LA STAMPA
LA STAMPA, 07.03.1998
IL CONFINE TRA POLO E LEGA
Ormai tutto fa pensare che la politica in Italia si giocherà con il bipolarismo che c'è, non con iniziative di palazzo o con operazioni virtuali. Ciò comporta un tasso minore di fantasia, ma qualche dose in più di prevedibilità e realismo. Il bipolarismo che c'è non è il migliore dei mondi possibili, ma è sempre meglio della destrutturazione che sarebbe necessaria per renderlo perfetto. A questo punto, sgonfiatasi malamente l'iniziativa di Cossiga, e mentre sul versante opposto non appaiono troppo promettenti e convincenti nemmeno le prospettive politiche di Antonio Di Pietro, conviene pertanto tenere d'occhio l'area critica più evidente, che è inevitabilmente quella su cui sono disegnati i confini del Polo e della Lega. È una zona critica perché è la sola che può movimentare la situazione politica. Finché il Polo e la Lega, e soprattutto Berlusconi e Bossi, rimangono divisi, il centrodestra è scarsamente competitivo sul mercato politico. Il Polo può modulare la sua opposizione in varie tonalità, ora rincorrendo rumorosamente la protesta e ora presentandosi in veste più moderata: ma con poche possibilità di presentarsi come un'alternativa credibile al governo Prodi-Ciampi e ai risultati di tenore europeo che ha ottenuto. Il centrodestra, quindi, può tornare in gioco esclusivamente se viene eliminata l'ultima anomalia «di sistema» ancora presente nel nostro paese. Solo che questa impresa è una delle operazioni più acrobatiche, e quindi rischiose, che si possano tentare. In teoria si tratterebbe di applicare il sillogismo di Tremonti: la secessione l'ha già fatta l'Europa, portandosi via la moneta e altri segmenti di sovranità; pensare di fare oggi un'operazione ottocentesca come la secessione, mentre il potere reale si sta spostando verso organismi sovranazionali, è un puro anacronismo; ergo, tolto di mezzo il totem secessionista, forzisti e leghisti si possono mettere nuovamente insieme sulla base di un robusto progetto federalista, dimenticando l'infelice esperienza del 1994. Si tratta di un'ipotesi politicamente razionale, dal momento che al Nord gli elettorati della Lega e di Forza Italia sono, se non identici, molto omogenei. Rappresentano infatti ceti sociali largamente insoddisfatti del rapporto con lo Stato, che si sentono soffocati nella loro iniziativa, timorosi di perdere benessere privato e competitività sui mercati. Inoltre va considerato il fatto che gli elettori di Lega e Forza Italia sono rimasti orfani dei partiti che li rappresentavano, e in questo momento avvertono una estraneità al circuito politico talmente drammatica da lasciare quasi solo ad atteggiamenti di opposizione irriflessa. E dunque che cosa ci vuole per fare scattare la scintilla che farebbe unire questi elettori accomunati perlomeno da «istinti di mercato», se non da una cultura politica programmatica? In realtà non è così semplice. Ciò che la sociologia unisce, spesso la politica divide. Tanto più nel caso della Lega e del Polo, e non solo perché c'è un conflitto naturale fra la concezione separatista di Bossi e il nazionalismo di Fini. Proprio quell'identità di fondo così evidente fra leghisti e forzisti rappresenta in realtà al momento buono un ostacolo insuperabile. Perché la durata del Carroccio come entità politica è garantita solo dal mito della secessione: se infatti scompare il separatismo, la Lega diventa inutile, in quanto si tramuta in una variante popolana di Forza Italia; e se il movimento di Berlusconi rinuncia alla sua funzione nazionale, quasi niente la rende riconoscibile rispetto alla Lega. Quindi, secondo le logiche non sempre immediate ma ferree della politica, in realtà Lega e Forza Italia sono piuttosto in piena concorrenza reciproca. Vale per loro quello che si diceva valesse anni fa per il Pci e il Psi: sono come due porcospini, se stanno lontani muoiono di freddo (e all'opposizione di questi tempi il gelo è micidiale), ma se si avvicinano si pungono. È probabile perciò che le danze di Maroni