PANORAMA
PANORAMA, 30.05.1996, IDEA DELLA SETTIMANA
COS’E’ IN E OUT NELL’ERA DELL’ULIVO
Il 21 aprile c' è stato un contraccolpo spettacolare. Tutti coloro che cavalcavano l'onda del centrodestra come provetti surfisti, rincorrendo la possibile, probabile, praticamente certa vittoria del Polo per le libertà, si sono trovati all' improvviso con il didietro a bagnomaria a qualche metro dalla spiaggia. "Quelli che l'Ulivo", invece, si sono trovati dentro una festa imprevista. Da una parte, quindi, ministri in pectore rimasti senza dicastero, e dall' altra gente presa in contropiede dalla sorpresa della vittoria. E' cominciata l'era dell'Ulivo? I titoli del Giornale di Vittorio Feltri hanno già aperto il fuoco contro il "regime" di centrosinistra. Ma la banale realtà è che invece, in modo diffuso, in modo appena percettibile, si sta procedendo a una specie di spoils system all' italiana, a una virata nel costume e nel gusto, nelle abitudini consacrate e nelle convenzioni, nella cultura e nell' intrattenimento. Sintomi, indizi. Fatto sta che per quanto corteggiatissimo, il guru del volley Julio Velasco non ha accettato di sostituire Fabio Capello al Milan; l'ex capitale morale Milano ormai è una caotica periferia di Bologna; la mortadella rischia di diventare un affettato di culto. Meglio attrezzarsi, quindi, perché percepire in tempo il mutamento d' atmosfera può aiutare a vivere (e bene) malgrado quelli che Berlusconi talvolta chiama ancora con tenacia "i comunisti". Quel che segue è un primo catalogo di ciò che va su e ciò che va giù nell' Italia dell'Ulivo, che fino a ieri era la terra dei cachi e oggi, secondo i criteri di D' Alema, sarebbe un Paese normale. Visioni del mondo. Prima veniva annunciata la strepitosa buona novella del liberismo, del mercato, della deregolazione. Adesso la curva di Laffer (troppe tasse uguale minor gettito, abbassare le aliquote per aumentare l'introito dello Stato), su cui Ronald Reagan aveva pilotato l'economia ruggente degli Ottanta, e la famosa economia supply side sono considerate merce fuori corso. L'ex Lady di ferro, ovvero Margaret Thatcher, viene dipinta come un'anziana signora bizzarra, colpevole di avere "spaccato", come ripete Romano Prodi, la società inglese, allargando in modo insostenibile il divario fra le classi. E si capisce. I teorici vicini all' Ulivo sono in grado di argomentare che il liberismo non spiega fenomeni angosciosi come la "jobless growth", cioè la crescita senza aumento dell'occupazione. Amartya Kumar Sen, indiano metà economista e metà filosofo, sta girando per l'Italia ammonendo sui pericoli dell'estremismo del bilancio in pareggio. Si sente profumo del deficit spending e di John Maynard Keynes? E dove sarebbe il New Deal? In realtà il centrosinistra non lo dice ma è terrorizzato dalla tecnologia e dal suo impatto sull' occupazione. Per evitare la delocalizzazione delle industrie verso i paesi a basso costo del lavoro, occorre fare leva sulle potenzialità dell'innovazione tecnologica. Ma se la tecnologia fa salire troppo la produttività, si distrugge occupazione. Lo ha illustrato con chiarezza Lester Thurow, autore alla fine degli anni Settanta del best-seller La società a somma zero: se la produttività cresce del 6 per cento ma il mercato solo del 3, per un po' si accumuleranno scorte di magazzino, ma poco dopo si comincerà a tagliare il personale. L' orrore per il "downsizing", cioè le ristrutturazioni occupazionali al ribasso, unito ai timori generati dagli apocalittici come Jeremy Rifkin (La fine del lavoro), che profetizzano a breve la perdita irrecuperabile di decine di milioni di posti di lavoro in tutto l'Occidente, fa sì che l'Ulivo sia un formidabile produttore di concetti intermedi. Lo stato sociale sì, naturalmente, ma snellito e reso sostenibile. La solidarietà, ma efficiente. Il federalismo, ma solidale, come lo intende il cardinale Carlo Maria Martini. Il tutto tenuto insieme da un unico strumento di governo, la concertazione, che a dire la verità ha già funzionato in Italia a metà degli anni Ottanta, facendo cadere il tasso d' inflazione, e poi con i governi Amato e Ciampi. Governo, sindacati e imprenditori uniti nella resistenza, tentando di realizzare un'edizione italica della "soziale Marktwirtschaft", l'economia sociale di mercato di stampo tedesco. E allora, come simbolo del centrosinistra teutonico, si potrebbe utilizzare Michael Schumacher, il fenomenale pilota tedesco della Ferrari, un autentico würstel dal volto umano, magari fotografato sulla bicicletta italiana di Romano Prodi. La cultura. Prima delle elezioni andava per la maggiore la politologia, a partire naturalmente da Giovanni Sartori e dal suo libro Ingegneria costituzionale comparata, ma ora del semipresidenzialismo si parla meno, e la situazione si è fatta molto più articolata. Tutti gli scienziati politici in previsione del 21 aprile puntavano sullo stallo politico, e Sartori più di tutti, e Paolo Mieli, direttore del Corriere della sera, se possibile ancora di più: perché se ci fosse stato lo stallo si sarebbero realizzate tutte le previsioni di Sartori e tutte le speranze di Mieli, che sarebbe stato il perfetto punto di equilibrio al vertice di una Rai senza padroni politici. Adesso vanno fortissimo naturalmente i semiologi, Umberto Eco in testa, nonostante le sue obiezioni piuttosto fondate, ma chissà quanto gradite, contro la proposta veltroniana di ministero della Cultura. Perfetto Furio Colombo per avviare la gestione dell'Ulivo su Internet. Ma se tanto ci dà tanto, la prossima "nuova scienza" è la sociologia, grazie al nuovo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Arturo Parisi, una delle più fulminanti intelligenze analitiche italiane. Rischiano di rimanere spiazzati i nuovi intellettuali del Polo, Saverio Vertone, Lucio Colletti, Marcello Pera, Giorgio Rebuffa, Piero Melograni, i ministri della fede liberale, sacerdoti laici del centrodestra contrari a ogni mediazione, inorriditi di fronte a ogni sentore di inciucio, sbigottiti da ogni tentazione "consociativa". Forse è consigliabile per tutti un periodo di astinenza dal conflitto politico immediato. Se quindi si decide di partire per una breve vacanza (evitare Cuba, fa troppo Rifondazione comunista; bene invece la Germania, preferibili la Romantische Strasse e i castelli del Reno), è bene ricordare di mettere in valigia qualche libro fresco fresco. Per i nostalgici, i pidiessini in vena per l'appunto di romanticismo, Botteghe oscure, addio di Miriam Mafai. Per saperne di più sul Modell Deutschland, il saggio di Federico Rampini Germanizzazione. Come cambierà l'Italia. Bene anche Liberista? Liberale di Mario Deaglio, che spiega a puntino perché la secessione del Nord sarebbe più costosa del mantenimento del Sud. Come breviario per il buon governo assolutamente irrinunciabile è Un metodo per governare di Carlo Azeglio Ciampi. Ma se volete sbalordire tutti, anche i tedeschi e la Bundesbank, con la vostra competenza economica, citate la proposta formalizzata nel pamphlet Il miracolo possibile da Mario Baldassarri e dal premio Nobel per l'economia Franco Modigliani: risanare i conti pubblici e acchiappare Maastricht per la coda evitando quelle che Umberto Bossi chiama "manovrine e manovrone", concertazione alla Ciampi, programmazione dell' inflazione a zero, planata clamorosa dei tassi d' interesse, e il gioco è fatto. In vacanza, attenti anche al look: evitare lo stile "sinistra di governo", con abiti su misura da grandi magazzini. Meglio un'eleganza alla Michele Salvati, professore di economia sconfitto con onore da Silvio Berlusconi a Milano: finto-casual, molto british, a metà strada fra D'Alema e Tony Blair. Spettacolo. Bene Alba, Parietti naturalmente, anima pura e dura della coscienza di classe televisiva. Non male Simona Ventura, sulla cui purezza ideologica non si potrebbe giurare, ma che è garantita dal marchio alternativo della Gialappa' s. Precipitano invece le quotazioni di Valeria Marini, ma non quanto quelle di Luca Barbareschi o, ancora di più, di Lando Buzzanca, merlo maschio improvvisamente riscoperto come intellettuale d' area di Alleanza nazionale e altrettanto rapidamente dimenticato. Tra Bertolucci e Rosy Bindi Quanto al cinema, il vero autore del momento è Bernardo Bertolucci. Dopo avere tentato, vent' anni fa, di fare il poeta epico del compromesso storico con Novecento, adesso potrebbe diventare il cantore crepuscolare dell'Ulivo con Io ballo da sola, un film che pur fra pudicizie e impudicizie, chiacchiere demenziali e personaggi e caratteri altamente improbabili, non è dispiaciuto nemmeno alla castigatissima Rosy Bindi. Quanto alla musica italiana, dopo avere accettato di prestare la sua Canzone popolare come inno dell'Ulivo, furoreggia Ivano Fossati, che ha appena pubblicato un nuovo album, Macramé, che rappresenta la sua produzione più deliberatamente impopolare. In buona posizione anche Claudio Baglioni, che di recente ha fatto sapere di essere di sinistra, mentre tutti lo consideravano il cantore gozzaniano della democristianità, e naturalmente il ricostituito duo De Gregori-Venditti. Da tenere invece d' occhio con molta attenzione due o tre tipi altamente sospetti. Zucchero "Sugar" Fornaciari, che pur essendo reggiano come Romano Prodi ha dato spesso l' idea di occhieggiare a Comunione e liberazione ("Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall' Azione cattolica"); Vasco Rossi, antiproibizionista - vedi caso - e cultore di Marco Pannella; e naturalmente Adriano Celentano, che era già berlusconiano in potenza trent' anni fa: e per fortuna che nel Clan di allora, pur fra calzoni bicolori a zampa d' elefante e canottiere a righe, non c'erano contesse né avvocati, ma solo Milena Cantù e, nella parte del cattivo, niente di più che Don Backy.
