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Sopravvivere a Tangentopoli

09-10 1992
Dentro la crisi italiana

Fra luglio e settembre, il boa constrictor dell’economia ha preso nelle sue spire e ingoiato la politica. Come è naturale, quando sono in gioco gli standard di paese sviluppato e i livelli di benessere della collettività, e quando il marasma economico-fìnanziario minaccia di sbugiardare gli anifici contabili che hanno tenuto in piedi il bilancio dello Stato e di tagliare redditi e quote di consumo della popolazione, il fenomeno della corruzione politica (ma più in generale il problema rappresentato dalla classe politica attuale) si è attenuato nella percezione pubblica: almeno per qualche settimana, Tangentopoli ha perso il dominio sui telegiornali e sulle prime pagine dei quotidiani. Hanno perduto posizioni anche le notizie e le discussioni relative alle riforme elettorali, i cui tempi si sono rivelati drammaticamente sfasati rispetto all’obbligo di affrontare una straordinaria emergenza economica. Per alcuni aspetti, la stessa costituzione della Commissione bicamerale per le riforme, che era stata annunciata nel discorso d’insediamento dal presidente della Repubblica Scalfaro, è apparsa qualcosa di astratto, simbolo di un mondo foderato di velluti, intessuto di convenzioni e diplomazie, che discute con passione e ragione- come direbbero retoricamente i parlamentari più convinti del loro ruolo di «centralità» politica – mentre fuori incalza una battaglia probabilmente già persa. E il paradigma infallibile di Roma che dibatte confusamente mentre Sagunto viene espugnata? 1 Ma di fatto è anche l’allestimento preventivo di una soluzione virtualmente rovinosa, della possibilità di un contraccolpo nefasto: vale a dire la perdita definitiva di credito per tutto il Parlamento, per tutto il ceto politico, probabilmente per tutto il sistema rappresentativo e di governo, nel caso che la bicamerale si blocchi sui catenacci arrugginiti delle logiche di partito e non riesca a produrre neanche l’ombra delle riforme per cui è stata creata. La connessione fra l’inchiesta giudiziaria «Mani pulite» e le riforme istituzionali risulta meno criptica se si accetta l’idea che il comportamento del sistema politico non si modifica in meglio attraverso determinazioni volontaristiche («Occorre prima riformare le coscienze!») o velleità moralistiche (sul tipo del «partito degli onesti» o del «partito che non c’è»). Non è sottomissione supina a un determinismo banale: in democrazia le regole non sono tutto, ma sono molto. Soprattutto se si pensa all’uso improprio che delle regole attuali si è fatto, per adeguare furbescamente i problemi dettati dalle meschine necessità e convenienze della realtà quotidiana con l’alta norma prescritti va delle carte fondamentali della Repubblica e dell’elevatissimo potenziale di valori, ideali e promesse contenuto fino a ieri negli statuti ideologici dei partiti. Il codice di Sergio Moroni A partire dall’arresto di Mario Chiesa, e dopo la scoperta di quella che i giudici della Procura di Milano hanno definito «corruzione ambientale», cioè le tangenti erette a sistema, quasi tutti gli osservatori hanno detto e scritto che «si sapeva»: si sapeva che «la democrazia costa» senza che lo rivendicasse Bobo Craxi, che i partiti dovevano infrangere la legge per trovare le risorse da destinare ai loro apparati, alle sezioni, ai funzionari, ai centri studi e ai loro giornali. Lo sbalordimento, semmai, derivava dalla scoperta delle dimensioni aberranti del fenomeno, non dalla sua esistenza. Risultava stupefacente in sostanza che il carcinoma avesse sostituito integralmente gli organi che aveva aggredito. Come questo sia potuto avvenire lo si trova sintetizzato con eccezionale lucidità nella lettera che il parlamentare socialista bresciano Sergio Moroni, suicida all’inizio di settembre per questione d’ onorabilità distrutta, ha fatto pervenire al presidente della Camera Giorgio Napolitano: «Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C’è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si defìniranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste stesse regole». Prima di queste parole precise e disperate, formulate da una vittima della trappola che lui stesso ha contribuito pazientemente a costruire, Tangentopoli