e di Fratini, come quelle di Berlusconi e Bossi, condotte a base di concetti come la «devolution», siano scandite da interessi difficilmente negoziabili. La Lega ha interesse a fare uscire dal guscio i forzisti, favorendo tensioni centrifughe, in attesa che la crisi di leadership e di ruolo di Forza Italia si accentui; Forza Italia ha un disperato bisogno di trovare una leva che le consenta di sbloccare la propria paralisi. C'è un punto solo, al di là di qualche sperimentazione nel voto locale, in cui gli interessi così simili e così diversi dei due partiti si possono saldare: ed è in Parlamento, contro il compromesso raggiunto nella Bicamerale. Certo non sarebbe difficile indurre Bossi a fare saltare la friabile architettura costituente. Resta da vedere se Berlusconi può avere il coraggio di sbaraccare tutto, riforme, legislatura e magari il Polo stesso. Inutile dire che è un'ipotesi così audace da sfiorare l'avventurismo: e in una prospettiva politica, cioè di consenso da raccogliere, è tutto da vedere se un paese coinvolto in un impegnativo confronto con l'Europa ha davvero voglia di avventure.
LA STAMPA, 15.03.1998
MA NON SIA UNO SCAMBIO
Fin dall'inizio del suo mandato Luciano Violante ha riaperto i libri di storia e ha cominciato a parlare della necessità di una riconciliazione nazionale da Salò in poi. Dal canto suo, già a Fiuggi Gianfranco Fini aveva riconosciuto il ruolo liberatore dell'antifascismo non comunista. C'è evidentemente una convenienza reciproca che ex comunisti ed ex fascisti intravedono nella ricucitura della memoria. La determinazione con cui a destra e a sinistra si dichiara di volere discutere certe pagine censurate mostra la necessità, per i partiti eredi di quella storia e di quelle tragedie, di inseguire ancora oggi alcuni frammenti di legittimazione di cui sembrano sentire ancora la mancanza. È vero che oggi una riconciliazione definitiva rappresenterebbe un'autentica risorsa culturale, politica e morale per tutto il paese. Riconosciuto questo, sarà però opportuno anche rilevare che il lavoro di sutura storica così alacremente avviato propende fastidiosamente a diventare una faccenda esclusiva di ex comunisti ed ex fascisti. Sembra insomma che le pratiche della riconciliazione debbano essere sbrigate con un accordo post-ideologico fra ex, nel fragoroso silenzio degli altri, cattolici, laici, liberali, cioè di tutti coloro che hanno avuto l'ottima idea di non essere stati né comunisti né fascisti. Anche ieri, oltretutto, Fini ha rivendicato la frase con cui nella conferenza programmatica di Firenze aveva sostanzialmente messo sullo stesso piano gli ebrei deportati e gli italiani «infoibati». È un'espressione infelice, che sottintende uno schema storico altrettanto infelice, e ripeterla non la migliora, nonostante le puntigliose spiegazioni filologiche del leader di An. Infatti essa sintetizza un dibattito che si è abituato a esporre da un lato gli orrori di destra e dall'altro il libro nero del comunismo. E che non vede altro. Sicché ognuno è pronto ad ammettere qualcosa se può «serenamente» rinfacciare qualcosa alla controparte. In modo che ogni tragedia e ogni orrore vengono relativizzati. Sembra insomma che un intero problema storico e civile venga risolto alla fine con un do ut des fra gli eredi di coloro che ne furono i protagonisti estremi: con l'ammissione bilanciata degli orrori, e ciascuno riconoscendo certe ragioni dell'altro. Mentre in realtà la discussione storica e politica, e insieme la piena legittimazione dei soggetti in campo, non dovrebbero avvenire in questo modo. Malgrado tutto, c'è ancora bisogno di con tinue prove di qualità democratica, e questa va dimostrata non con le trasandate dichiarazioni fondate sulla prassi a cui siamo stati abituati («siamo democratici da decenni»); bensì con un'applicazione strenua dei principi di riferimento della democrazia liberale: cioè criteri da applicare in ogni ambito della vita pubblica e anche, senza sentimentalismi, in modo vincolante, nei confronti della storia.