PANORAMA, 06.06.1996, DOSSIER
LA TERRA DEI CACHI E DEI TELEFONINI
Forse il marchio di un'Italia sempre incerta se proiettarsi nel futuro o racchiudersi autarchicamente su se stessa è stato impresso simbolicamente alla fine della seconda guerra mondiale. Quando l'America arriva in Italia, e spuntano gli sciuscià, occhieggiano le "segnorine", i giovani fumano sigarette d' oltreoceano. E' un'Italia investita da una modernità venuta da lontano, dal paese dei paisà emigrati, e tuttavia è anche l'Italia di Eduardo De Filippo, in cui ha da passa' ' a nuttata, in un crepuscolo incerto fra disperazione e rassegnazione. E' già un'Italia pacelliana, in cui i comunisti sono prima sconfitti nel segreto delle cabine elettorali e poi pubblicamente scomunicati. Pio XII definisce il dogma dell'Assunzione di Maria proprio mentre cominciano gli anni Cinquanta, nell' anno del giubileo. E' in questo clima, che poi la cultura laica e di sinistra definirà costantemente, e senza pensarci troppo, "cupo" e "clericale", che il Paese prende la rincorsa e decolla. E' qui che avviene la prima grande modernizzazione della società italiana. Tutte le altre saranno più che altro variazioni sul tema. Mentre l'apparato economico-industriale prende a produrre a ritmi sempre più sostenuti, si assiste dapprima alla grande azione liberalizzatrice e stabilizzatrice di Alcide De Gasperi e di Luigi Einaudi, poi, scomparso De Gasperi, alla lenta crisi del centrismo, alle prime prove tecniche di centrosinistra: prove incerte, ma accompagnate da una passione, nelle discussioni pubbliche e private, che avrà pochi uguali in seguito. Nessuno sa in quel momento che le speranze riposte nell' "apertura a sinistra" sono destinate alla frustrazione. Gli italiani si specchiano in quel benessere che comincia a coinvolgerli. E infatti, alla fine del decennio, nel 1959, il Daily Mail definisce l'efficienza e la prosperità del sistema produttivo italiano "un miracolo economico"; nello stesso anno il Financial Times assegna alla lira l'Oscar delle monete. Mentre non si fa che lavorare, dato che il weekend non è ancora stato importato, si rischia di non accorgersi che la grande evasione è già cominciata, e non solo perché è nato il Festival di Sanremo o perché Mike Bongiorno ipnotizza la collettività con Lascia o raddoppia?, ma perché scatta qualcosa, nell' industria, nell' economia, nel mercato, che sembra il big bang della civiltà di massa. Eccoli, gli italiani giovani, le famiglie, i mariti e i fidanzati in camicia bianca e maniche arrotolate sopra i gomiti, fotografati accanto alla Vespa o alle Lambrette. Si divideranno in vespisti o lambrettisti con la stessa passione con cui hanno tifato per Coppi contro Bartali e viceversa, ma intanto raggiungono spiagge, pinete, laghi. E sognano di comprare presto la Cinquecento, che ha sostituito la Topolino e che costa undici stipendi di un impiegato medio della Fiat, mettono in casa il primo pesantissimo frigorifero, comprano i rotocalchi, guardano Carosello, cantano Volare, leggono fumetti come Il grande Blek, si innamorano e subito si disamorano dei tormentoni di massa come l'hula hoop e lo scubidù. Il Paese è giovane. Ha una voglia immediata di mettersi alla prova. Federico Fellini ha intuito il passaggio d' epoca descrivendo il passaggio dalla provincia alla metropoli, dai Vitelloni alla Dolce vita. Gli operai specializzati del Modenese e del Reggiano, magari licenziati per uno sciopero politico, aprono un'impresina e cominciano a tirare su senza saperlo il modello emiliano. Allora forse non è vero che la morale della Penisola è quello di Tomasi di Lampedusa, cambiare tutto per non cambiare nulla. Quando comincia l'esperienza del centrosinistra sembra possibile, come ha raccontato Giorgio Bocca, che scatti una grande mobilitazione della borghesia produttrice, un progetto di rinnovamento che attraversa le classi sociali, un'idea razionale di capitalismo intelligente e riformista che coinvolge i ceti operai e la classe dirigente. Esplode tutto. L'Italia vede distendersi il nastro d'asfalto dell'Autostrada del Sole, fiorire gli Autogrill, avvicinarsi la Riviera adriatica, apparire la lavatrice, diffondersi definitivamente la tv e il telefono. Sulla sua spider e davanti alla macchina per scrivere (la Lettera 22 della Olivetti ha già conquistato tutti), Alberto Arbasino organizza i furibondi raid ludici e intellettuali che fanno da trama a Fratelli d'Italia. E Vittorio Gassman, nel Sorpasso di Dino Risi, è l'emblema di un "italiano nuovo" che ha imparato ad approfittare in tutti i modi della libertà. Ma non ha avuto un'educazione alla libertà. Sotto sotto, infatti, dietro un cambiamento strepitoso striscia una resistenza, un'opposizione, una vischiosità che sembra provenire da un carattere antico, da remore intellettuali insopportabili, da un virus italiano che Alberto Sordi ha illustrato in tutte le sue forme, incarnandolo nel piccolo democristiano impiccione, nel borgataro travolto dall' esotismo americano, nel magliaro, nel marito adultero, nel ministeriale infingardo, nel vigile sadico, nel piccolissimo borghese che nuota nel braccio di mare fra l'arcaismo e la modernità. E dietro le festose esperienze di liberazione del costume, si avverte sempre la presenza di poteri immutabili, non scalfibili: Le mani sulla città di Francesco Rosi, Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia. Accanto alle emancipazioni, rimangono deferenze ottuse, lealtà ataviche, drammatiche assenze di spirito pubblico. In ogni caso, in un decennio si fa un falò mai visto di miti e di consumi. Le vecchiette tengono nel tinello le immagini dei precursori del buonismo, il trio Kennedy-papa Giovanni-Krusciov. Ci si lascia alle spalle il Concilio Vaticano II e si comincia a dire messa in italiano, fra le smorfie dei tradizionalisti. Il centrosinistra declina stancamente, e secondo lo studioso americano Sidney Tarrow è proprio la sua incapacità a produrre le riforme a provocare una risposta antagonistica, contestativa. Perché mentre tutti erano intenti ad ascoltare i Beatles e a contemplare le italiane tempestive allieve di Mary Quant, in minigonna shocking, è scoppiato il Sessantotto. Altrove, in Francia, in Germania, dura qualche mese. Da noi dura un decennio. E si precipita quindi nei Settanta, negli anni di piombo. Parola d' ordine, rivoluzione. Le autonominatesi avanguardie italiane o sparano oppure si rintanano nel chiuso di plumbei collettivi politici. Sarà lo shock petrolifero, sarà una lettura pessimistica di Marx, sarà una crisi generazionale e culturale, ma ci si convince facilmente che il treno dello sviluppo è arrivato al capolinea, e si tratta di redistribuire la povertà, non di creare ricchezza e godersela. Domeniche a piedi, stagflazione, miniassegni: e si capisce perché il cattolico Franco Rodano faceva da consigliere a Enrico Berlinguer sui temi dell'austerità, proponendo una vita comunitaria e antiedonistica: interpretava lo spirito del tempo, oltre che le sue propensioni più profonde. Si vota così contro l'abrogazione del divorzio (e qui finisce l'unità politica dei cattolici, malgrado la lunghissima agonia della Dc, durata altri vent' anni), eppure due anni dopo comincia la solidarietà nazionale, Dc e Pci uniti in un embrione di compromesso storico, per la gioia di una specie nuova, i cattocomunisti. Poi ammazzano Aldo Moro, e all' improvviso ci si rende conto di tutto, e ci si chiede che cos' è questa follia ideologica, questa luttuosa falsificazione estrema