gli articoli PANORAMA/

LA TERRA DEI CACHI E DEI TELEFONINI

06.06.1996
DOSSIER
CULTURA E CONSUMI MEZZO SECOLO DI VITA MATERIALE DEGLI ITALIANI

Forse il marchio di un’Italia sempre incerta se proiettarsi nel futuro o racchiudersi autarchicamente su se stessa è stato impresso simbolicamente alla fine della seconda guerra mondiale. Quando l’America arriva in Italia, e spuntano gli sciuscià, occhieggiano le "segnorine", i giovani fumano sigarette d’ oltreoceano. E’ un’Italia investita da una modernità venuta da lontano, dal paese dei paisà emigrati, e tuttavia è anche l’Italia di Eduardo De Filippo, in cui ha da passa’ ‘ a nuttata, in un crepuscolo incerto fra disperazione e rassegnazione. E’ già un’Italia pacelliana, in cui i comunisti sono prima sconfitti nel segreto delle cabine elettorali e poi pubblicamente scomunicati. Pio XII definisce il dogma dell’Assunzione di Maria proprio mentre cominciano gli anni Cinquanta, nell’ anno del giubileo. E’ in questo clima, che poi la cultura laica e di sinistra definirà costantemente, e senza pensarci troppo, "cupo" e "clericale", che il Paese prende la rincorsa e decolla. E’ qui che avviene la prima grande modernizzazione della società italiana. Tutte le altre saranno più che altro variazioni sul tema. Mentre l’apparato economico-industriale prende a produrre a ritmi sempre più sostenuti, si assiste dapprima alla grande azione liberalizzatrice e stabilizzatrice di Alcide De Gasperi e di Luigi Einaudi, poi, scomparso De Gasperi, alla lenta crisi del centrismo, alle prime prove tecniche di centrosinistra: prove incerte, ma accompagnate da una passione, nelle discussioni pubbliche e private, che avrà pochi uguali in seguito. Nessuno sa in quel momento che le speranze riposte nell’ "apertura a sinistra" sono destinate alla frustrazione. Gli italiani si specchiano in quel benessere che comincia a coinvolgerli. E infatti, alla fine del decennio, nel 1959, il Daily Mail definisce l’efficienza e la prosperità del sistema produttivo italiano "un miracolo economico"; nello stesso anno il Financial Times assegna alla lira l’Oscar delle monete. Mentre non si fa che lavorare, dato che il weekend non è ancora stato importato, si rischia di non accorgersi che la grande evasione è già cominciata, e non solo perché è nato il Festival di Sanremo o perché Mike Bongiorno ipnotizza la collettività con Lascia o raddoppia?, ma perché scatta qualcosa, nell’ industria, nell’ economia, nel mercato, che sembra il big bang della civiltà di massa. Eccoli, gli italiani giovani, le famiglie, i mariti e i fidanzati in camicia bianca e maniche arrotolate sopra i gomiti, fotografati accanto alla Vespa o alle Lambrette. Si divideranno in vespisti o lambrettisti con la stessa passione con cui hanno tifato per Coppi contro Bartali e viceversa, ma intanto raggiungono spiagge, pinete, laghi. E sognano di comprare presto la Cinquecento, che ha sostituito la Topolino e che costa undici stipendi di un impiegato medio della Fiat, mettono in casa il primo pesantissimo frigorifero, comprano i rotocalchi, guardano Carosello, cantano Volare, leggono fumetti come Il grande Blek, si innamorano e subito si disamorano dei tormentoni di massa come l’hula hoop e lo scubidù. Il Paese è giovane. Ha una voglia immediata di mettersi alla prova. Federico Fellini ha intuito il passaggio d’ epoca descrivendo il passaggio dalla provincia alla metropoli, dai Vitelloni alla Dolce vita. Gli operai specializzati del Modenese e del Reggiano, magari licenziati per uno sciopero politico, aprono un’impresina e cominciano a tirare su senza saperlo il modello emiliano. Allora forse non è vero che la morale della Penisola è quello di Tomasi di Lampedusa, cambiare tutto per non cambiare nulla. Quando comincia l’esperienza del centrosinistra sembra possibile, come ha raccontato Giorgio Bocca, che scatti una grande mobilitazione della borghesia produttrice, un progetto di rinnovamento che attraversa le classi sociali, un’idea razionale di capitalismo intelligente e riformista che coinvolge i ceti operai e la classe dirigente. Esplode tutto. L’Italia vede distendersi il nastro d’asfalto dell’Autostrada del Sole, fiorire gli Autogrill, avvicinarsi la Riviera adriatica, apparire la lavatrice, diffondersi definitivamente la tv e il telefono. Sulla sua spider e davanti alla macchina per scrivere (la Lettera 22 della Olivetti ha già conquistato tutti), Alberto Arbasino organizza i furibondi raid ludici e intellettuali che fanno da trama a Fratelli d’Italia. E Vittorio Gassman, nel Sorpasso di Dino Risi, è l’emblema di un "italiano nuovo" che ha imparato ad approfittare in tutti i modi della libertà. Ma non ha avuto un’educazione alla libertà. Sotto sotto, infatti, dietro un cambiamento strepitoso striscia una resistenza, un’opposizione, una vischiosità che sembra provenire da un carattere