LA STAMPA, 24.03.1998
TRA PAESE E PALAZZO
Non c'è ragione per dubitare delle motivazioni con cui il presidente Scalfaro ha respinto la legge sul finanziamento dei partiti. Se il Quirinale individua e censura un aspetto eminentemente tecnico della legge, mettere in dubbio questa tecnicità significa fare della bassa dietrologia. Ma anche le iniziative più tecniche possono iscriversi in un contesto politico e possono avere effetti politici. Contesto ed effetti su cui vale la pena di soffermarsi. Innanzitutto perché il rabbuffo di ieri è stato forte e puntuale. È arrivato infatti dopo che si erano susseguiti appelli al capo dello Stato perché negasse la propria firma alla legge, e campagne d'opinione contro l'arroganza partitocratica della classe politica. Ora, lo stesso Scalfaro si è mostrato assai consapevole della delicatezza della materia. La questione del finanziamento dei partiti tocca un nodo cruciale del legame di fiducia fra i cittadini e i loro rappresentanti. Per questo il Quirinale ha cercato in tutti i modi di sterilizzare la sua decisione, facendo il possibile per evitare di rinfocolare sentimenti demagogici «di non favore, se non di ostilità» verso i partiti. Ma ciò che colpisce è la rivendicazione della sua funzione di garante della volontà popolare e delle aspettative della società civile. Si tratta di una sfumatura in più rispetto alla funzione di notaio della Costituzione. Ed è in quella sfumatura in più rispetto a un'interpretazione notarile che c'è tutto lo Scalfaro «presidenzialista» che abbiamo conosciuto. Cioè del protagonista politico che ha sospeso il bipolarismo e lo ha riavviato quando lo ha giudicato opportuno; che ha sollecitato ripetutamente le riforme costituzionali; che ha censurato gli squilibri fra magistratura e politica («il tintinnar di manette» di San Silvestro). Negli ultimi tempi, Scalfaro si è proposto a tutto tondo come il regista dell'intera fase politica. Con il discorso di fine anno, aveva chiarito che le riforme e il confronto politico si facevano con il materiale a disposizione, non con invenzioni estemporanee. Ora, collocandosi deliberatamente come cerniera fra cittadini e Parlamento, conferisce alla sua figura un elemento in più. Viene investito infatti dal soffio di sollievo e di popolarità che indubbiamente, magari per ragioni fraintese, la decisione di ieri è destinata a procurargli. E nello stesso tempo continua a presentarsi come il tutore dei partiti (fino a deprecarne gli errori per il loro stesso bene) e dello schema politico-istituzionale in corso. Questo profilo bifronte del Quirinale, garante della società civile e garante dei partiti, è una testimonianza della sua forza e della sua capacità esplicitamente politica. E agli occhi di chi lo osserva, dentro e fuori il mondo politico, sembra avvalorare, nelle secche del processo di rifacimento istituzionale, cioè fra il presidenzialismo vero di oggi e quello virtuale di domani, un leggero ma irresistibile tratto di insostituibilità.