del principio di classe, e quanti sono stati i cattivi maestri di una generazione che ha sbagliato drammaticamente l'analisi storica e ha fatto pagare i propri errori culturali alle sue vittime. Voltare pagina, please. E infatti gli anni Ottanta costituiscono il trionfo del corpo, dell'individuo, del successo, della finanza, del postindustriale. Auspice Bettino Craxi, le rigidità berlingueriane vengono irrise: è l'ora storica del rampantismo, del consumo vistoso, della ricchezza esibita. Per certi aspetti, sembra che tutto il decennio serva soltanto a preparare irresponsabilmente il grande crollo politico che avverrà sotto il segno di Tangentopoli. E quando si arriva all'inizio degli anni Novanta, ci si accorge con un senso di imprecisata inquietudine che il debito pubblico ha superato il pil, come se avessimo ipotecato la casa per pagare le vacanze. Si vive ormai fra telefonini e personal computer, sullo sfondo della mediatizzazione totale, ma incalzati dalla tecnologia che brucia posti di lavoro e genera ansia anche nei ceti medi. Moderni, gli italiani? Non proprio. Moderni ma conformisti, giustizialisti, qualunquisti. Tutti con Di Pietro e tutti contro Di Pietro. E talora nasce il sospetto che dietro la grande adattabilità degli italiani, adattabilità a tutto, al mercato come al sistema maggioritario o al sistema sanitario, non ci sia la conquista di standard etici e politici diversi dai precedenti, ma ci sia invece una perdita: che fa affiorare nei comportamenti qualcosa di remoto, ora un tratto di brutalità, ora un atteggiamento di cinismo, talvolta un che di ferocia. Difficile dirne la ragione. Forse perché nelle società avanzate, con l'avanzare della secolarizzazione, con lo sbiadire delle tradizioni religiose, resta la saldezza storicamente consolidata delle istituzioni pubbliche; mentre da noi, caduti o cambiati i grandi partiti e praticamente scomparsa la loro funzione di socializzatori politici, attenuatasi l'egemonia della Chiesa, ciò che rimane è qualcosa di amorfo. Come se, fatti gli italiani, restasse pur sempre da fare l'Italia.
PANORAMA, 13.06.1996, ATTUALITA' ITALIA
BENE L’ INIZIO, MA POI 6 –
Un sospiro di sollievo, emesso non appena il neoministro della Pubblica istruzione Luigi Berlinguer ha annunciato il possibile abbandono delle schede di valutazione e il ritorno a voti e pagelle. Chiunque abbia visto le schede sa quale strumento di perversione siano: per gli insegnanti che le compilano, per i genitori che le leggono, per gli alunni ai quali vengono inflitte. Un perfetto esempio di politically correct psicosociologico. L' ibridazione totale fra il burocratese e le più avanzate scienze della formazione. Già, perché se non si avanza non c' è gusto. Le schede sono uno dei prodotti più raffinati del lento ma alla fine apocalittico degrado della scuola italiana, nutrito di sperimentazioni teleguidate. Possono reggere il confronto solo con i corsi di aggiornamento, straziante invenzione di una scuola-carrozzone, composta dalle figure dell' "insegnante depresso" come li definì una ricerca dello Iard, e di studenti che si adeguano. A dire queste cose si passa immediatamente per reazionari. Ma conviene respingere subito l' accusa: il vizio fondamentale, quando si parla del sistema formativo, è di ragionare sotto il diktat delle astrazioni. Per questo, si può essere ancora fortemente critici sulla riforma della scuola elementare del 1990, quella che ha sostituito il maestro unico con il cosiddetto e avanzatissimo "modulo" a insegnanti multipli. Ma in questo caso bisogna anche osservare che - non sempre, in casi fortunati, quando le maestre non si azzuffano - il modulo funziona. E dunque, pur sapendo che la riforma aveva un fortissimo contenuto corporativo a protezione dei posti di lavoro, il pragmatico di turno potrebbe dire: bene, teniamoci i livelli occupazionali del corpo insegnante malgrado il baby-sboom, misuriamo nei fatti la qualità dell' insegnamento nella scuola elementare, e se è il caso introduciamo correttivi intelligenti. Ma sui voti e le pagelle, e contro le schede di valutazione, non dovrebbe esserci partita. I sostenitori della burocrazia valutativa, che si oppongono al ritorno al voto espresso nella maniera tradizionale, sono i portatori di una concezione, macché, di un piagnisteo colorato di consapevolezza "progressista" e di sedicente superiore pensosità psicologica. Tutto nasce da un' intenzione e da una retorica buonista, tesa a evitare ad alunni e studenti qualsiasi prova, qualsiasi impatto emotivo, qualsiasi esame. E invece si sa benissimo che gli esami non finiscono mai. Si può crescere nella bambagia di chi vuole soffondere di comprensione psicologistica e di genericità ogni giudizio, ma poi tutte le vite individuali, per chi lavora, per chi gioca a calcio, per chi fa film, canzoni e spettacoli, sono un succedersi di voti in pagella. Tanto che ai voti si è fatta l' abitudine, sono divertenti, se non ci sono il giudizio non sembra completo. Ciò che è curioso, oltretutto, è che nella scuola il massimo della retorica antivoto sia stato raggiunto in puntuale coincidenza con lo sfacelo dei risultati, cioè nel momento in cui fra tesine copiate, interrogazioni programmate, comprensione amorosa per i problemi dell' infanzia e dell' adolescenza, la scuola italiana è riuscita a produrre su base di massa quella singolare figura che Angelo Panebianco ha definito "il diplomato semianalfabeta". Bene sulle pagelle, quindi, ma già che c'era il ministro Berlinguer avrebbe potuto guadagnare un consenso ancora maggiore proponendo un' altra misura reazionaria, di restaurazione pura, vale a dire il ripristino degli esami di riparazione, aboliti da Francesco D' Onofrio con una improvvisazione distruttrice: se l' Ulivo è per il doppio turno, dovrebbe esserlo anche per ciò che riguarda il doppio scrutinio scolastico. Scheda su Berlinguer: ha cominciato bene, ma poi è ricaduto in qualche fumisteria psicosocioscolastica, spiegando che sì, ma forse, eppure, vedremo. Insomma, 6 meno, per capirci
PANORAMA, 20.06.1996, ATTUALITA' ITALIA
L’ INVISIBILE GUERRA DEI SOLDI TRA GIOVANI E ANZIANI
Oltre a tenere in apnea i conti dello Stato, il debito pubblico ha anche effetti largamente perversi sulla redistribuzione del reddito. Le cose vanno all' incirca così: se il bilancio statale, tolti gli interessi, è in attivo (il cosiddetto "avanzo primario"), e il deficit annuale è dato dal pagamento degli interessi sui 2 milioni di miliardi del debito pubblico, ciò significa che c' è qualcuno che sta pagando affinché qualcun altro riceva. Cioè qualcuno paga in tasse e contributi somme di denaro di cui qualcun altro si appropria sotto forma di rendita sui titoli di Stato. L' iniquità sociale di questo processo sta nel fatto che tendenzialmente i bassi redditi finanziano i redditi più elevati, il Mezzogiorno finanzia il Nord, e i più giovani finanziano implicitamente i più anziani. Queste informazioni sono tratte dalle analisi svolte in proposito da un economista dell'università Cattolica di Milano, Luigi Campiglio, su dati della Banca d' Italia. Le cifre sono interessanti soprattutto per ciò che riguarda il rapporto fra componente giovanile e anziana della società del nostro Paese. Infatti i giovani fino a trent' anni di età hanno una quota di reddito da capitale, sul totale familiare, del 18 per cento, quota che sale invece fino a oltre il 24 per cento quando il capofamiglia ha più di 65 anni. La situazione si complica se si tiene conto che "la spesa