era stata soprattutto una grande sagra di sciocchezze. Dietro l’inchiesta incarnata nell’immaginario popolare dal giudice Antonio Di Pietro era stata vista all’inizio una sapientissima regia politica, capace anche di influenzare la corsa al Quirinale e la formazione del governo, magari a vantaggio inevitabile del democristiano più volpino che si conosca. Era stato avanzato, e cominciava ad affermarsi, anche lo schema bifido secondo cui rubare per il partito è meno grave che rubare per il proprio basso interesse personale2 In realtà, l’inchiesta della Procura di Milano ha avuto effetti brutali innanzitutto per le sue dimensioni, perché ha fatto capire agli italiani che la ramificazione del metodo basato sulle tangenti era assai più estesa di quanto non si intuisse; che si poteva benissimo pensare che Milano non fosse che una sineddoche, la parte per il tutto, della situazione italiana, quindi come in una reazione chimica non del tutto prevista ha fatto precipitare come una grandinata il rancore dell’opinione pubblica verso i partiti. Al punto che non risulta oggi molto chiaro se rubare per il partito anziché per gli svaghi individuali sia percepito effettivamente come qualcosa di gravità minore. Infatti, nel momento in cui ai partiti viene attribuita la responsabilità di uno sperpero di risorse enorme, che rischia di fare piombare il paese nel baratro della bancarotta, possono risultare assai più tollerabili i vizi privati, cioè le ruberie per il proprio conto corrente, anziché le virtù pubbliche, vale a dire la pensosa capacità di avere mantenuto in attività e in equilibrio il sistema politico dandogli come strumento finanziario la percentuale sugli appalti. Sotto questo profilo, la popolarità di tipo calcistico guadagnata dal giudice Di Pietro3 sintetizza uno stato d’animo vicino a quello della ribellione. Ci si può rivoltare contro i partiti flirtando con la Lega Nord e giocando con le parole grosse sotto il profìlo istituzionale di Miglio e l’atteggiamento semi-insurrezionale di Bossi sul fisco; oppure consegnando entusiasticamente ai giudici di Milano il compito di fare festosamente a pezzi la partitocrazia. Il ruolo storico dei partiti Insomma, il giudice Di Pietro diventa simbolo e immagine di un riscatto perché nella sua figura gran parte dell’opinione pubblica vede la vendetta contro quelle personalità così remote e potenti, che si sono infilate dappertutto, nelle Usl e nelle Poste, nelle banche e nelle aziende di Stato, hanno deciso il nostro benessere, le assunzioni dei nostri figli, le carriere dei medici, il livello qualitativo degli ospedali, insomma, hanno invaso tutte le zone di raccordo nelle istituzioni e occupato tutti i nuclei di controllo nella società. Un «finalmente» corale e spontaneo è corso per la penisola, preludio di una specie di liberazione. Ma tutto questo, la fulmineità del modo in cui si è verificata questa assunzione di orientamento da parte dell’opinione pubblica, significa anche che «Mani pulite» è solo un’occasione, la leva che fa saltare il coperchio: ma il problema, è naturale, esisteva da prima. Il malato «classe politica» era già gravemente malato, da tempo erano malati i partiti e malsano il sistema di regole che presiede al funzionamento del sistema politico. E i sistemi politici, com’è noto, difficilmente sono in grado di praticare l’auroterapia. Oltretutto, in una condizione vicina al collasso, quell’insieme di atteggiamenti che prima venivano considerati come correttivi non insensati (la propensione a mediare, la stima personale fra rappresentanti di partiti diversi, le solidarietà parlamentari e corporative che in passato avevano attenuato il conflitto ideologico) si rivela all’improvviso come la prova evidente di una losca complicità che pervade tutta l’arena politica. I provvedimenti che i partiti decidono di prendere sull’onda dello scandalo (vedi la decisione statutaria democristiana di considerare incompatibili l’incarico di governo e il mandato parlamentare, oppure l’annuncio di Craxi di regionalizzare il Psi e azzerare i pacchetti di tessere) appaiono tutti come strumenti approssimativi di un affannato trasformismo. Eppure, è evidente che la «Repubblica dei partiti» non ha commesso soltanto miserabili illegalità. Dal dopoguerra in avanti è riuscita ad amministrare il