LA STAMPA, 30.03.1998
L’EUROPA ECLISSA IL SENATUR
Era chiaro che il congresso straordinario della Lega doveva svolgere più che altro una funzione di sostegno all'identità del movimento, in una fase in cui il Carroccio sembra progressivamente escluso da ruoli politici di qualche significato. Ci si aspettava tuttavia qualche indicazione più esplicita, da parte di Bossi, sulla nuova strategia delle alleanze della Lega. Che invece non c'è stata. Si è capito che il nemico principale per i leghisti è la sinistra «nazionalista», ma non sembrerebbe che il rapporto con il Polo, malgrado gli sforzi dell'ambasciatore Tremonti, abbia fatto passi avanti significativi. In compenso, oltre a un nuovo attacco al papa, si è assistito alla bocciatura di una mozione favorevole al nazionalismo padano, che comprendeva un irritante accenno al diritto di «rappresaglia simbolica» contro le iniziative dello Stato. La mozione è stata stroncata da Bossi in persona, che si è preoccupato di chiarire con una certa enfasi che l'azione del Carroccio è dettata solo ed esclusivamente dall'«amore». Per comprendere meglio il congresso leghista è utile collocarlo sullo sfondo dei due principali avvenimenti degli ultimi giorni. In primo luogo la decisione sulla creazione dell'Europa monetaria a undici, cioè un evento di portata storica, destinato ad avere effetti profondi sulla politica continentale; e anche un evento di taglia inevitabilmente minore, il convegno di Parma della Confindustria, che tuttavia ha messo in scena un confronto fra imprenditori e governo dominato da una grande tensione, che ha esposto due linee alternative di politica economica, un dilemma «vero» sul quale si gioca la possibilità italiana di uno sviluppo di qualità effettivamente europea. Di fronte a questi eventi e alle loro implicazioni il congresso della Lega è risultato nettamente ridimensionato. È rimasto il colore delle camicie verdi e dei proclami contro Roma, gli interrogativi su perché Bossi non abbia mai citato la secessione, ma in una desolante assenza della politica. A mano a mano che si chiarisce il rilievo storico della creazione dell'unione monetaria, via via che crescono le aspettative sull'Europa politica, e si intensifica il dibattito sugli strumenti più adeguati per garantire sviluppo, occupazione e competitività, il leghismo mostra tutti i limiti di un movimento territoriale, che cerca di proporre insofferenze e idiosincrasie nordiste come un sistema di pensiero coerente. Con il risultato che mentre l'approfondirsi del processo di unificazione europea sottrae segmenti sempre più ampi di sovranità (a partire da quella sulla moneta), la Lega continua a inseguire il suo piccolo sogno nazionalista ottocentesco, con l'inevitabile contorno di camicie verdi, guardie nazionali, richieste di «devolution» e doppio parlamento, oltre naturalmentente ai soliti gadget provincial-nazionalistici. Ecco allora le dichiarazioni esplicitamente antieuropee, che mettono in luce la qualità esclusivamente reattiva della Lega, la sua carica del tutto anti-istituzionale. Che la configura come un movimento che non ha un progetto per collocare il paese (foss'anche solo un pezzo di paese) nell'Unione, e che quindi può speculare politicamente solo al ribasso, contro l'integrazione europea, contro l'unità nazionale, contro il rifacimento dell'architettura istituzionale, contro politiche nazionali di sviluppo. Ed è per queste considerazioni che riesce difficile continuare a concepire la Lega come il ricettore e l'interprete del «male del Nord». Sarà vero che esiste un disagio nordista, che i numerosi Nord italiani sono soffocati da regolazione intrusiva e imposizione fiscale opprimente, ma a questo punto è illogico pensare che esista automaticamente un canale preferenziale fra la società settentrionale e la Lega, che il male del Nord possa trasferirsi come un torrente in piena nel movimento di Bossi. Le ragioni del successo leghista, cioè in pratica della sua resistenza a dispetto del meccanismo bipolare, non appartengono alla sfera del «disagio» economico e imprenditoriale, ma ad altre dimensioni, caratterizzate dal persistere di un'autoillusione «etnica», da una corrente negata ma sempre attiva di antimeridionalismo, e come mastice collettivo da un'antireligione politica plebeo-protestataria che Bossi è bravissimo a riempire di leggende padane e di geopolitica immaginaria. Quindi sbaglia chi pensa che il Carroccio potrebbe diventare il collettore di tutte le delusioni politiche contemporanee, a partire dagli eventuali contraccolpi dovuti all'adesione alla moneta unica. Non esistono progetti o programmi politici ed economici della Lega; e Bossi non è il portatore di una politica economica alternativa, a cui le imprese possano affidarsi. La Lega rappresenta uno dei vari strati socio-antropologici del Nord, e il suo ruolo politico essenziale potrà esercitarlo soltanto nel momento in cui deciderà di dislocare nuovamente i propri voti in un'alleanza con il Polo. Ma a parte che la riedizione del colpo di fantasia del 1994 è problematico in sé, per fare le coalizioni elettorali, per riunire tutte le destre (centraliste, liberali, federaliste, secessioniste) occorrono precisamente le elezioni, che continuano a essere invisibili. Fino allora, cioè fino a una razionalizzazione politica sperabilmente definitiva, bisognerà accontentarsi delle proposizioni «gandhiane», del folklore, degli attacchi al papa. Con un senso progressivo non più di pericolo padano, o di rischio secessionista, ma soltanto di attesa delusa. Di frustrazione politica. Forse, detto più semplicemente, con il riconoscimento di una inadeguatezza.