sanitaria si concentra, per evidenti motivi fisiologici, nelle classi di età più avanzate". Ciò significa che "i più giovani si indebitano con i più anziani ai quali trasferiscono simultaneamente sia risorse sanitarie sia interessi per il debito contratto". Ma tutto ciò resta nel campo delle grandezze macroeconomiche, cioè delle partite "invisibili" fra le generazioni. In realtà, se oggi c' è una questione giovanile, essa si qualifica soprattutto in termini che potremmo definire non solo quotidiani e materiali, ma esistenziali. Si pensi che nelle grandi città del Nord, secondo le indagini più recenti, l' età di uscita dalla famiglia d' origine sfora la soglia dei trent' anni: vuol dire che stiamo osservando una fase di paralisi generazionale. Se anche nelle aree del Paese a piena occupazione i giovani non riescono a emanciparsi dalla famiglia, significa che c' è una condizione strutturale di crisi, che in parte è disagio economico e in parte è difficoltà psicologica e culturale. Si assiste infatti a una situazione contraddittoria e paradossale, in cui da un lato c' è la sicurezza garantita dai genitori, la possibilità di ritardare l' ingresso nel lavoro, il soddisfacimento assicurato dei bisogni marginali minimi, mentre dall' altro si nota un' acuta difficoltà di ricambio e l' assenza di dinamismo sociale. Tutto questo con problemi e dilemmi praticamente irrisolvibili. Per esempio: dato l' andamento demografico, apparirebbe essenziale prolungare la durata del lavoro, ma l' innalzamento dell' età pensionabile, mentre il tasso d' occupazione è stazionario o in calo, non equivarrebbe a porre una barriera in più all' entrata nel lavoro delle generazioni più giovani? L' impasse generazionale che consente ai giovani di vivacchiare (nella famiglia d' origine) in attesa del soddisfacimento delle loro aspirazioni è nello stesso tempo uno dei vincoli maggiori alla loro piena realizzazione sociale ed economica. D' altra parte, per affrontare la vita autonoma c' è da superare un dislivello economico immediato per molti aspetti scoraggiante. Nel caso più comune, non si tratta solo dell' investimento iniziale per la formazione della coppia, ma soprattutto dell' obbligo di affrontare, a regime, uno zoccolo di spesa che soprattutto nel Centro-nord risulta drammaticamente elevato rispetto ai redditi medi da lavoro dipendente. Si è anche accennato a una questione in senso lato culturale. Ed è questa: nel tempo si sono stratificate nella struttura di valori dei giovani una serie di aspettative in larga misura svincolate dalla possibilità concreta di realizzarle. Un lavoro gratificante, il benessere qui e ora, l' integrazione rapida fra livello professionale e standard della vita non professionale (tempo libero, intrattenimento, vacanze) sono stati assimilati come obiettivi automatici, se non dovuti. Nel momento in cui invece tutto ciò si allontana, rimane solo l'oggi, con le sue gratificazioni vicarie: gli interessi giovanili si spostano sugli aspetti marginali del benessere, quelli che non implicano il coinvolgimento con gli obblighi sociali e professionali di medio-lungo periodo. I giovani vivono dunque in un presente eternizzato, senza investimenti sul futuro, in una condizione che tende a prolungarsi indefinitamente. Spezzare questa catena (vecchi che occupano la società e lo fanno per consentire ai giovani di restare giovani malgrado l' età) costituisce uno dei problemi di fondo dell' Italia contemporanea: perché da questa implicita collusione generazionale esce soltanto, come prodotto collettivo, una società bloccata.
PANORAMA, 27.06.1996, ATTUALITA' ITALIA
A VOLTE RITORNANO. O NO?
Dc l' è morta, ma sono i democristiani a non morire mai. Il successo delle sigle cattoliche in Sicilia potrebbe sembrare infatti la smentita più sonora per l'epicedio steso da Pietro Citati sulla Repubblica, autentico canto d' addio per l'estinzione di una razza, per lo svanire di un' antropologia. Aurea democristianità, secondo Citati, con l' odore ineffabile della sagrestia: e sotto sotto, e quasi quasi, l' ombra di una rassegnata nostalgia per gli incerti profili dei democristiani, per le loro prose involute, per le loro mediazioni meditabonde, per il loro pensiero autenticamente debole. Ma nella sua fiction letteraria Citati coglie un punto: e cioè che ben più di un' entità chiamata Dc esistevano i democristiani. Secondo un insider come Marco Follini, che all' ex partito-sistema ha dedicato diversi libri, la Dc esiste ed è esistita solo nella fantasia dei suoi peggiori nemici. Nella sua paradossalità, l' affermazione contiene più di una verità. Lo aveva scoperto nei suoi sofisticatissimi studi l'attuale sottosegretario di Romano Prodi, il sociologo Arturo Parisi: in una situazione politica bloccata, la Dc fungeva da eterna alternativa a se stessa. Senza troppe teorie, lo aveva spiattellato con tutta la sua improntitudine Paolo Cirino Pomicino: "Siamo un' azienda di successo perché differenziamo il prodotto. Non vi piace Giulio? Abbiamo Oscar Luigi, Filippo Maria, Arnaldo, Virginio, Mino, Ciriaco". Intanto i politologi si scervellavano per anatomizzare il "modello poliarchico" dc, il ventaglio di tribù e correnti ognuna con un proprio insediamento sociale, con collegamenti a blocchi di interessi, ad articolazioni corporative, a segmenti clientelari. E sullo sfondo due riferimenti, due metodi, due orizzonti: da un lato la Chiesa, "la dottrina sociale", l' interclassismo; dall'altro il doroteismo, pratica di potere capace di stemperare qualsiasi conflitto. Si condensa così quello che Alberto Cavallari ha definito il "poder mineral" della Dc, analogo per hispanidad a quello di Carlo V, un potere insieme "molle e roccioso", cedevole, infinitamente adattabile ma proprio per questo non scalfibile. Tradotto nella fisiologia della politica italiana, questo potere si sintetizzava in una specie di istituzionalizzazione ante litteram del ribaltone: in un' attitudine permanente al rovesciamento degli equilibri, con una prodigiosa capacità camaleontica, una infinita sapienza tattica nelle scomposizioni e nelle ricomposizioni. Poi la storia entra in cortocircuito. Allorché Mino Martinazzoli viene insediato al vertice del partito e diviene il commissario che deve traghettare la Democrazia cristiana sulla sponda del Partito popolare, l' orizzonte ha cambiato fisionomia. Martinazzoli rivolge ai popolari il suo scabro, manzoniano proclama: "Siate come gli ulivi d' inverno: paghi di resistere". Ora e sempre persistenza, intesa come testimonianza. Ma la Dc aveva un' unica possibilità di salvezza: riuscire a reincarnarsi in una specie di Cdu tedesca, un partitone governativo e popolarconservatore. Di Pietro, Bossi, Segni e alla fine Berlusconi hanno tagliato la strada a questa soluzione; il sistema maggioritario ha dato alla Dc il colpo di grazia: perché nei cromosomi democristiani non c' era la divisione in due del vecchio partito, ma la sua totale disintegrazione. Eccoli infatti, i democristiani, presenti in An, in Forza Italia, nel Ccd e nel Cdu, nell' Ulivo. Il finale è una esplosione alla Zabriskie Point, con una prolungata "slow motion" che fa ricadere a pioggia le schegge della democristianità. Pensare che le sparse membra della Dc possano ricostituirsi in partito non è neppure un' illusione: è un esorcismo, un prendere tempo nella speranza che la destra attuale possa essere sostituita nei primi anni del prossimo millennio dagli eredi della Grande Madre: ma dove sarebbe Alcide De Gasperi?