conflitto ideologico in modo che esso non uscisse, se non in casi isolati, dalle norme della democrazia parlamentare; ha assecondato il processo di modernizzazione, mitigando tutte le asprezze dell’economia e procurando acrobaticamente benessere; non avendo una verità da affermare, ha insegnato perlomeno un’abitudine, divenuta poi un’attitudine, al pluralismo. Tutto ciò è stato pagato con una sola moneta, l’assenza di governo. Vale a dire la mancanza di un’azione fondata su un modello preciso di società a cui fare riferimento: in fondo, ciò che importava al ceto politico di governo non era tanto la determinazione di chi doveva pagare e chi doveva riscuotere, nel corso della modernizzazione economica, e nemmeno a quali risultati sociali – a quale idea di collettività – dovesse portare uno schema redistributivo. L’importante era mantenere le posizioni. Quando un sistema politico è paragonabile a un campionato di calcio in cui i posti in classifica sono già fissati, malgrado le tifoserie delle varie squadre facciano talvolta molto chiasso, l’unica preoccupazione per chi governa e per chi dovrebbe fare l’opposizione è quella di mantenere le posizioni. Per la maggioranza, governare vuole dire integrare tutte le spinte possibili entro il congegno politico: all’inizio, nella sua concezione nobile, è il modello a somma positiva di Aldo Moro, per il quale la nostra società non avrebbe potuto sopportare l’esplicarsi di un conflitto netto, e quindi il cambiamento e l’innovazione erano giudicati possibili solo come un allargamento a macchia d’olio dell’area della legittimità politica (prima ai socialisti, poi ai comunisti); ma alla fine, nella versione degradata, è il sistema bloccato, privo di alternanza, in cui la minoranza anziché farsi venire il mal di testa per definire programmi più competitivi si adatta a chiedere la compartecipazione al potere per via consociativa4. Alla fine di questo processo, che raramente incontra resistenze significative, le istituzioni sono occupate, la società civile risulta sovrapposta a quella politica. Dalla Rai alla magistratura, dalle Unità sanitarie locali ai consigli d’amministrazione dei teatri, tutto replica alla perfezione gli equilibri politici sanzionati dai risultati elettorali5. Complicità non confessate La collera dei cittadini verso il regime di occupazione praticato dai partiti sarebbe probabilmente più credibile se si fosse manifestata in tempi non sospetti. Ma in precedenza il mugugno, il vero basso continuo della nostra società, era convissuto con una collusione sostanziale. Se i partiti avevano predisposto strumenti sicuri che consentivano di promuovere le più consumate (e costose) strategie di mantenimento del consenso, i cittadini avevano accettato le erogazioni del Welfare State all’italiana senza particolari sensi di colpa. Se la disattenzione interessata dell’operatore pubblico dava mano libera agli evasori fiscali, questi ultimi e le loro categorie corporative non mostravano di soffrire particolarmente per il loro ruolo di virtuali free riders. Anzi. Il saccheggio delle risorse collettive a favore delle corporazioni, degli interessi locali, delle lobbies, si era ossificato come l’unico strumento attraverso cui veniva mediato il rapporto fra i partiti e gli elettori. Tutti sapevano che lo scambio era perfettamente paritario. Se i partiti non avevano nulla da offrire (non più l’orgoglio ideologico, non progetti a lunga gittata, non prospettive di speranza civile e di partecipazione pubblica), e quindi continuavano a offrire soltanto merce svalutata, servizi balordi e soldi scriteriati, procurati attraverso una rovinosa corsa all’ indebitamento pubblico, i cittadini dal canto loro hanno accettato piuttosto supinamente questa merce. E questo purtroppo non è rimasto senza conseguenze. Gran parte della società italiana si è abituata nel tempo a considerare gli stipendi del settore pubblico, le pensioni ai bambini, il medico di famiglia che prescrive una Tac per un mal di testa, come qualcosa di assolutamente normale, dovuto, libero da qualsiasi criterio di compatibilità economica. Queste consuetudini hanno plasmato nella psicologia collettiva convinzioni improbabili quanto tenaci, che hanno influito profondamente sui comportamenti individuali e collettivi, generando una specie di grossolana