LA STAMPA, 06.04.1998
TANTO PEGGIO PER I FATTI
Non si era nemmeno finito di deprecare il conformismo ulivista che già straripava il conformismo opposto: in assenza di una politica, infatti, la destra si è affidata alla retorica. Cioè a un'idea fissa, a un'ossessione, antigovernativa vivificata dal risentimento politico. È un atteggiamento che viene manifestato di continuo dai leader del Polo, e poi declinato animosamente dalle sue seconde file, articolato dagli intellettuali d'area, diffuso sui giornali dai commentatori schierati (apertamente o no) con il centrodestra. Ne deriva un pensiero davvero «unico», che dilaga nelle fasce sociali più vicine al Polo, nei ceti imprenditoriali e professionali, fino a trasformarsi in senso comune, anzi, in dogma, in articolo di fede, in verità a priori. È un pensiero che oscilla fra il lamento e la profezia luttuosa. Il lamento dice con assiduità disarmante che il traguardo dell'Euro è stato raggiunto sì, ma attraverso maquillage contabile e fiscalità aggiuntiva, cioè trucchi di bilancio e tasse. Che non sono state realizzate riforme realmente strutturali. Che il nostro paese continua a essere avviluppato in lacci e lacciuoli, che non c'è flessibilità, e nemmeno una cultura del mercato, c'è indifferenza per la crescita e per gli strumenti che essa richiederebbe. Il complesso profetico a cui portano inevitabilmente questi ragionamenti è che avremo forse acchiappato per la coda l'Euro, ma ce ne pentiremo amaramente, perché la nostra economia ne verrà strangolata, e naturalmente non potrà salvarsi, come in passato, «con le svalutazioni competitive». Ci vuole la debita gratitudine per questa lezione di macroeconomia, ancorché venga ripetuta con una regolarità imparaticcia e lievemente noiosa. Ma nelle versioni più allucinate, e più aristocraticamente cariche di tragedia, il pensiero unico della destra porta a visioni metafisiche come la contemplazione di plotoni di imprenditori in fuga verso la libertà del sommerso nei Balcani, per sottrarsi alla micidiale stretta del fisco italiano e alla minaccia delle 35 ore. Se attrae tanti adepti, la retorica della destra dev'essere in sé convincente, ma il suo dilagante successo forse non si spiegherebbe se non mettesse in gioco alcuni caratteri socio-antropologici. Se tante persone di ottimo standard culturale soggiacciono in modo così irriflesso alla propensione al vaticinio funesto, vuol dire che all'osservazione empirica si unisce qualcosa di diverso: ai dati e ai numeri si affianca una pervicace mentalità anticomunista (e questo va bene), ma anche la secolare tentazione dell'autodisprezzo elitario, di quella passione per la catastrofe lucidamente prevista (e addirittura auspicata per vedere la conferma della propria lucidità intellettuale) che è l'altra faccia dello scetticismo nazionale. Sta di fatto che dall'autunno del 1996, cioè dal varo della finanziaria «europea», la retorica della destra ha sbagliato tutte le diagnosi e tutte le previsioni. Dico diagnosi e previsioni, ma è inteso che venivano presentate come certezze quintessenziali e preziose. Certezza che l'Ulivo avrebbe fallito l'obiettivo europeo. Dogma che i consumi sarebbero crollati. Articolo di fede per cui l'abbattimento dell'inflazione avrebbe ucciso l'economia. Verità a priori che non si sarebbe assistito alla ripresa della crescita. E via lamentando, e via protestando, con sistematico disprezzo per le verifiche a posteriori. Ora è possibile che la mistica di cui è intriso il Polo impedisca di distinguere la realtà dalle predizioni, e che quindi molti cultori del disastro siano convinti che il disastro è comunque avvenuto, malgrado la cronaca per ora li smentisca. Ma le