PANORAMA, 18.07.1996, ATTUALITA' ITALIA
MA NON E’ SOLO UN TATTICO
Si sta comportando come se fosse l' unico leader con le idee chiare per il futuro. Compie un raid nel Nord-est in cui appare più come il tutore della nazione che come il segretario di un partito. Coopta Giuliano Amato per fargli rappresentare una quota di socialismo riformista, scuote così tutta la politica italiana, sfronda l' Ulivo, sferza lo "scoopismo" della stampa asservita al capitale. Lo si osserva come una delle meraviglie politiche contemporanee, ma intanto Massimo D' Alema oggi suggerisce più domande che risposte. Innanzitutto: grande stratega o tattico esasperato? Per capire il segretario del Pds conviene abbandonare l' idea che sia un uomo di governo. E` un uomo di partito. In questo senso, un perfetto togliattiano: solo che la doppiezza è divenuta oggi una funzione tripla o quadrupla. Patrono dell' Ulivo, ma anche tessitore dell' accordo Maccanico che l' avrebbe disseccato; garante di Prodi e Ciampi a sinistra, ma sostenitore di Berlusconi per impedire la disintegrazione di Forza Italia; pivot della politica di risanamento finanziario e nello stesso tempo referente della Cgil. Tutte le strade conducono a D' Alema, e da lui si dipartono. Ma in questo complicato incrocio non è chiaro se il segretario del Pds ha in mente un progetto e, se ce l' ha, a chi è destinato. Perché il Paese "normale" da lui identificato come traguardo politico conteneva una valenza alternativa in quanto era speso contro l' Italia dei miracoli evocata da Berlusconi. Dopo di che, conseguita una parvenza di normalità con la vittoria elettorale del 21 aprile, D' Alema ha immediatamente segnalato che la normalità appena raggiunta non bastava. Che occorreva una normalità più normale. Inutile dire che questo nuovo gradino della normalità implicava soprattutto un ritorno del Pds al centro del gioco politico. Perché l'affermazione dell' Ulivo rischiava di confinare il Pds in una posizione gregaria. Il centrosinistra era uno strumento elettorale, quindi qualcosa di inevitabilmente transitorio, intrinsecamente mutevole, ampiamente ristrutturabile. D' Alema pensa che è la forza a fare l' unione: se l' alleanza fallisce, il Pds deve rimanere. Dunque quale interesse avrebbe avuto D' Alema a investire sull'Ulivo? Su un embrione di soggetto politico dai contorni imprecisati? Su un accordo con settori del mondo cattolico comunque ricontrattabile? Ancor prima che a un "progetto" per il Paese e all' architettura del segmento di sinistra del bipolarismo, D' Alema si sentiva obbligato a pensare in termini di rafforzamento del Pds come blocco portante della sinistra: capace quindi di esercitare un' egemonia, di minimizzare i pericoli della concorrenza di Rifondazione comunista, di tenere sotto controllo da una roccaforte sicura i settori centristi. Ed ecco allora l' idea del Pds nuovamente socialdemocratizzato. Un partito pesante, organizzato, solido, strettamente legato al sindacato. Che accetta lo schema bipolare ma che mette in conto fin d' ora la possibilità che gli schieramenti debbano rimescolarsi: e va da sé che ogni rimescolamento può essere meglio affrontato con un partito compatto, dall' identità forte. Curioso: mentre quasi tutti hanno scommesso sul "post" (i postfascisti, i postdemocristiani, i postliberali), D' Alema punta sulla storia, riprende il passo dal socialismo "europeo". Lo fa nella certezza di non sbagliare i calcoli a breve termine. Ciò che è più brigoso valutare è se la dura consistenza politica di questa operazione può offrire soluzioni adeguate, anche culturalmente, a una società che non è più quella, e non lo sarà mai più, in cui i socialisti tedeschi acchiapparono l' appuntamento con la storia a Bad Godesberg. O se quello socialdemocratico è l' unico volto credibile con cui può presentarsi al mondo, oggi, un postcomunista
PANORAMA, 25.07.1996, SPECIALE
OLIMPIA SHOW
Chissà in quale parte dell' etere, in quale nodo del network, in quale anfratto o "sito" del villaggio globale si trova Atlanta. Sono Giochi mondializzati, trasferiti in presa diretta, mentre accadono, su un software che li frulla in immagini del grande show, li spettacolarizza e li ha già venduti. Per favore, non citare De Coubertin: come dicono gli americani, il secondo posto in una competizione non è la conquista della medaglia d' argento, è la perdita di quella d' oro. L'importante è partecipare solo se si rovescia il motto e lo si applica non ai concorrenti ma al pubblico, la platea universale riunita dalla televisione davanti alle liturgie della grande gara e nella contemplazione del tappo a corona della bibita più famosa del mondo elevato a sesto cerchio olimpico. Partecipiamo, quindi. Ma dimentichiamoci le Olimpiadi silvo-pastorali dei decenni passati. Già Seul, 1988, era la proiezione mondiale di uno spettacolo "asiatico", quindi remoto, caricato di mito proprio perché inaccessibile e nello stesso tempo diramato come evento totale dovunque ci fosse un occhio del grande fratello. Piccola battuta d' arresto, Barcellona 1992, così europea, così vicina, così riconoscibile e casalinga. E oggi ecco la definitiva collocazione dei Giochi nel santuario della Cnn, nella patria della Coca-Cola, due emblemi del mondo simultaneo, la comunicazione che satura lo spazio-tempo contemporaneo e l'impresa-impero senza confini. Viene un nodo alla gola a pensare alle Olimpiadi di Roma, 1960, ai leggendari duecento metri di Livio Berruti, quando dalla curva della pista un volo di piccioni catturato dal bianco e nero della tv segnalò l' auspicio della vittoria, con Gianni Brera praticamente impazzito sulla tribuna-stampa, travolto dall' emozione, che preso da un furor misterioso si mise a straparlare lingue dimenticate. Sentimentalismi premoderni senza importanza. Sono lontane anche le Olimpiadi "politiche" del mondo bipolare, quello che scatenava i boicottaggi, con l' atletica come prosecuzione della Guerra fredda con altri mezzi. Semmai oggi i Giochi sono una manifestazione da "fine della storia", esattamente secondo il vaticinio di Francis Fukuyama, in cui tutti gli avvenimenti si distendono su un orizzonte opaco e senza rilievi. Eppure, mai sottovalutare il fattore umano: c' è da scommettere che ancora una volta, anche ad Atlanta, scatterà il prodigioso ricatto dell' emozione. Perché è vero che queste Olimpiadi di fine millennio sono un fenomeno che qualsiasi semiologo può facilmente decrittare, smontandone il congegno e rivelandone la perfezione di macchina del nulla che produce un palinsesto universale; e che qualsiasi esperto di economia può indagare mostrandone i tratti di business paranoico. Sarà una produzione di show a mezzo di show, e anche un kolossal pubblicitario, un congegno mercantile in cui il budget conta certamente più della prestazione, e la merce conta più dell' uomo (ahi ahi, c' è il serissimo rischio di risentire l' eco del Barbapapà di Treviri). Tuttavia, come tutti i giochi di società, e la società globale non fa eccezione, non appena si entrerà nella loro logica le Olimpiadi faranno scattare la loro implacabile regola. No, non il citius, altius, fortius dello stereotipo classico. Piuttosto la strana capacità di connettere un evento globale alle dimensioni della passione locale. Vogliamo scommettere, innanzitutto, che basteranno pochi giorni perché il riflesso pavloviano della gara induca gente insospettabile ad appassionarsi a discipline sportive esoteriche, che affiorano alla visibilità solo ogni quattro anni, per poi precipitare di nuovo nell' oblio? E fosse solo questo. Ma sullo sfondo del mondo virtualizzato dalla tv, cominceranno a prendere forma i residui delle passioni nazionali. Basterà poco per accendere entusiasmi domestici e assai poco mondiali: un lottatore di greco-romana che arriva in semifinale, una nuotatrice in finale, un marciatore semisciancato che se la batte con messicani, russi e portoghesi, una schermitrice che infilza allegramente rivali ungheresi e tedesche. L' identità nazionale entra in cortocircuito, sprizza scintille, pompa adrenalina, induce alle tachicardie proprio in quanto sullo schermo tv un esemplare spicciolo di italiano (un Forrest Gump della Padania, del Nord-est, del Centro, del Sud) compete con atleti stranieri sullo sfondo del Barnum multimediale. Fra l' individuale e il globale Siamo tutti lì, sospesi fra l'individuale e il globale, come se il mondo si fermasse per qualche istante in questa antitesi. D' altra parte, si possono sterilizzare le emozioni solo perché vengono capitalizzate da uno sponsor? Se Michael Johnson vincerà 200 e 400, voi penserete al marchio delle sue scarpe? Ma no. L' unico modo per resistere alla giostra della mercificazione è assistere allo spettacolo "come se" fosse soltanto sport. E' un' operazione tutto sommato ironica: i poteri forti dell'economia impongono il grande show, e noi ce lo godiamo come se fossimo sulla tribunetta