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Vertone al capolinea Europa

09.1989 - 10.1989

Saverio Vertone prende il treno per l’Europa contemporanea, «mite, tollerante, pacifica, un tantino obesa», per registrare sul suo taccuino i friabili reperti del presente (quel lunghissimo presente che dura dalla fine della Seconda guerra mondiale e nel quale siamo impaniati) e gli indizi di un passato secolare, millenario, che si ostina a imprimersi con tenacia tanto sulle architetture quanto sulle fratture psicologiche, sulle immagini esteriori delle città non meno che sui modelli culturali che animano, o talvolta più propriamente mortificano, il Continente. Aveva attraversato la Penisola, un anno e mezzo fa, traendone un reportage di una decina di puntate per il settimanale «Europeo» poi trasformato in un volume, Viaggi in Italia, che intendeva essere una ricognizione non solo del paese fisico, delle sue brutture e delle sue catastrofi ambientali (della crosta edilizia, per esempio, che ha deturpato l’Italia dagli anni Cinquanta in poi), ma soprattutto delle sue idiosincrasie più intime e strazianti, e delle sue idiozie mentali e comportamentali più goffe e spettacolari: l’iperconsumo nello sfacelo, le cicatrici paesistiche che diventano metastasi; e poi i conformismi che si consolidano inopportunamente in stili di vita, le convinzioni medie, le ipocrisie minime, le ideologie azzerate che acquistano in ferocia ciò che perdono progressivamente in capacità d’interpretazione, e di comprensione; e ancora le appartenenze che si riducono a segnale di riconoscimento delle lotte fra bande, le omologazioni che annullano le differenze (salvo, queste ultime, risbucare fuori come costanti antropologiche brutali). Adesso Vertone ha ripetuto l’operazione, provando un Grand Tour europeo, percorrendo il Vecchio Mondo lungo assi incrociati, da Coimbra em Portugal a Leningrado, da Marsiglia a Edimburgo. Per una parte journal di viaggio e per l’altra catalogo antropologico e storico (oltre che politico, e culturale), il nuovo libro, Penultima Europa, costituisce con ogni probabilità il tentativo più ambizioso e difficile di un autore che è più conosciuto per i suoi ricorrenti exploit di polemista praticamente full time che per le sue solitarie esercitazioni di gourmandise culturale. Germanista, traduttore dei saggi di Hermann Broch e del Teatro di Heiner Miiller, già tre anni fa Vertone aveva organizzato in volume (L’ordine regna a Babele, editore Marietti) la sua enciclopedia privata di minima e maxima moralia e il repertorio di ossessioni di Kulturkritzker. Ma c’è ora una differenza sostanziale: Penultima Europa affronta esplicitamente un oggetto d’analisi qui e ora, non una serie di più o meno correlati, più o meno disparati obiettivi polemici: pure adottando la medesima strutturazione quasi per aforismi, per brevi paragrafi di quasi esplosiva intensità, instaura un confronto diretto con le cose, le idee, i fatti, le memorie, le teorie, le economie che si condensano nell’entità «Europa»: un confronto «impossibile» che poteva essere accettato solo da un intellettuale propenso a saltare i fossi degli specialismi e delle competenze accademiche, disposto a sfidare eroicamente diverse e irriducibili fenomenologie dello spirito («Niente è meglio di Hegel -scrive vedi caso Vertone- quando si debba spiegare l’universo a una classe di allievi»). Negli scompartimenti del primo treno per l’Europa, Vertone incontra subito alcune precisissime quanto banali personificazioni dell’europeo medio attuale, soprattutto giovane: dedito a un consumo individuale e solitario di piaceri sonori riprodotti meccanicamente: la «musica nella mente» attraverso gli auricolari del walkman di viaggiatori sospesi in un nulla assolutamente anonimo, privo di tempo, non può echeggiare nessuna delle fantasie e nessuno dei miti di cui l’Europa ha impregnato le sensibilità collettive. Potrebbe forse essere altrimenti? Tutt’al più oggi l’Europa «suscita sentimenti generici: ammirazione compunta per l’Inghilterra, rispetto e sospetto per la Germania, simpatia bonaria e fraterna per la Spagna, stima un po’ velenosa per la Francia». Eppure, se si ha l’avvertenza di non farsi stordire dalle pulsazioni e dalle «ghiotte sonorità», come diceva Adorno, massificate dalle multinazionali della musica commerciale, si ha subito la sensazione che il paesaggio fisico e intellettuale del continente sia modellato proprio da alcuni primitivi e potentissimi fenomeni di imprinting; il rumore di fondo dell’Europa è eccitato da radiazioni fossili che si condensano qua e là in articolazioni del vivere, come se in definitiva i suoi abitanti cercassero di assomigliare a tutti i costi agli stereotipi che li etichettano. Per questo, quasi sempre, il luogo comune anche più scontato si rivela sotto la superficie più vero del vero. Si dice Germania, ed è subito un certificato di