svanivano tutte le mitologie incentrate sulla «solidarietà» operaia. Compresso e controllato l’ egoismo in azienda, questo si diramava spontaneo e inarrestabile al di fuori dei cancelli. Per questo fa leggermente sorridere, ad esempio, la nostalgia manifestata in più di una occasione da Fausto Bertinotti (esponente della Fiom-Cgil) verso il clima che secondo lui regnava sul paese durante gli anni Cinquanta: vecchie case di ringhiera, comunità di vita fra poveri, pane e cipolla la sera in attesa dell’immancabile riscatto. Ma a parte che sotto l’etichetta populistico-moralistica della solidarietà si sono consumati (e si stanno ancora consumando) autentici misfatti redistributivi, sarebbe valsa la pena di ricordare, con Sergio Ricossa, che «l’altruismo è spontaneo ed efficace in piccolo, verso chi conosciamo e incontriamo e i cui bisogni percepiamo chiaramente, perché rivelati da un rapporto personale diretto dentro il quale germina con facilità anche la simpatia, se non l’amore. Nella grande società resta un posto per tal genere di soccorso, ma questo non è in grado di esaurire le esigenze di solidarietà poste da un’estesissima e complicata divisione del lavoro fra persone che molto indirettamente sono collegate, e spesso a loro insaputa (nel senso che non sanno chi individualmente rappresenti l’ultimo anello della catena di relazioni sociali). La grande società non ha sconfitto la miseria coi San Martino, che donavano metà dei loro mantelli ai poveri di passaggio, ma fabbricando milioni di mantelli interi a costi accessibili a tutti». Ancora. Al di fuori del razionalismo cinico, secondo cui i lavoratori hanno provato a ricavare in modo «selvaggio» ciò che non era concepibile guadagnare nei reparti, nessuna spiegazione della progressiva rassegnazione operaia è possibile, tranne quella che gli operai abbiano dawero creduto alla possibilità di rivincita futura, e che siano stati anch’essi vittime dell’utopia. Ma in questo caso il peccato di ingenuità sarebbe stato ancora più appariscente e grossolano, fino a rendere giustificabile il cumulo penitenziale di sanzioni che in seguito si è abbattutto sugli ex portatori della dialettica storica. Com’è noto, oggi una lira di aumento salariale pagata agli operai, alle aziende ne costa quasi tre, a causa degli oneri fiscali e contributivi ineludibili che gravano sul lavoro dipendente. Forse è meno noto che dall’autunno caldo a oggi nell’industria privata le retribuzioni a valore reale sono cresciute in misura assai contenuta, per non dire quasi nulla, a dispetto delle «lotte» e delle «conquiste» del movimento sindacale e dello spettacolare ritorno al profitto delle aziende italiane a partire dal 1982-83, e comunque in misura notevolmente inferiore alla dinamica degli aumenti nel settore pubblico. Nel frattempo il paese si è bloccato quasi del tutto. L’immigrazione dal Meridione si è fermata, e il mismatching, il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, ha assunto aspetti plateali, al punto che si è deciso che l’avviamento al lavoro della manodopera straniera è diventato un problema centrale, ad onta degli altissimi tassi di disoccupazione al Sud e fra le donne, e malgrado l’elevato numero di pensionati che potrebbero essere opportunamente riutilizzati. La corporativizzazione del settore pubblico presenta ormai aspetti patologici, e la sfida dei vari Cobas alla finanza pubblica si è tramutata in un vero e proprio ricatto ai cittadini. In questo scenario, a fine giugno si sono verificati i seguenti fenomeni: l) la rottura delle trattative sul rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici; 2) la disdetta della scala mobile da parte della Confindustria. Di conseguenza, Cgil, Cisl e Uil hanno chiamato il paese allo sciopero generale per l’ 11 luglio. Lo sciopero è poi stato annullato, grazie a una mediazione del governo che ha promesso sgravi sugli oneri impropri per tremila miliardi. Ma il caso resta, e vale la pena di confermare che c’è qualcosa di paradossale, in una