smentite sono particolari insignificanti rispetto a una grande teoria e a una forte personalità, e quindi, come sempre, «tanto peggio per i fatti». Tanto peggio, insomma, se i consumi non sono crollati, se l'appuntamento con la moneta unica è stato rispettato, se l'economia ha ripreso a crescere a un ritmo significativo, se tutte le grandi imprese hanno ripreso a fare bilanci notevoli, se la struttura produttiva del Centronord sta mantenendo la propria competitività e le aziende stanno facendo profitti a tutto spiano. E tanto peggio per i fatti se la Borsa continua ad attrarre risparmio in modo vertiginoso, addirittura preoccupante, e se grazie a questa ondata di investimenti le società si stanno arricchendo e gli investitori pure. Domani, ovviamente, avverrà la catastrofe: lo abbiamo capito e siamo preparati, oltre che grati della segnalazione. Se intanto qualcuno riesce ancora a guadagnare o ad arricchirsi, si tratta solo di un inopinato, e certamente temporaneo quanto rimediabile, errore dell'empiria rispetto ai superiori paradigmi della filosofia. In attesa dell'apocalisse, l'unica cosa che si potrebbe auspicare è che i guru della retorica antiulivista si prendessero la briga di osservare la realtà, sceverando più precisamente gli accadimenti dalle predizioni. Altrimenti ci si potrebbe formare l'idea di essere di fronte a una fissazione maniacale, una percezione stralunata, una pavloviana inclinazione al tragico. Nei casi peggiori, una sindrome grave di scollamento dalla realtà. Nei casi invece più moderati, a loro modo più «sociali», una tentazione comunque fastidiosa a impartire lezioni, senza tregua, altezzosamente. Che contagia molti, di questi tempi. E che dovrebbe essere neutralizzata dal pensiero che la destra, storicamente è stata il partito del realismo, cioè del principio di realtà, non il partito delle fantasie, per quanto aristocratiche, per quanto snobistiche, per quanto sussiegosamente crudeli.
LA STAMPA, 09.04.1998, TUTTOLIBRI
METAFISICI DESTINI QUESTO E’ IL CATALOGO
È un titolo, «La solitudine dell'ala destra», che solleva echi non proprio misteriosi. Osvaldo Soriano, innanzitutto, dato che ogni giocatore, per motivi inerenti al destino metafisico del calcio, è sempre «solitario y final», con un fondo inevitabile di tristezza sudamericana anche quando (o proprio perché) «pensa con i piedi». Oppure, se si preferisce restare in Europa, si sente un richiamo a Peter Handke, alla solitudine e anzi all'Angst, la paura, l'angoscia inesplicabile del portiere prima del calcio di rigore. Destino metafisico, si diceva. Sì, perché è molto dubitabile che i giocatori esistano empiricamente. Sono piuttosto trasfigurazioni di immagini, realtà che si fissano nella memoria, che continuano a esistere anche dopo il termine della carriera, e questa loro esistenza è dovuta solo a una loro specialità, a qualcosa che ne definisce per sempre, e a furor di popolo, e anche a loro insaputa, l'unicità. Sivori esiste ovviamente per il tunnel, Corso per la foglia morta, Gigi Riva per la devastante potenza del sinistro, Rivera per il «tocco in più» a cui lo consegnò Oreste del Buono: e così via. Fernando Acitelli ha individuato questa specie di magia paranoica del football e dei suoi eroi, consegnandoli a una descrizione che li tramuta poeticamente in stemmi, in icone, in simboli. Simboli di che cosa, boh. Probabilmente simboli, ognuno di loro, di un'ossessione individuale che alla fine si condensa in un tic, li imprigiona in un vizio, li fissa in un'immagine definitiva ed enigmatica, intuibile ma non spiegabile. La solitudine dell'ala destra, non a caso, è una magnifica formula che allude a qualcosa che abbiamo pensato tutti, anche se