garanzia, perché «c’è qualcosa dello spirito tedesco che lo spinge a inchiavardare un concetto nell’altro, in una discesa accanita verso il fondamento primo, o ultimo o comunque introvabile del mondo»: ci si dovrebbe stupire, allora, messa agli atti questa propensione alla sistematicità, che dall’Idea tracima nell’ordine quotidiano, dei molti miracoli realizzati dall’apparato tecnico-economico e burocratico tedesco? Perfino al di là del Muro l’eterna Germania non tradisce le aspettative: «La Ddr è, a quanto pare, l’unico stato comunista che sia riuscito a tenere in piedi, seppure a fatica, l’economia, la società, e persino un po’ di cultura. Solo i tedeschi potevano riuscire a far funzionare una cosa che non funziona in nessuna altra parte del mondo». Forse come esempio può bastare per dire ciò che viene fuori da Penultima Europa: cioè una specie di geografia morale, e anche di fisiognomica storica, ritagliata come le figurine sui contorni di numerose piccole (ma piuttosto ingombranti) patrie, ognuna dotata di una propria cultura, di un tratto distintivo assolutamente peculiare. E ognuna di queste porziuncole nazionali è nello stesso tempo diffidente verso l’integrazione quanto irresistibilmente attratta a cercare una dimensione più ampia, fosse pure soltanto per affermare snobisticamente un modello, un «noi», una qualche identità. Conta poco che i provincialismi e i localismi vengano messi preventivamente dietro la lavagna dalle profezie messianico-tecnocratiche del Novantatré: gli effetti di schizofrenia e di spaesamento, fra «armonizzazioni» comunitarie e squilibri tecnici o campanilistici, sono pur sempre plateali: «L’Europa ha paura di scomparire in qualche frigorifero della storia se rimarrà divisa. Ma ha paura di arrostirsi nelle graticole dell’economia se si unisce». Già, ma forse la storia ha già messo in frigorifero l’Europa, a dispetto delle invocazioni alla «casa comune» di Mikhail Gorbaciov o delle visioni pan-cattoliche di Giovanni Paolo II. Vertone affonda i suoi sondaggi nell’Europa capetingia e plantageneta, va in caccia di misteri e di teofanie culturali nelle eredità moresche della veloce Spagna post-franchista, cerca il filo della parabola del capitalismo marittimo e coloniale di Olanda e Inghilterra; senza escludere il passato più recente, e imbarazzante e indecente, quello che davvero non passa, che ci ha sconvolti e lacerati neanche mezzo secolo fa. Registra che spezzoni di Terzo Mondo sono già fra di noi, preludio a chissà quali futuri conflitti di razza e di cultura, mentre la piazza borsistica di Francoforte sta superando Londra. Annota anche le parentele pericolose di due formazioni politiche in simultaneo declino come la socialdemocrazia tedesca e i comunisti made in Italy, caratterizzate – scrive Vertone – dall’aver sponsorizzato e cavalcato per anni ogni rivendicazione, problema, questione proveniente dalla società senza indicare una soluzione che è una: un’eccellente esemplificazione della morte dei Progetti. Ma ciò che egli tenta davvero di individuare, interrogando il design di lusso smodato e kitsch del Grand Hòtel di Berlino Est (uno dei brani di più virtuosistica applicazione in tutto il libro, quello sul fasto di stato), o la straordinaria struttura architettonica della moschea di Cordoba, è se siamo «agiti» da una febbre, da un furore implicito nel processo storico che ha sempre beffardamente la meglio sui pallidi fantasmi della politica e sulle contingenze dell’economia. Sospesa fra le molteplici sfasature temporali della storia, fra mutamenti turbinosi e bradisismi impercettibili ma alla lunga vertiginosi, divisa da muraglie orografiche impervie, collegata da bracci di mare che sono oceani, l’Europa di Vertone è illustrata con un’intelligenza che traspare in ogni pagina, con una precisione che diviene persino insolente nei paradossi del realismo e nelle acutezze della sintesi. E che continuamente guarda alla dimensione europea con un retropensiero rivolto all’Italia attuale, questo paese «angariato da uno Stato farraginoso e inconcludente», in cui «serpeggia la strana speranza che la total immersion nell’Europa possa liberare i cittadini dalla farsa delle Poste, delle Ussl e delle Ferrovie, senza costringerli al dramma di dover pagare le tasse». Ma non è questa chiave più facilmente polemica quella che dà il tono al volume: che si segnala invece come un esempio di giornalismo culturale per molti aspetti di insolita originalità, consapevolmente lontano tanto dal «genere» consolidato della letteratura odeporica quanto dall’elzeviro elusivo e impressionistico delle vacanze d’autore. Gli ossimori di Vertone captano contraddizioni e fratture vere, profonde, sotto la superficie appena increspata del benessere europeo di questo secolo che rapidamente declina. Saverio Vertone, Penultima Europa, Milano, Rizzoli, 1989.

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