di uno stadio. "Loro" credono di venderci un logo, un prodotto, il carattere di feticcio della merce, e noi compiamo il gesto (esorcistico, profilattico) di trattare tutto questo come competizione, come divertimento e come dramma. L' unico rimedio alla grande massificazione consiste infatti nel reindividualizzare tutto. E' una modesta ma perversa vendetta. Perché alla fine, quando verranno stilati i bilanci, ci verrà detto che l' unico vincitore sarà questa o quella corporation. E noi sapremo invece che avrà vinto un miserabile piccolo grande uomo fra i gli oltre 10 mila atleti in gara. Con il quale, in spregio al marketing o al merchandising avremo vinto anche noi e voi, per i quali, proprio come per il ragionier Fantozzi, la cocacola, alla faccia della pubblicità più patinata, serve solo per assicurare serate a rutto libero. Sorry, Atlanta. DOMANI ACCADRA' Quelle di Atlanta si annunciano come le Olimpiadi più televisive della storia. "Panorama" vi offre, invece, nelle immagini di queste pagine, un' interpretazione radicalmente diversa. David Burnett, uno dei più grandi fotografi del mondo, ha fermato lo spirito dello sport con una vera acrobazia tecnica: una macchina fotografica a grande formato e a un solo scatto. Nella foto a fianco, sollevamento pesi femminile: anche se si tratta di gare molto seguite, sia dal vivo che, soprattutto, in televisione, questo sport non è ancora stato ammesso fra le discipline olimpiche. Il riconoscimento, richiesto da numerose federazioni nazionali, è atteso, probabilmente, per le prossime Olimpiadi: Sydney 2000. PROVA DEL NOVE Quest' anno non sarà facile per i ginnasti conquistare il 10, voto della perfezione. Ad Atlanta infatti entrano in vigore nuove regole e nuovi criteri di valutazioni in molti sport. Nella ginnastica non ci saranno più i punteggi da 1 a 10: l' atleta partirà da un punteggio base (9.0 per gli uomini e 9.4 per le donne) al quale si aggiungeranno o toglieranno punti secondo errori o bravura. Il pentathlon moderno non si disputerà più in cinque giorni ma in uno. Nella pallamano gli allenatori avranno a disposizione per la prima volta il time-out. Nel tennis, tranne la finale, gli incontri saranno al meglio dei 3 set. Nel nuoto è stata introdotta la staffetta 4x200 donne. Ultima novità, ad Atlanta debutterà il calcio femminile. NUOVI SPORT DA MEDAGLIA I tre nuovi sport di Atlanta, softball, beach volley e mountain bike, sono un omaggio del Comitato internazionale olimpico (Cio) agli organizzatori americani. Le tre discipline, infatti, sono molto popolari negli Stati Uniti e vedranno come protagonisti assoluti gli atleti americani. Softball. E' una variante, più veloce, del baseball e, ad Atlanta, sarà giocato solo dalle donne: 8 squadre di 15 giocatrici con favorite d' obbligo Usa, Australia, Cina e Giappone. Differenze con il baseball: la palla è più grande, le distanze tra chi la lancia, chi la deve colpire con il bastone e chi la riceve sono più corte di un terzo, il fondo del campo non è erboso, ma di cemento. Beach volley, o pallavolo da spiaggia o outdoor. Solo vent' anni fa, questo sport era giocato, da dilettanti, sulle spiagge della California del Sud. Oggi il beach volley è uno degli sport più popolari nelle tv Usa, gli incontri attirano sulle spiagge anche 50 mila persone e il campione americano Karch Kiraly è il primo giocatore ad aver vinto, in carriera, più di 3 miliardi di lire soltanto sulle spiagge. La differenza sostanziale con la pallavolo è che i giocatori in campo, invece di sei, sono due. Altra differenza: ogni 5 punti c' è un time out per controllare sole e vento. Mountain bike. E' la prima volta olimpica del ciclismo cross-country: due corse per 50 uomini e 30 donne, selezionati in base ai risultati del campionato del mondo ' 95 e dei campionati continentali. Il percorso di Atlanta non è severo: qualche collina e molti ostacoli, anche artificiali, non basteranno, secondo gli esperti, a evitare un arrivo in gruppo, fatto rarissimo in questo sport.
PANORAMA, 08.08.1996, STORIA DELLA SETTIMANA
NOI UNA POTENZA SPORTIVA?
Successi, medaglie di tutti i metalli. Ma sarà poi vero che lo sport olimpico rivela l' identità profonda di un popolo? In questo caso si potrebbe anche ironizzare a man salva. Fin qui i trionfi azzurri si sono registrati soprattutto nella scherma, nel tiro con pistola e carabina, nel ciclismo. Di qui a dire che l'Italia di Atlanta è una nazione che ha fatto tesoro di certe sue vocazioni storiche il passo è per fortuna lungo. Altrimenti varrebbe la boutade antropologica secondo cui hanno trionfato i tagliagole, i cecchini, i ladri di biciclette. Cioè l' Italia che nei suoi cromosomi storici ha una propensione irredimibile all' assalto e al tradimento, all' imboscata, al furto e magari al ribaltone. Invece si può dire molto più prosaicamente che si è affermata un'Italia degli individui. Gente oscura, che riemerge alla notorietà ogni quattro anni, felice di sorprendere l' opinione pubblica e poi disposta a riprecipitare nell' anonimato e nella fatica per altri quattro anni. Non è molto italiano come schema, per la verità. Il che potrebbe significare che c' è un' Italia piuttosto sommersa che conserva il gusto dell' impegno, senza pretendere l' onore delle cronache, salvo sfogarsi poi a denti stretti contro gli idoli del calcio, che inanellano figuracce consolandosi con il pensiero rivolto al conto corrente e dicendo "zitti voi che siamo noi a mantenervi". Ma le Olimpiadi sono ormai da tempo un Barnum troppo grande per risultare una misura significativa del quoziente sportivo di una società. Se ci fosse un italiano che vince a sorpresa nel badminton o nel tiro con l' arco, che cosa faremmo per queste vittorie in discipline marginali, esalteremmo forse la maturità sportiva della collettività? Il gigantismo olimpico ha portato alla ribalta discipline piuttosto astruse, se è vero che in futuro assisteremo anche ai tornei di biliardo: ma sarebbe singolare parlare di potenza sportiva a proposito del panno verde. Quando non è il frutto di un' applicazione singola e maniacale, in molti casi il successo olimpico è il risultato della compattezza di organismi federali, che riescono a massimizzare con la passione le poche risorse e il numero limitato di praticanti. In questo senso, Atlanta darà all' Italia un albo d' oro di tutto rispetto. Ma se c' è uno specchio del potenziale sportivo di una nazione, questo dovrebbe essere l'atletica leggera. E' nell' atletica che si vede la capacità di drenare la società e di "produrre" esemplari umani capaci di rivaleggiare col mondo. Sotto questo profilo ciò che in altre discipline meno importanti risulta un pregio (il semiprofessionismo, o il semidilettantismo), e che conferisce alla prestazione olimpica un che di autenticità, di spontaneità, di freschezza, nell' atletica contemporanea risulta un handicap insuperabile. E non vale accampare come linea di difesa una medaglietta, certo esaltante sul piano individuale, ma meno significativa sul piano collettivo, in qualche disciplina minore. Il fatto è che se si guarda alle grandi gare, quelle che danno il tono a un' Olimpiade, gli italiani passano in seconda o terza fila. Viene quindi l' idea che il nostro Paese sia nella fascia alta dell' albo olimpico soprattutto nelle medaglie di consolazione, cioè quelle che premiano i concorrenti più bravi fra gli umili, dove conta una miscela programmabile di abilità, di talento e di applicazione. Insomma, se uno prende il vincitore olimpico e nuovo recordman mondiale dei cento, il nero canadese "faccia-di-gomma" Donovan Bailey, può ragionevolmente immaginare che sia davvero il più veloce al mondo. Mentre un ciclista come Sergio Martinello, vincitore dell' individuale a punti, o un ragazzone esploso tardivamente come l'inseguitore Andrea Collinelli, sono certamente ottimi atleti, ma nessuno può pensare che siano in assoluto i migliori sulla Terra, dal momento che esistono sicuramente sprinter più veloci e mezzofondisti o cronometristi più dotati. Anziché pensare in termini di potenza sportiva, conviene quindi prendere i Giochi sul serio: vale a dire come giochi, e come gioco. Di più, come gioco televisivo. Solo così si può capire perché misteriosi comitati olimpici stiano pensando di escludere dal regno dei cinque cerchi una disciplina nobile come la scherma, perché "rende poco" in tv (viene in mente la battuta del cinico cameraman al papa: "Santità, il bianco spara") e progettando l' ammissione del biliardo, che vedi caso una sua dimensione televisiva effettivamente ce l'ha. Il cultore di sport Gianni Mura ironizza auspicando l' inserimento nel programma delle freccette e del calciobalilla. Ma dal momento che ormai, nel tempo dello sport come show, nessuno rivendica più l' esercizio sportivo come un indicatore di civiltà o di emancipazione, non c' è nulla di male a concepire Olimpia come la sede di "Giochi senza frontiere".