decisione simile. Al di là del fatto che come strumento di pressione lo sciopero generale appartiene al clima «contestativo» degli anni Settanta, di cui abbiamo già parlato, oggi risulta piuttosto sconcertante pensare di trovare uniti nella protesta, accanto all’avanguardia dei metalmeccanici, i dipendenti dell’industria privata e i dipendenti pubblici: come dire, i silenziosi Cipputi delle fabbriche e i vociferanti Cobas delle ferrovie, i protagonisti passivi del recupero di produttività e di efficienza e l’Italia disfunzionante delle corporazioni e delle clientele. Avranno avuto le loro ragioni i Trentin, i Marini e i Benvenuto a indicare la strada insidiosissima e arcaica dello sciopero, come si diceva una volta, «di solidarietà». Ma si dovrebbe anche spiegare che genere di solidarietà può esistere fra categorie appartenenti a due mondi in opposizione: le une, quelle che fanno parte del lavoro dipendente privato, iscritte in un vincolante calcolo di compatibilità economica, e le altre, quelle dei dipendenti del settore pubblico, che essendo sciolte da qualsiasi vincolo di economicità e di responsabilità hanno potuto esprimere negli ultimi anni le punte più inquietanti di particolarismo e di egoismo corporativo. La scelta dello sciopero generale ha rappresentato una specie di ritorno al passato, alla logica della contrapposizione globale (il «partito del lavoro» contro il resto del mondo) e di conseguenza alla confusione degli interessi. I motivi di questa strategia da parte di Cgil, Cisl e Uil si possono anche comprendere, se non condividere: estendendo e radicalizzando lo scontro, si può puntare forse a un certo recupero di rappresentatività e di legittimazione dopo lunghi anni di crisi del sindacato e l’emergere dei gruppi corporativi che hanno scalfito l’unità sindacale. Ma è anche opportuno rilevare che il ritorno all’ «uniti si vince», alle parole d’ordine unitarie, si può verificare soltanto su una base moralistico-paternalistica, cioè componendo artificialmente sotto l’etichetta sindacale conflitti trasversali e differenze d’interesse ormai radicati nella realtà del lavoro in vista di un interesse comune qualitativamente superiore che le varie corporazioni hanno continuamente dimostrato di disprezzare. E stato proprio questo lo schema all’interno del quale si è sviluppato il pansindacalismo italiano dall’autunno caldo in poi, ed è curioso ritrovare oggi lo stesso errore di fondo che è stato alla base del declino sindacale a partire dall’inizio degli anni Ottanta. Tanto più che la miccia dello sciopero generale, cioè lo scontro sul contratto dei metalmeccanici, conteneva tutti gli ingredienti per un confronto spregiudicato a tutela degli interessi operai, degli ultimi mohicani da un milione e duecentomila lire al mese. Presa sul serio, l’ipotesi confindustriale di aprire una discussione sulla struttura del costo del lavoro e del salario poteva fare rimbalzare fin sullo Stato il problema della ·zavorra fiscale e contributiva gravante sulle retribuzioni. Decisamente, sarebbe stato piuttosto singolare, secondo il senso comune, trovare il «padronato» alleato ai lavoratori nella «lotta» contro lo Stato, cattivo gestore della spesa pubblica, e quindi anche dei quattrini rastrellati con le tasse degli operai. E difatti, ancora una volta le confederazioni hanno scelto la strada non della coincidenza degli interessi, bensl dell’alleanza di tutti con tutti, compresi i maggiori beneficiari della spensieratezza clientelar-corporativa dell’amministrazione pubblica. In questo modo, e senza essere profeti, si può prevedere che nessuno dei problemi che affliggono la classe operaia verrà risolto. E c’è di peggio: una volta attenuati i clamori, «la condizione operaia» tornerà a essere un tema sepolcrale, che non interesserà più nessuno. Eppure, ci sarebbe da dedicare qualche triste pensiero a un paese che tratta male proprio chi dà consistenza e pesantezza di realtà al benessere generale.

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