gli articoli PANORAMA/

E PENSARE CHE IN PRINCIPIO ERA AMATO

29.08.1996
ATTUALITA' ITALIA
DIBATTITO SULL' ECONOMIA

La mazzata arrivò nel settembre del 1992, in contemporanea con la tempesta valutaria: fu la Grande manovra di Giuliano Amato, 93 mila miliardi per metà di tagli e per metà di maggiori entrate. Fino a quel momento per gli italiani stava andando di lusso, nel senso che il Paese era povero e indebitato ma i suoi abitanti sembravano ricchi. Poi vennero la svalutazione e il rigore. Ma più che la drammatica variazione del cambio fu la pesante politica economica del governo Amato a far sì che i cittadini vedessero svanire una quota consistente di reddito, sacrificato alla terapia d’ urto contro lo choc finanziario. Di fronte a segnali così espliciti di avvio dell’ era delle bibliche vacche magre, gli italiani cominciarono a guardarsi intorno. Si poteva già immaginare come sarebbe andata a finire. Nelle crisi economiche anche più acute, c’ è chi ci perde ma c’ è chi ci guadagna. Come è stato detto, "l’ inflazione è la lotta di classe condotta con altri mezzi". Anche se i provvedimenti decisi da Amato e poi da Carlo Azeglio Ciampi incorporavano criteri di equità, ci sono ceti che sono più esposti di altri all’ inasprimento delle condizioni economiche. La concertazione fra governo, sindacati e imprenditori ha consentito di non importare inflazione in seguito alla svalutazione, ma ha tenuto bloccati i salari del lavoro dipendente, inducendo una perdita secca vicina al 10 per cento in quattro anni. Mentre le imprese del Nord-est (ma non solo del Nord-est) cominciavano ad accumulare profitti grazie a un cambio da dumping e mentre il lavoro autonomo cominciava a usare la propria flessibilità per mantenere invariati gli standard di reddito, una parte della società italiana, in pratica lavoratori dipendenti e pensionati, ha dovuto rifare i conti di casa. Proprio perché l’ Italia è un grande mercato, se una quota ampia della popolazione vede diminuire le risorse, gli effetti non sono settoriali, si distribuiscono su tutta l’ economia. In questo momento siamo arrivati alla fase cruciale, in cui l’ ultimo sforzo di risanamento avviene sulle spalle di un Paese impoverito, stanco, incerto, in preda all’ ansia. L’ estate 1996 è stata per molti aspetti un’ esemplificazione perfetta, simbolicamente ed empiricamente, di come reagisce una società dai nervi scoperti. Vacanze brevi, ferie alla mordi e fuggi. In condizioni più o meno normali, vale a dire in assenza di traumi gravi, una società avanzata tende a non rinunciare ai comportamenti cui è abituata. Si ripiega su se stessa e cerca di fare le stesse cose di prima, cambiandone i modi e le forme. Non c’ è una regola universale in questa "gestione di risorse decrescenti". Tanto più che assai spesso la percezione di questa caduta delle risorse è soprattutto psicologica, proiettata sul futuro. Si avverte un po’ oscuramente che l’economia dell’ America ruggente è lontana mentre i vicini paesi europei stanno tutti realizzando politiche restrittive: in queste condizioni sperare in rapide inversioni di tendenza è un’ illusione. Non è tempo di miracoli. E allora ogni consumatore diventa lo specchio del sistema-Italia: escluso uno zoccolo duro di spesa incomprimibile, opera un ventaglio di piccole defezioni distribuendo i tagli su tutto il paniere dei suoi consumi, sperando in tal modo di non avvertire l’ impoverimento. Ma così facendo il meccanismo si autoalimenta. Si consuma meno, si produce meno, si vende meno, si fattura meno. E’ la recessione. Ma è anche la dimostrazione che non esistono formule magiche, che nessuno possiede la ricetta per innescare lo sviluppo, che anche la provincia italiana è ormai interdipendente con il mercato globale. In queste condizioni, pensare di curare la recessione con la secessione è più che altro un gioco di parole.

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