PANORAMA, 15.08.1996, ATTUALITA' ITALIA
E LA CHIAMAVANO LOBBY CONTINUA …
Può essere davvero centro lobbistico permanente Lotta continua, se durante la sua esistenza storica si diceva che era "uno stato d' animo"? Non si fa molta strada a interpretare il movimento che ebbe per leader Adriano Sofri come una rete annodata su solidarietà opache, tenuta insieme da una lealtà tenace e grigia. Dire che cosa riunisca oggi lo stesso Sofri e un altro scrittore come Erri De Luca risulta difatti indecifrabile, a meno che non si voglia trovare nella scrittura, nelle parole, nell' uso non di rado estetizzante della lingua, una sorta di ossessione condivisa. Naturalmente non è solo lo stile che viene rimproverato agli ex di Lotta continua. L' accusa di lobbismo investe piuttosto coloro che oggi hanno un ruolo nel giornalismo e nella politica, la pattuglia dei Gad Lerner, Paolo Liguori, Enrico Deaglio, Marco Boato, Luigi Manconi. Accusa che fu ripescata in coincidenza con il primo processo Sofri sull' assassinio del commissario Calabresi e che si è ripetuta con il riemergere del caso Rostagno. Forse per riuscire a capire che cosa accomuna in questo momento persone in realtà molto differenti, spesso schierate su frontiere politiche contrapposte, è opportuno prendere alla lettera ciò che ha scritto Gad Lerner sulla Stampa. Lerner, infatti, ha osservato che vale per alcuni suoi ex compagni una qualità particolare, formatasi proprio nell' esperienza vissuta dentro Lc: si tratta di una competenza peculiare, una conoscenza della "tecnica della politica", che ha indotto taluni di loro ad accettare di fungere da consiglieri del Principe - non importa poi chi fosse il Principe, e se fosse di destra o di sinistra - nella convinzione di riuscire a evitare il coinvolgimento, cioè di mantenere integra, malgrado tutto, la propria capacità di giudizio e di scelta. Lerner ha parlato di "spregiudicatezza": quella che ha consentito (a Sofri e Deaglio) di trattare con Claudio Martelli il lancio del quotidiano Reporter, o a "Straccio" Liguori di lavorare con Indro Montanelli al Giornale, per poi diventare il gestore della linea sbardellian-andreottiana al Sabato e, dopo avere tentato al Giorno una disperata resistenza contro gli exploit del pool Mani pulite, assurgere finalmente ai Fatti e misfatti della tv di Silvio Berlusconi. Ciò che per molti versi è curioso è la contiguità lobbistica continuamente richiamata dai giornali con altri uomini pubblici, come Paolo Mieli e Giuliano Ferrara, che non hanno mai militato in Lc. L' attuale direttore del Corriere della sera ha avuto infatti un'esperienza nell' ambito di Potere operaio, che lo ha portato a contatto con il suo giornale d' esordio, L' Espresso, mentre l' ex portavoce del governo Berlusconi e attuale direttore del Foglio ha respirato comunismo fin dalla più tenera infanzia, ha abiurato all' inizio degli anni Ottanta diventando un supercraxiano e infine, bruciato da una passione liberale senza più freni, è approdato alla destra. Dire che cosa accomuni personalità, caratteri, storie e formazioni tanto variegate è impossibile, a meno che non si rintracci come elemento comune una passione per la politica così bruciante da rendere effettivamente possibile l' esercizio spregiudicato della competenza tecnica maturata sul campo. Per quanto dal punto di vista della modernità culturale Lc fosse irrilevante (così come lo erano Potop e le altre formazioni della sinistra extraparlamentare), ebbe invece un rilievo piuttosto significativo prima come fenomeno sociologico e poi, soprattutto, come bacino di sperimentazione politica. Fu in organizzazioni di questo tipo, infatti, che coloro che erano attratti dalla sfera della politica ma non avevano nessuna intenzione di seguire la trafila nei partiti della sinistra storica trovarono estemporaneamente la loro "scuola". E in aggiunta a questa dimensione mobilitante, che univa gli individui al movimento, c' era la convinzione della politica come praticabilità assoluta, quella sicurezza sovrana dell' ego che induceva Sofri ad attaccare a brutto grugno il Pci, dicendo "la faccio io, cari voi, la rivoluzione". Anche oggi, per ognuno dei vecchi compagni, rimane in comune quella certezza secondo cui tutto può essere "trattato" politicamente. Si tratta di un atteggiamento che ha sullo sfondo la padronanza delle tecniche di comunicazione, il disincanto rispetto al potere, il continuo richiamo al garantismo, la coscienza insomma che quando c' è un problema, e magari qualcosa del passato che non passa, si ristabilisce immediatamente una sintonia, una sensibilità, un riflesso condizionato. La passione incendiaria di allora per la politica è divenuta tutt' al più una vecchia abitudine: e come tutte le abitudini, qualcosa a cui non si può rinunciare, perfino se ormai si crede ad altro, e se quella passione, indurita dagli anni, rischia di apparire come una lealtà troppo automatica.
PANORAMA, 29.08.1996, ATTUALITA' ITALIA
E PENSARE CHE IN PRINCIPIO ERA AMATO
La mazzata arrivò nel settembre del 1992, in contemporanea con la tempesta valutaria: fu la Grande manovra di Giuliano Amato, 93 mila miliardi per metà di tagli e per metà di maggiori entrate. Fino a quel momento per gli italiani stava andando di lusso, nel senso che il Paese era povero e indebitato ma i suoi abitanti sembravano ricchi. Poi vennero la svalutazione e il rigore. Ma più che la drammatica variazione del cambio fu la pesante politica economica del governo Amato a far sì che i cittadini vedessero svanire una quota consistente di reddito, sacrificato alla terapia d' urto contro lo choc finanziario. Di fronte a segnali così espliciti di avvio dell' era delle bibliche vacche magre, gli italiani cominciarono a guardarsi intorno. Si poteva già immaginare come sarebbe andata a finire. Nelle crisi economiche anche più acute, c' è chi ci perde ma c' è chi ci guadagna. Come è stato detto, "l' inflazione è la lotta di classe condotta con altri mezzi". Anche se i provvedimenti decisi da Amato e poi da Carlo Azeglio Ciampi incorporavano criteri di equità, ci sono ceti che sono più esposti di altri all' inasprimento delle condizioni economiche. La concertazione fra governo, sindacati e imprenditori ha consentito di non importare inflazione in seguito alla svalutazione, ma ha tenuto bloccati i salari del lavoro dipendente, inducendo una perdita secca vicina al 10 per cento in quattro anni. Mentre le imprese del Nord-est (ma non solo del Nord-est) cominciavano ad accumulare profitti grazie a un cambio da dumping e mentre il lavoro autonomo cominciava a usare la propria flessibilità per mantenere invariati gli standard di reddito, una parte della società italiana, in pratica lavoratori dipendenti e pensionati, ha dovuto rifare i conti di casa. Proprio perché l' Italia è un grande mercato, se una quota ampia della popolazione vede diminuire le risorse, gli effetti non sono settoriali, si distribuiscono su tutta l' economia. In questo momento siamo arrivati alla fase cruciale, in cui l' ultimo sforzo di risanamento avviene sulle spalle di un Paese impoverito, stanco, incerto, in preda all' ansia. L' estate 1996 è stata per molti aspetti un' esemplificazione perfetta, simbolicamente ed empiricamente, di come reagisce una società dai nervi scoperti. Vacanze brevi, ferie alla mordi e fuggi. In condizioni più o meno normali, vale a dire in assenza di traumi gravi, una società avanzata tende a non rinunciare ai comportamenti cui è abituata. Si ripiega su se stessa e cerca di fare le stesse cose di prima, cambiandone i modi e le forme. Non c' è una regola universale in questa "gestione di risorse decrescenti". Tanto più che assai spesso la percezione di questa caduta delle risorse è soprattutto psicologica, proiettata sul futuro. Si avverte un po' oscuramente che l'economia dell' America ruggente è lontana mentre i vicini paesi europei stanno tutti realizzando politiche restrittive: in queste condizioni sperare in rapide inversioni di tendenza è un' illusione. Non è tempo di miracoli. E allora ogni consumatore diventa lo specchio del sistema-Italia: escluso uno zoccolo duro di spesa incomprimibile, opera un ventaglio di piccole defezioni distribuendo i tagli su tutto il paniere dei suoi consumi, sperando in tal modo di non avvertire l' impoverimento. Ma così facendo il meccanismo si autoalimenta. Si consuma meno, si produce meno, si vende meno, si fattura meno. E' la recessione. Ma è anche la dimostrazione che non esistono formule magiche, che nessuno possiede la ricetta per innescare lo sviluppo, che anche la provincia italiana è ormai interdipendente con il mercato globale. In queste condizioni, pensare di curare la recessione con la secessione è più che altro un gioco di parole.
PANORAMA, 12.09.1996, SPECIALE
AIUTO, SIAMO NEL PALLONE GLOBALE!