antico, da remore intellettuali insopportabili, da un virus italiano che Alberto Sordi ha illustrato in tutte le sue forme, incarnandolo nel piccolo democristiano impiccione, nel borgataro travolto dall’ esotismo americano, nel magliaro, nel marito adultero, nel ministeriale infingardo, nel vigile sadico, nel piccolissimo borghese che nuota nel braccio di mare fra l’arcaismo e la modernità. E dietro le festose esperienze di liberazione del costume, si avverte sempre la presenza di poteri immutabili, non scalfibili: Le mani sulla città di Francesco Rosi, Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia. Accanto alle emancipazioni, rimangono deferenze ottuse, lealtà ataviche, drammatiche assenze di spirito pubblico. In ogni caso, in un decennio si fa un falò mai visto di miti e di consumi. Le vecchiette tengono nel tinello le immagini dei precursori del buonismo, il trio Kennedy-papa Giovanni-Krusciov. Ci si lascia alle spalle il Concilio Vaticano II e si comincia a dire messa in italiano, fra le smorfie dei tradizionalisti. Il centrosinistra declina stancamente, e secondo lo studioso americano Sidney Tarrow è proprio la sua incapacità a produrre le riforme a provocare una risposta antagonistica, contestativa. Perché mentre tutti erano intenti ad ascoltare i Beatles e a contemplare le italiane tempestive allieve di Mary Quant, in minigonna shocking, è scoppiato il Sessantotto. Altrove, in Francia, in Germania, dura qualche mese. Da noi dura un decennio. E si precipita quindi nei Settanta, negli anni di piombo. Parola d’ ordine, rivoluzione. Le autonominatesi avanguardie italiane o sparano oppure si rintanano nel chiuso di plumbei collettivi politici. Sarà lo shock petrolifero, sarà una lettura pessimistica di Marx, sarà una crisi generazionale e culturale, ma ci si convince facilmente che il treno dello sviluppo è arrivato al capolinea, e si tratta di redistribuire la povertà, non di creare ricchezza e godersela. Domeniche a piedi, stagflazione, miniassegni: e si capisce perché il cattolico Franco Rodano faceva da consigliere a Enrico Berlinguer sui temi dell’austerità, proponendo una vita comunitaria e antiedonistica: interpretava lo spirito del tempo, oltre che le sue propensioni più profonde. Si vota così contro l’abrogazione del divorzio (e qui finisce l’unità politica dei cattolici, malgrado la lunghissima agonia della Dc, durata altri vent’ anni), eppure due anni dopo comincia la solidarietà nazionale, Dc e Pci uniti in un embrione di compromesso storico, per la gioia di una specie nuova, i cattocomunisti. Poi ammazzano Aldo Moro, e all’ improvviso ci si rende conto di tutto, e ci si chiede che cos’ è questa follia ideologica, questa luttuosa falsificazione estrema del principio di classe, e quanti sono stati i cattivi maestri di una generazione che ha sbagliato drammaticamente l’analisi storica e ha fatto pagare i propri errori culturali alle sue vittime. Voltare pagina, please. E infatti gli anni Ottanta costituiscono il trionfo del corpo, dell’individuo, del successo, della finanza, del postindustriale. Auspice Bettino Craxi, le rigidità berlingueriane vengono irrise: è l’ora storica del rampantismo, del consumo vistoso, della ricchezza esibita. Per certi aspetti, sembra che tutto il decennio serva soltanto a preparare irresponsabilmente il grande crollo politico che avverrà sotto il segno di Tangentopoli. E quando si arriva all’inizio degli anni Novanta, ci si accorge con un senso di imprecisata inquietudine che il debito pubblico ha superato il pil, come se avessimo ipotecato la casa per pagare le vacanze. Si vive ormai fra telefonini e personal computer, sullo sfondo della mediatizzazione totale, ma incalzati dalla tecnologia che brucia posti di lavoro e genera ansia anche nei ceti medi. Moderni, gli italiani? Non proprio. Moderni ma conformisti, giustizialisti, qualunquisti. Tutti con Di Pietro e tutti contro Di Pietro. E talora nasce il sospetto che dietro la grande adattabilità degli italiani, adattabilità a tutto, al mercato come al sistema maggioritario o al sistema sanitario, non ci sia la conquista di standard etici e politici diversi dai precedenti, ma ci sia invece una perdita: che fa affiorare nei comportamenti qualcosa di remoto, ora un tratto di brutalità, ora un atteggiamento di cinismo, talvolta un che di ferocia. Difficile dirne la ragione. Forse perché nelle società avanzate, con l’avanzare della secolarizzazione, con lo sbiadire delle tradizioni religiose, resta la saldezza storicamente consolidata delle istituzioni pubbliche; mentre da noi, caduti o cambiati i grandi partiti e praticamente scomparsa la loro funzione di socializzatori politici, attenuatasi l’egemonia della Chiesa, ciò che rimane è qualcosa di amorfo. Come se, fatti gli italiani, restasse pur sempre da fare l’Italia.

Facebook Twitter Google Email Email