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AIUTO, SIAMO NEL PALLONE GLOBALE!

12.09.1996
SPECIALE
CALCIO

Primo campionato dell’ "era Bosman", primo calcio d’ avvio dopo la sentenza della Corte europea di giustizia che ha liberalizzato il mercato pallonaro. Fischio d’ inizio l’ 8 settembre, data brivido, da cornetti rossi. Consigliabili gli scongiuri perché il calcio globale non significhi calcisticamente la morte della patria. Gli stranieri sono tanti, ma in fondo sempre meno che in Portogallo, Gran Bretagna, Belgio, Germania, Spagna. Sembra la vittoria finale del mercato e invece probabilmente è solo la sconfitta definitiva del calciomercato. Perché la principale legge dell’ economia, tristissima scienza secondo Carlyle, recita che c’ è mercato dove c’ è scarsità. E quindi ci si poteva appassionare al rito estivo del mercato calcistico quando il blocco agli stranieri faceva lievitare i prezzi dei campioni (o presunti tali) a livelli insensati. Anche se si sapeva che quei prezzi erano quasi sempre nominali. Si cedeva infatti il fin troppo generoso centravanti da 10 miliardi in cambio di due diligenti centrocampisti da 5 miliardi l’ uno. Un rintronato terzino da 1 miliardo per due giovani promesse da 500 milioni. Adesso invece il calcio è l’ unica grande industria del capitalismo avanzato che non conosce il "downsizing": c’ è l’ abbondanza, il consumismo, il paese di Cuccagna; i giocatori vengono comprati, venduti, sostituiti in un grande e continuo shopping. A prezzi ancora più insensati di prima, con l’aggravante però che i soldi sono veri, moneta sonante, velocissimi bonifici bancari. Nessuno è più incedibile, gli intoccabili, le "bandiere", non esistono più. In altri tempi la cessione simultanea delle due punte titolari della Juventus avrebbe scatenato la rivolta dei tifosi. Adesso si discute sulla vendita ma con il pensiero già al prossimo acquisto. Una sinistra euforia finanziaria è stata diffusa in quasi tutta Europa dalle tv, che pompano danaro negli stadi per virtualizzare il calcio nel teleschermo. Al punto che non sono più i padroni e padrini del calcio italiano, presidenti di società e general manager, a dettare legge sul mercato della calcistizzazione universale. Eh no, adesso perfino gli inglesi, orgogliosi del loro calcio duro e monotono, fanno i raider dalle nostre parti per portarsi a casa gli atleti temprati dal campionato più hard del mondo. Concorrenza aggressiva? Macché, acquisti cash, e anche spericolati. Miliardi per la pelata di fine carriera di Vialli, miliardi per la testa grigia del macchinoso Ravanelli. E pazienza se si trattasse solo di alcuni calciatori: ecco Trapattoni che torna a guidare il Bayern di Monaco, ridiventando "Herr Ciofanni". Ed ecco soprattutto il re dei pragmatici, Fabio Capello, approdato al comando del Real Madrid e, tanto per smentire l’ idea che la nevrosi sia una prerogativa solo del calcio italiano, si trova subito invischiato in una persistente polemica con la società e i tifosi madrileni. E poi è il primo torneo ultramediatico, il campionato sfiorato dalle magie della pay-per-view: per seguire la squadra del cuore ci vuole un’ antenna parabolica, il decodificatore, la "smart card". Investimento, più di un milione e mezzo, abbonamento mezzo milione. Troppo? Troppo complicato? E sarà poi vero che il destino del calcio è di riempire i salotti e svuotare gli stadi? Per ora in verità lo stadio, soprattutto a Torino, Milano, Roma, continua a essere una cattedrale del presenzialismo. Quando al Delle Alpi si profila l’ Avvocato, quando a San Siro compare il Cavaliere, quando all’Olimpico si ritrovano tutti, da Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini a Sergio D’ Antoni, da Carlo Azeglio Ciampi a Romano Prodi, ci si rende conto che il calcio nazionale è una singolarissima e ineguale vetrina. Perché espone sulle tribune l’ establishment del Paese e nelle curve i ceti marginali, devianti, petardoni. Dagli stadi sembra completamente scomparsa la classe media, che ora si tenta di intercettare via etere direttamente fra le mura di casa. D’ ALEMA E IL SUO FU-FU Solo Umberto Bossi si vede poco allo stadio. Forse se ne sta lontano per evitare equivoci sulla zona e sull’ uomo così come all’ Arena aveva scambiato la musica del Nabucco con quella dei Lombardi. Sta di fatto che il calcio è considerato, piuttosto a ragione, un potentissimo fattore di legittimazione, un formidabile catalizzatore di popolarità. Massimo D’ Alema ha dovuto essere inquadrato sul terreno di gioco ed esibirsi nel suo ormai famosissimo fu-fu sui pugni per far dimenticare di essere il "vecchio bolscevico" che aveva