ma popolarissima mitologia: alla cui base c’era la falsa coscienza che la ricchezza non dovesse essere faticosamente accumulata, bensì disinvoltamente e convenientemente distribuita. Come se esistesse una pompa inesauribile, in grado di erogare risorse e servizi all’infinito, e come se l’unico problema effettivo fosse quello di indirizzare in modo «giusto», «equo», «solidale» il flusso di denaro e prestazioni. Se il tubo della ricchezza veniva indirizzato nella direzione giusta, nessuno fiatava; se si cercava di limitare l’erogazione o di rivolgerla altrove, si alzavano strilli risentiti, nella certezza che i partiti non potevano rimanere sordi a nessuna protesta. Inutile sottolineare che in genere le parole d’ordine «giustizia», «equità» e «solidarietà» erano semplicemente la copertura della distribuzione di favori e privilegi. Ma tutto ciò ha provocato un colossale processo di diseducazione. Il confine fra l’essere cittadini, quindi titolari di diritti reali e di doveri stringenti, e l’essere sudditi, affidati alla furbesca e ingegnosa generosità e alla benevolenza discrezionale di un’autorità cialtrona, si è vistosamente assottigliato. Una società sedicente moderna ha accettato di essere trattata come le plebi dell’ Ancien Régime. Con un calcolo di miope particolarismo ha tollerato che i commercianti sotto casa potessero evadere il fisco e che le Poste non funzionassero, pur di riscuotere in cambio pensioni e rendite. Ha accettato servizi tragicamente scadenti pagando opportunisticamente il prezzo dell’inefficienza pubblica a patto di vedersi assicurato un effimero benessere privato o corporativo. A che cosa servono oggi i partiti Dicendo tutto ciò non si vuole rovesciare i termini del problema, e scaricare sulla società civile le responsabilità della consorteria politica. E nemmeno nascondere altre complicità che sono emerse, fra industria e politica. Semmai, si vuole segnalare che talvolta l’atteggiamento passivo di una società cloroformizzata dal benessere potrebbe benissimo mutare radicalmente nel caso che scomparissero i fattori che hanno indotto il grande sonno. All’appagamento e alla sottintesa complicità potrebbe sostituirsi una voglia feroce di abbattere tutti i simulacri del sistema. Forse è a causa di una percezione subliminale di questo genere che fra gli uomini politici viene propagandato con tanta insistenza il timore di svolte autoritarie. Perché quando si ha la consapevolezza che non si è riusciti a guadagnare autorevolmente il consenso, ma semplicemente a pagare a caro prezzo i voti, il pensiero di quello che può succedere se si è costretti a stringere d’un tratto i cordoni della borsa può diventare davvero un’inquietudine estrema6. D’altra parte, se si toglie di mezzo l’acquisizione dei voti mediante lo stravolgimento del Welfare e l’indebitamento mediante i titoli di Stato, che cosa rimane dei partiti «storici» italiani? Che cosa è rimasto nella Dc del «popolarismo» cattolico? In un bilancio della vicenda italiana contemporanea, commentando le elezioni politiche del 1987, essa viene bollata alla fine come «un’armata mercenaria, tenuta insieme dall’eterna paura del comunismo e comandata da un manipolo di gerontocrati»7. E che significato hanno per il Partito democratico della sinistra parole come «sinistra», «classe operaia», «progresso», quando l’ex Pci è un cocktail in cui un barman distratto non è riuscito a contemperare radicalismi astratti e riformismi frustrati? Analoga domanda si potrebbe rivolgere al Psi, chiedendo notizie sul significato attuale di espressioni come «Grande Riforma» o «modernizzazione». Ma sarebbero ironie da poco. C’è piuttosto un elemento strutturale nella situazione politica corrente, che dovrebbe fare riflettere a lungo sulla malattia dei partiti: ed è che per la prima volta nel quasi mezzo secolo di democrazia repubblicana i grandi partiti che qualcuno si ostina a chiamare ancora «popolari» non hanno una soluzione credibile di ricambio al vertice8. Se un ricambio nella dirigenza dei partiti significa soprattutto una sterzata nella linea politica, cioè il tentativo di individuare e tradurre diversamente nell’ambito di una formazione politica ciò che si agita e si diversifica nella società, si direbbe quindi che in questo momento non ci siano gli strumenti per trovare nuove saldature