Primo campionato dell' "era Bosman", primo calcio d' avvio dopo la sentenza della Corte europea di giustizia che ha liberalizzato il mercato pallonaro. Fischio d' inizio l' 8 settembre, data brivido, da cornetti rossi. Consigliabili gli scongiuri perché il calcio globale non significhi calcisticamente la morte della patria. Gli stranieri sono tanti, ma in fondo sempre meno che in Portogallo, Gran Bretagna, Belgio, Germania, Spagna. Sembra la vittoria finale del mercato e invece probabilmente è solo la sconfitta definitiva del calciomercato. Perché la principale legge dell' economia, tristissima scienza secondo Carlyle, recita che c' è mercato dove c' è scarsità. E quindi ci si poteva appassionare al rito estivo del mercato calcistico quando il blocco agli stranieri faceva lievitare i prezzi dei campioni (o presunti tali) a livelli insensati. Anche se si sapeva che quei prezzi erano quasi sempre nominali. Si cedeva infatti il fin troppo generoso centravanti da 10 miliardi in cambio di due diligenti centrocampisti da 5 miliardi l' uno. Un rintronato terzino da 1 miliardo per due giovani promesse da 500 milioni. Adesso invece il calcio è l' unica grande industria del capitalismo avanzato che non conosce il "downsizing": c' è l' abbondanza, il consumismo, il paese di Cuccagna; i giocatori vengono comprati, venduti, sostituiti in un grande e continuo shopping. A prezzi ancora più insensati di prima, con l'aggravante però che i soldi sono veri, moneta sonante, velocissimi bonifici bancari. Nessuno è più incedibile, gli intoccabili, le "bandiere", non esistono più. In altri tempi la cessione simultanea delle due punte titolari della Juventus avrebbe scatenato la rivolta dei tifosi. Adesso si discute sulla vendita ma con il pensiero già al prossimo acquisto. Una sinistra euforia finanziaria è stata diffusa in quasi tutta Europa dalle tv, che pompano danaro negli stadi per virtualizzare il calcio nel teleschermo. Al punto che non sono più i padroni e padrini del calcio italiano, presidenti di società e general manager, a dettare legge sul mercato della calcistizzazione universale. Eh no, adesso perfino gli inglesi, orgogliosi del loro calcio duro e monotono, fanno i raider dalle nostre parti per portarsi a casa gli atleti temprati dal campionato più hard del mondo. Concorrenza aggressiva? Macché, acquisti cash, e anche spericolati. Miliardi per la pelata di fine carriera di Vialli, miliardi per la testa grigia del macchinoso Ravanelli. E pazienza se si trattasse solo di alcuni calciatori: ecco Trapattoni che torna a guidare il Bayern di Monaco, ridiventando "Herr Ciofanni". Ed ecco soprattutto il re dei pragmatici, Fabio Capello, approdato al comando del Real Madrid e, tanto per smentire l' idea che la nevrosi sia una prerogativa solo del calcio italiano, si trova subito invischiato in una persistente polemica con la società e i tifosi madrileni. E poi è il primo torneo ultramediatico, il campionato sfiorato dalle magie della pay-per-view: per seguire la squadra del cuore ci vuole un' antenna parabolica, il decodificatore, la "smart card". Investimento, più di un milione e mezzo, abbonamento mezzo milione. Troppo? Troppo complicato? E sarà poi vero che il destino del calcio è di riempire i salotti e svuotare gli stadi? Per ora in verità lo stadio, soprattutto a Torino, Milano, Roma, continua a essere una cattedrale del presenzialismo. Quando al Delle Alpi si profila l' Avvocato, quando a San Siro compare il Cavaliere, quando all'Olimpico si ritrovano tutti, da Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini a Sergio D' Antoni, da Carlo Azeglio Ciampi a Romano Prodi, ci si rende conto che il calcio nazionale è una singolarissima e ineguale vetrina. Perché espone sulle tribune l' establishment del Paese e nelle curve i ceti marginali, devianti, petardoni. Dagli stadi sembra completamente scomparsa la classe media, che ora si tenta di intercettare via etere direttamente fra le mura di casa. D' ALEMA E IL SUO FU-FU Solo Umberto Bossi si vede poco allo stadio. Forse se ne sta lontano per evitare equivoci sulla zona e sull' uomo così come all' Arena aveva scambiato la musica del Nabucco con quella dei Lombardi. Sta di fatto che il calcio è considerato, piuttosto a ragione, un potentissimo fattore di legittimazione, un formidabile catalizzatore di popolarità. Massimo D' Alema ha dovuto essere inquadrato sul terreno di gioco ed esibirsi nel suo ormai famosissimo fu-fu sui pugni per far dimenticare di essere il "vecchio bolscevico" che aveva sempre detto di essere. Fini ha dovuto affrontare dopo la svolta di Fiuggi spaventosi tornei di calcetto (spaventosi perché si rischia la marcatura di Cesare Previti) per diventare effettivamente "post". Eccetera. Ed è meglio piantarla lì, perché la politica soffoca il calcio, se ne appropria, lo parassitizza. Mentre il vero vizioso di football non vuole distrazioni, si infastidirebbe perfino se durante la telecronaca Bruno Pizzul segnalasse che a Bergamo ci sono in tribuna Bill Clinton e Saddam Hussein: perché lui accende la tv, a pagamento o no, per vedere l' Atalanta, non il marito di Hillary e il perfido iracheno. Seguendo questa stringente logica bisognerebbe quindi cominciare a parlare di questioni tecniche. Per esempio a valutare se assisteremo a uno scontro fra due culture, due mondi, due Weltanschauung, come direbbe quel tedesco del Trap. Da una parte i sostenitori del calcio ipermoderno, i sacchiani puri, quelli delle formule, del pressing, delle "ripartenze" e della palla inattiva, che spesso danno l' idea di considerare il pallone, proprio lui, la vecchia "sfera", come una necessità fastidiosa, perché introduce la casualità, l' irregolarità potenziale della rotondità nella perfezione degli schemi studiati a tavolino e dimostrati alla lavagna. E dalla parte opposta i reazionari, la vecchia scuola ringalluzzita da certi giganteschi catenacci e dal gioco speculativo visto agli ultimi Europei. Ma si direbbe che da noi gli allenatori siano quasi tutti propensi al gioco del Terzo millennio, alla turbo-zona, perché consente di considerare i giocatori come semplici pedine, e quindi di porre in rilievo l' insostituibile funzione dello stratega in panchina. Ciò che invece manca a questo avvio di competizione è una grande contrapposizione simbolica, come apparve nella stagione scorsa quella fra l' Avvocato e il Divin Codino, ceduto inopinatamente dalla Juve alla corte berlusconiana. Adesso bisogna andare per spigolature, per particolari. Oscar Washington Tabarez riuscirà a emulare i successi di Fabio Capello anche proponendo un dispendiosissimo quattro-tre-tre? E quanto ci metterà il gran tifoso Agnelli a sparare una battuta delle sue ai danni di Boksic, fuoriclasse potenziale ma buonista se non strafalcionista in zona gol? Sembra già di sentirlo: "Una classe immensa. Sa sbagliare le palle gol molto, molto meglio di come le sbagliava Van Basten". Ma l' Inter? Otto stranieri (anzi, sette, viste le questioni di cuore del nigeriano Kanu), nello spogliatoio ci vorrà una scuola interpreti, e un cero acceso alla speranza che Djorkaeff mantenga le promesse. Mentre a Parma si comincia già a discutere della compatibilità fra Zola e Chiesa. L' ALLENATORE ISLAMICO E a Firenze... Alt. A Firenze non si scherza. Perché c' è come allenatore Claudio Ranieri, definito per il suo pragmatismo dalla critica "allenatore non islamico", c' è Batistuta, centravanti in continuo irrefrenabile progresso (nella partita vinta contro il Milan a fine agosto per la Supercoppa ha fatto uno scherzo terribile a Franco Baresi, superandolo con un feroce pallonetto e segnando un gol crudelissimo: ma sono cose da fare, ai poveri vecchi? Oltretutto l' infame, pardon, Cecchi Gori, sorrise). Infine, per tutti coloro che non tollerano il pallone, oppure per i pentiti, quelli che non ne possono più del pressing e della difesa a cinque, sono sempre consigliabili in tv i programmi del disimpegno calcistico, che smitizzano, alleggeriscono, sfottono, consolano: cioè quelli della Banda Fazio (Quelli che il calcio) e della Gialappa' s Band (Mai dire gol). Calcio, televisione, televisione, calcio: ormai è un circolo vizioso, una spirale perversa, una concatenazione pensata da menti raffinatissime. Tanto è vero che quando sono scoppiate le polemiche per il trasloco di Michele Santoro dalla Rai a Mediaset si è fatto notare che non è detto che il tribuno della plebe Santoro possa ripetere su Italia 1 i successi populisti di Raitre. Qualche anno fa, sostengono i più cinici, c' era un' agorà che aveva un impatto pubblico ben più forte delle piazze di Tempo reale: era il Processo di Biscardi, tribuno della tribuna. E ora chi sa più dov' è finito Aldo il Rosso? Chiedere sommessamente un parere a Walter Veltroni: è censurabile politicamente sostenere che se abbiamo potuto vivere senza Biscardi riusciremo a tollerare anche l' eventuale collasso di audience di Santoro? Perché se non è politically correct, se non si può dire nulla, se siamo davvero al "regime" dell' Ulivo, tanto vale lasciar perdere e consolarsi di questa cattiva ventura con la Ventura.
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