sempre detto di essere. Fini ha dovuto affrontare dopo la svolta di Fiuggi spaventosi tornei di calcetto (spaventosi perché si rischia la marcatura di Cesare Previti) per diventare effettivamente "post". Eccetera. Ed è meglio piantarla lì, perché la politica soffoca il calcio, se ne appropria, lo parassitizza. Mentre il vero vizioso di football non vuole distrazioni, si infastidirebbe perfino se durante la telecronaca Bruno Pizzul segnalasse che a Bergamo ci sono in tribuna Bill Clinton e Saddam Hussein: perché lui accende la tv, a pagamento o no, per vedere l’ Atalanta, non il marito di Hillary e il perfido iracheno. Seguendo questa stringente logica bisognerebbe quindi cominciare a parlare di questioni tecniche. Per esempio a valutare se assisteremo a uno scontro fra due culture, due mondi, due Weltanschauung, come direbbe quel tedesco del Trap. Da una parte i sostenitori del calcio ipermoderno, i sacchiani puri, quelli delle formule, del pressing, delle "ripartenze" e della palla inattiva, che spesso danno l’ idea di considerare il pallone, proprio lui, la vecchia "sfera", come una necessità fastidiosa, perché introduce la casualità, l’ irregolarità potenziale della rotondità nella perfezione degli schemi studiati a tavolino e dimostrati alla lavagna. E dalla parte opposta i reazionari, la vecchia scuola ringalluzzita da certi giganteschi catenacci e dal gioco speculativo visto agli ultimi Europei. Ma si direbbe che da noi gli allenatori siano quasi tutti propensi al gioco del Terzo millennio, alla turbo-zona, perché consente di considerare i giocatori come semplici pedine, e quindi di porre in rilievo l’ insostituibile funzione dello stratega in panchina. Ciò che invece manca a questo avvio di competizione è una grande contrapposizione simbolica, come apparve nella stagione scorsa quella fra l’ Avvocato e il Divin Codino, ceduto inopinatamente dalla Juve alla corte berlusconiana. Adesso bisogna andare per spigolature, per particolari. Oscar Washington Tabarez riuscirà a emulare i successi di Fabio Capello anche proponendo un dispendiosissimo quattro-tre-tre? E quanto ci metterà il gran tifoso Agnelli a sparare una battuta delle sue ai danni di Boksic, fuoriclasse potenziale ma buonista se non strafalcionista in zona gol? Sembra già di sentirlo: "Una classe immensa. Sa sbagliare le palle gol molto, molto meglio di come le sbagliava Van Basten". Ma l’ Inter? Otto stranieri (anzi, sette, viste le questioni di cuore del nigeriano Kanu), nello spogliatoio ci vorrà una scuola interpreti, e un cero acceso alla speranza che Djorkaeff mantenga le promesse. Mentre a Parma si comincia già a discutere della compatibilità fra Zola e Chiesa. L’ ALLENATORE ISLAMICO E a Firenze… Alt. A Firenze non si scherza. Perché c’ è come allenatore Claudio Ranieri, definito per il suo pragmatismo dalla critica "allenatore non islamico", c’ è Batistuta, centravanti in continuo irrefrenabile progresso (nella partita vinta contro il Milan a fine agosto per la Supercoppa ha fatto uno scherzo terribile a Franco Baresi, superandolo con un feroce pallonetto e segnando un gol crudelissimo: ma sono cose da fare, ai poveri vecchi? Oltretutto l’ infame, pardon, Cecchi Gori, sorrise). Infine, per tutti coloro che non tollerano il pallone, oppure per i pentiti, quelli che non ne possono più del pressing e della difesa a cinque, sono sempre consigliabili in tv i programmi del disimpegno calcistico, che smitizzano, alleggeriscono, sfottono, consolano: cioè quelli della Banda Fazio (Quelli che il calcio) e della Gialappa’ s Band (Mai dire gol). Calcio, televisione, televisione, calcio: ormai è un circolo vizioso, una spirale perversa, una concatenazione pensata da menti raffinatissime. Tanto è vero che quando sono scoppiate le polemiche per il trasloco di Michele Santoro dalla Rai a Mediaset si è fatto notare che non è detto che il tribuno della plebe Santoro possa ripetere su Italia 1 i successi populisti di Raitre. Qualche anno fa, sostengono i più cinici, c’ era un’ agorà che aveva un impatto pubblico ben più forte delle piazze di Tempo reale: era il Processo di Biscardi, tribuno della tribuna. E ora chi sa più dov’ è finito Aldo il Rosso? Chiedere sommessamente un parere a Walter Veltroni: è censurabile politicamente sostenere che se abbiamo potuto vivere senza Biscardi riusciremo a tollerare anche l’ eventuale collasso di audience di Santoro? Perché se non è politically correct, se non si può dire nulla, se siamo davvero al "regime" dell’ Ulivo, tanto vale lasciar perdere e consolarsi di questa cattiva ventura con la Ventura.

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