fra i partiti e l’opinione pubblica. Guarda caso, se qualcosa di nuovo comincia a nascere – nuove percezioni, nuove autorappresentazioni, nuove linee su cui attestare il conflitto, e quindi nuove mediazioni – nasce all’esterno, fuori dai partiti tradizionali. Di questa tendenza, l’esperienza recente di maggiore successo politico, rappresentata dalla Lega Nord, costituisce un’esemplificazione praticamente perfetta, in quanto sostituisce almeno nominalmente alla competizione con gli altri i partiti un impegno contro i partiti. Ma non c’è solo la Lega. I «pattisti» referendari costituiscono un altro caso in cui si registra il modellarsi di altre fedeltà, altre lealtà rispetto a quelle classiche di partito. E altri movimenti, dai Verdi agli antiproibizionisti (fino ai fenomeni per ora folcloristici dei partiti «paranoici» come quello degli automobilisti o dei pensionati) hanno già mostrato che i confini dei partiti classici possono essere sfondati senza troppe difficoltà. «Quis custodiet custodes»? D’altra parte, se lo «schema Moroni» (cioè la scelta e la costruzione di regole rigidissime temperate da una prassi opportunistica di tolleranza generalmente condivisa) ha funzionato perfino nell’ambito del grande conflitto ideologico fra Dc (e alleati) e Pci; se cioè si è potuto venire a patti reciproci in commissione parlamentare, nei consigli d’amministrazione, negli enti di gestione, e giù giù fino alle giurie letterarie – malgrado l’adesione a concezioni del mondo nominalmente antitetiche, come si poteva pensare che i criteri di moralità pubblica e privata richiesti a un «imprenditore del consenso» venissero automaticamente rispettati? Allorché l’attività di un operatore politico non è misurata sulla base di una competizione effettiva, ossia quando il giudizio sull’esponente politico non è esprimibile semplicemente con il voto, si apre la possibilità di conseguenze piuttosto preoccupanti. Quando una posizione politica non è misurata nella sua efficacia su una base di «contendibilità», cioè quando il «mercato» politico è già morto perché soffocato dalla rete deglì oligopoli politici, ci sono soltanto due scale di giudizio: una è graduata sull’utilità di questa posizione per il partito di appartenenza, utilità che può comprendere la capacità nell’acquisire silenziosamente finanziamenti anomali; l’altra dipende dalla coscienza individuale. Un avvenimento esterno, come la decisione della Procura di Milano di procedere a tappeto con le indagini e di usare le spicce con gli inquisiti, può fare entrare in collisione queste due scale di moralità. Le reazioni possono essere di tanti tipi: di solito, il senso di onnipotenza che gli esponenti politici eli spicco hanno maturato nella loro carriera può convincerli che il giudizio su ciò che viene praticato en politique appartiene soltanto a loro. L’abitudine a un uso paternalistico del potere e alla mancanza di concorrenza e di ricambio può segretamente determinare un atteggiamento del tipo «noi soli sappiamo esattamente ciò che va bene per voi». E quindi la corruzione, la concussione, la tangenteria possono iscriversi a puntino in una concezione arbitrariamente più elevata, divenire funzionali a visioni generali di grande gittata in cui il giudizio dell’opinione pubblica o del tribunale deve cedere il passo alle considerazioni più consapevolmente e sottilmente politiche. Si coglie spesso, nelle dichiarazioni dei tangentocrati, un che di sorpreso se non di irritato. Ma come: noi ci rompevamo la schiena per costruire e mantenere nientemeno che la democrazia, e due o tre giudici straccioni si permettono di buttare giù tutto il castello? Stiamoci attenti, perché la democrazia è un bene prezioso. O non vorrete essere governati dai magistrati? Una soluzione politica Purtroppo, non è stata solo Milano ad applicare in politica questi metodi in cui la discrezionalità tende ineluttabilmente a sfumare nella criminalità politica. E il rischio è davvero che «Mani pulite» non abbia mai fine. Che, estendendosi a dismisura, senza trovare più resistenza, affondando come lama nel burro in un coacervo di complicità senza limiti, alla fine acquisti la consistenza e la dignità di una informale struttura permanente della vita istituzionale italiana. Una specie di «azione parallela» musiliana, con i suoi giudici speciali, i suoi inquisiti, su uno scenario che almeno per il grado progressivo di decadenza assomiglierebbe davvero alla Finis Austriae. E invece, un giorno «Mani pulite» andrà chiusa, per via giudiziaria e per via politica. Occorrerà effettivamente stabilire dei termini di prescrizione. Ma le amnistie non si concedono se non dopo la caduta di un regime. E quindi tutto ciò non potrà avvenire prima di avere proceduto a un compito estremo: che con una formula radicale potremmo riassumere nella sostituzione integrale della dirigenza politica attuale. Non è una soluzione retoricamente massimalista; e ovviamente non è nemmeno l’invito a fare piazza pulita con metodi autoritari. Si tratta invece di far sì che i partiti attuali, per via procedurale, attraverso un meccanismo politico di medio periodo, vengano smembrati e diventino materiale utilizzabile e rimodellabile sulla base di un altro sistema di regole politiche. Dovrebbe risultare evidente che si tratta di un obiettivo che non verrà raggiunto ope legis dai giudici. Nessun magistrato riuscirà a ottenere con il codice penale ciò che deve essere raggiunto per via politica. Occorre quindi che dal «modello Moroni», quello dei due pesi e delle due misure, si passi a un modello rigidamente vincolante. In questa prospettiva, l’ abrogazione dei partiti attuali resta qualcosa di concettualmente traumatico ma tecnicamente fisiologico. È probablle insomma che occorra distruggere la macchina degli sprechi, che sia necessario tagliare alla radice tutti i rapporti che gli apparati di partito hanno con gli apparati dell’amministrazione. Smantellare cioè i partiti così come sono, le loro burocrazie pletoriche, recidere il legame con le fameliche clientele organizzate. Ci vuole un tipo di democrazia, come dire, «cattiva», a gioco duro, in cui chi vince vince e chi perde deve inventarsi programmi per vincere la volta successiva e per non mettere a repentaglio la propria sopravvivenza come soggetto politico. Solo l’uninominale «secca» all’inglese sembra avere la forza di imporre un cambiamento simile. Prima di dire che è impossibile che i partiti si suicidino adottando una legge elettorale di questo tipo, proviamo a pensare che sembrava impossibile che un governo potesse varare misure economiche realmente incisive: e tuttavia, per forza di disperazione, il governo Amato è stato costretto a tagliarsi alle spalle gran parte dei ponti con cui i partiti agganciavano tradizionalmente il consenso popolare. Si diceva che occorresse uno shock esterno alla politica, un’altra Algeria, per procedere all’eutanasia del sistema attuale e fare le riforme istituzionali: ma se si pensa al potenziale esplosivo dell’emergenza criminale e dell’emergenza economica, insieme al clima di sfiducia generato da Tangentopoli, ci si accorge che di Algerie in casa potremmo averne in realtà più d’una. Perfino il dogma dell’unità nazionale è stato messo in crisi. C è in ogni caso la sensazione che l’intero patto sociale su cui si è formata l’Italia contemporanea debba essere riscritto. Stiamo vivendo una fase estremamente difficile che prelude potenzialmente a una transizione assai dolorosa; il cinismo di cui è impastata l’esperienza insegna che se va male pagheranno come sempre i più deboli: proprio coloro di cui i partiti storici hanno sempre assunto enfaticamente la rappresentanza e che hanno sempre detìnito come soggetti dei loro programmi. Un simile tradimento, questo sì, sarebbe corruzione vera, tradimento, perdita inesorabile di dignità. E soltanto il sospetto che una soluzione del genere sia possibile dovrebbe costituire un invito a cercare di morire, per quanto è possibile, in bellezza, piuttosto che tentare annaspando di sopravvivere nel disprezzo. Note 1 Non per riesumare la vecchia boutade craxiana secondo cui «quando in Italia non si vuole fare nulla, si fa una commissione», ma sarebbe di qualche interesse sapere quanti, nello stesso Parlamento, credono che il lavoro della bicamerale porterà a qualche risultato. La commissione dei 60 è costituita, ovviamente, secondo un rigido criterio proporzionale. Anche le cariche, a partire dalla presidenza di Ciriaco De Mira (Dc), attraverso le vicepresidenze (Augusto Barbera, Pds, Luigi Covatta, Psi) e fino al ruolo di segretario (Ersilia Salvato, cioè Rifondazione comunista, e Marcello Staglieno, Lega Nord) appaiono assegnate secondo un inevitabile criterio spartitorio. D’altronde, tutto è inevitabile in questo senso in un Parlamento dominato da basic istincts consociativi, dove gli equilibri raggiunti sono sempre il rif1esso del sistema proporzionale, e quindi tutto è inevitabile anche nel «miniparlamento» predisposto per le riforme istituzionali. 2 Gli esempi di sciocchezze pronunciate sul sistema della corruzione sono talmente numerosi che un catalogo ragionato non è possibile. Ci sono stati inquisiti milanesi che hanno detto di avere ricevuto denaro, ma nella perfetta e sovrana convinzione che si trattasse di denaro pulito: ciò nonostante che il passaggio di mano dei soldi fosse avvenuto con l’esponente di un altro partito, di notte, in un garage. Molti esponenti del Psi e qualche notabile democristiano hanno alluso spesso a «oligarchie» che tenterebbero di delegittimare i partiti popolari a proprio vantaggio. Alcuni titoli apparsi sul quotidiano più legato all’attuale assetto politico, «Il giorno», hanno assecondato questa linea di pensiero, attribuendo ora a Tina Anselmi ora a De Mita l’idea che esistano progetti antipartitici da parte di certe aristocrazie del potere. Dopo il suicidio di Moroni, il giornale diretto da Paolo Liguori ha pubblicato un titolo cubitale in cui figurava la parola «martirio»: probabilmente per fare capire che se c’è un martire ci dev’essere un potere perfido che ne decide la sorte. Ricordiamo che Valentino Parlato, sul «manifesto», ha scritto che il furto pubblico è concepibile se praticato in vista di «un grande cambiamento». Fosse stata la rivoluzione, si sarebbe capito. Ma dato che nessun partito in Italia accetta di schierarsi sotto il vessillo del pensiero conservatore, e i programmi sono volitivamente tesi a mutamenti straordinari dell’assetto politico (e che nessuno è buon giudice della qualità effettiva del proprio programma politico), questa tesi equivale alla richiesta di un’amnistia. Amnistia che è stata prospettata dal segretario aggiunto della Cgil Ottaviano Del Turco, e perfino ipotizzata da uno dei giudici dell’inchiesta milanese, Gerardo Colombo. Il più spettacolare protagonista dell’indagine è stato senza dubbio il democristiano Roberto Mongini, il quale dopo la liberazione dal carcere ha riconosciuto «la caduta di un sistema» ed è diventato il primo rappresentanre dei tangentocrati pentiti, fino a presentarsi dal giudice per un interrogatorio successivo indossando una polo con sul taschino la scritta «Mani pulite Team». Con un interessante cambiamento semantico, la colpa del «sistema», che tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta veniva invocata per fare la rivoluzione, è divenuta una constatazione per domandare l’amnistia. 3 Il settimanale berlusconiano «Sorrisi e canzoni» gli ha dedicato una copertina con lo strillo «Di Pietro facci sognare», che riprendeva il tifo corale del paese allo stesso modo in cui lo aveva fatto nel 1982la «Gazzetta dello sport» per la nazionale di Bearzot ai mondiali di calcio in Spagna. 4 A Giuliano Amato piaceva spiegare il metodo della lottizzazione illustrando il «modello degli uscieri»: se c’è alternanza, non conviene apporre il marchio di partito sugli uscieri, perché a chi vince le elezioni la prossima volta non piace avere gli uscieri schierati con il vecchio partito. E quindi gli uscieri stessi sarebbero diffidenti verso chi li volesse partiticizzare, perché in caso di ricambio politico rischierebbero il posto o la simpatia economica del nuovo governo. Conviene lottizzare le assunzioni solo se c’è la certezza dell’immobilismo, in modo che tutti i partiti possano spiccare le cedole di una rendita politica. 5 Dentro un quadro politico in cui la Dc gode della rendita elettorale anticomunista, mentre il Pci capitalizza in modo speculare una specie di «rendita di opposizione», proponendosi come imprenditore politico di tutte le proteste, tutti gli antagonismi, tutte le frustrazioni «contro la Dc», risulta perfettamente razionale e fruttuosa l’azione socialista durante gli anni Ottanta. Il tentativo di Craxi di infilare un cuneo fra i due giganti malati della politica italiana comportava la possibilità di sbloccare il patto consociativo e di guadagnare un terzo tipo di rendita: gli dava la possibilità di una dura polemica contro il Pci berlingueriano e nello stesso tempo di erodere quote di potere alla Dc. Non a caso è stato notato che negli anni del governo socialista, fra il 1983 e il 1987, Craxi esercita contemporaneamente le funzioni di capo del governo e di capo dell’opposizione. "Uno dei più preoccupati presentatori di denunce sulle possibili involuzioni autoritarie della politica italiana è Ciriaco De Mita. Ma con altre motivazioni: per un uomo cresciuto dentro la «democrazia dei partiti», qualsiasi minaccia all’esistenza e al ruolo di questi partiti, venisse pure dal libero voto dei cittadini (come è già avvenuto con il voto per la Lega Nord) o con il mutamento delle regole elettorali in senso uninominale, costituisce un attacco alla democrazia tout court. Invece il socialista Ugo Intini vede proprio nell’azione della magistratura, e nell’eco che essa suscita nell’opinione pubblica, un preciso anche se ancora oscuro «disegno» per gettare discredito sui partiti e per preparare la strada al potere di potentati economici e lobbies. 7 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia, Marsilio, 1992, p. 451. Il 1989, con il crollo del muro di Berlino e dell’ideologia, spazza via tutte le giustificazioni basate sulla presenza dei comunisti in Italia, cioè di un partito che presentava tratti antisistema. A chi potremo raccontare, senza suscitare ilarità, che l’Italia è stata sgovernata per resistere al comunismo? Sarà stato vero, ci verrà risposto, fino all’annus mirabilis. Ma dopo? Dopo c’è stato un vistoso ritardo di percezione rispetto al verificarsi del mutamento. Ritardo che può essere identificato e quantificato nella durata del settimo governo Andreotti, alla fine della scorsa legislatura. Questo non per attribuire un nome e un cognome al responsabile della bancarotta italiana, ma semplicemente per dire che il democristiano più prestigioso, più abile, più spregiudicato, è stato anche il gestore finale di un sistema che non teneva più, e non se n’è accorto. Non si è accorto che, a duecento anni precisi dalla Rivoluzione francese, cominciava anche in Italia una rivoluzione. E così come il Luigi di Francia nel giorno della presa della Bastiglia poteva annotare l’ultimo dei suoi moltissimi «Rien», Giulio VII si sentiva autorizzato a scrivere nell’agenda politica uno dei suoi motti preferiti: tirare a campare, tutto s’aggiusta. La vera ideologia sottostante era la fede incrollabile nella possibilità illimitata di indebitamento. 8 Nella Dc, la storia delle dimissioni a giorni alterni di Forlani dopo le elezioni del 5-6 aprile è straordinariamente significativa. L’alternativa, nella Dc, è rappresentata da Mario Segni: il quale però è talmente in contraddizione con la palude democristiana che deve spostarsi sempre più vicino al confine del partito. Qui sta costituendo un nucleo di corrente o di partito nuovo: al momento buono, infatti, ci vorrà poco a tagliare gli ultimi legami e a giocarsi in proprio la partita del rinnovamento. Di singolare, nell’antipatia che ampi settori della Dc nutrono verso il leader referendario, c’è la mancata percezione di che cosa sia realmente Mario Segni, un moderato costretto paradossalmente a fare il rivoluzionario per poter tramutare la Dc in un partito popolar-conservatore come ce ne sono diversi in Europa. Nel Partito socialista, s’è avviato uno scontro generazionale nel quale chi ha credito non ha potere, e chi ha potere non ha più credito. L’esito della contrapposizione fra Martelli e Craxi dipende in realtà poco dalla situazione interna del Psi. Rebus sic stantibus, l’organizzazione è nelle mani di Ghino di Tacco. Un eventuale successo di Martelli dipende da processi di scomposizione e di ricomposizione delle forze politiche, della sinistra, delle forze che vogliono riformare le istituzioni, processi che in questo momento possono essere identificati ma sulla cui riuscita non c’è il minimo segnale. Nel Pds, infine, alla debolezza politica di Occhetto fa riscontro la debolezza di alternative plausibili: nel senso che D’Alema potrebbe essere un candidato alla sostituzione di Occhetto, ma alla sostituzione del segretario attuale si arriverebbe solo sulla scia di avvenimenti traumatici che potrebbero disintegrare definitivamente il partito.

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