non sapremmo dire effettivamente che cos'è. Per sfuggire alla solitudine cui è condannata, l'ala destra non ha altra speranza se non di svicolare verso il centro con la finta prodigiosa di Garrincha, o di svolazzare con la felicità di un cardellino come Hamrin. Ma al destino, soprattutto se metafisico, non si sfugge, mai. Ogni calciatore, dal più grande al più piccolo, finirà inevitabilmente in un catalogo: conservato da entomologi strani, che ne ricordano e ne descrivono i comportamenti, le virtù come le pecche, i dribbling e i tackle così come le leziosità e le concessioni al look e alla maniera (ah, quel Bobby Charlton, «Impegnato ad accudire il riporto dei capelli», e quel Roby Baggio, «Talento di raso vestito, palleggio erudito, tocco infinito, fanciullo ferito»: sintesi mimetiche, ma più vere del vero, così come ogni figurina Panini, lo sa benissimo Veltroni, è più autentica del campione o del comprimario che raffigura). Il catalogo di Acitelli consente a tutti noi di commisurare le sue percezioni, le sue memorie e le sue sintesi con le nostre. Mica sempre le memorie e i dettagli collimano. Ognuno, nel calcio, ci vede quello che crede di vedere o di avere visto. Dopo di che, il piacere del confronto, e del ricordo, si rinnova ogni volta, perché così vuole anche il nostro destino.
LA STAMPA, 14.04.1998
SUCCESSO SENZA PADRI
Si capisce bene che la presentazione del Documento di programmazione economica e finanziaria rappresenta un punto di svolta per il governo. Ciò che invece si percepisce meno immediatamente è che il Dpef potrebbe costituire un simultaneo punto di svolta anche per la coalizione di partiti che sostengono l'esecutivo, e di riflesso per tutta la struttura della politica italiana. Come si è visto negli ultimi giorni, dopo la presentazione del Dpef intorno al governo si stanno addensando consensi. Alcuni fisiologici, ma altri, come quelli di Bertinotti o di Cofferati, tutt'altro che scontati. E anche la posizione della Confindustria si è configurata nel segno del possibilismo. Nel prossimo mese il governo godrà di una ventata aggiuntiva di consenso in seguito alla decisione ufficiale d'inizio maggio sulla moneta unica, che coronerà la spettacolare (e fortunata) rincorsa cominciata nel 1996. Anche se raccoglie i frutti di una razionalizzazione dei conti pubblici avviata da Giuliano Amato «approfittando» dall'uragano valutario dell'autunno 1992 e sostanzialmente tenuta dai governi successivi, non c'è alcun dubbio che sul piano simbolico il ministero attuale si qualificherà come il governo che ha reso materialmente possibile un'impresa a suo modo storica. A meno che non si voglia inseguire un radicale accanimento ideologico, negando qualsiasi merito al centrosinistra, si può pensare che il governo ne verrà rafforzato, nell'opinione pubblica oltreché nell'establishment. Scossoni ed elezioni sfumano quindi oltre i confini del probabile. Ed è immaginabile che molti settori della scena pubblica cominceranno a guardare con occhi diversi, e con espressioni migliori, il governo, in quanto perno della stabilità politica ed economica. Già i numeri contenuti nel Dpef sembrano fatti apposta per fare soffiare nelle vele una certa benaugurante brezzolina. Non la crescita impetuosa, e nemmeno estemporanee riduzioni tributarie, niente di clamoroso. Piuttosto, una studiata spintarella fatta di mezzo punticino in meno di tasse, altre razionalizzazioni della spesa pubblica per consentire la spesa per investimenti, previsioni incoraggianti sulla crescita del prodotto lordo, sull'ulteriore abbattimento del deficit, sulla tenuta dell'inflazione e sull'inversione di tendenza per ciò che riguarda l'occupazione. Insomma, è il Dpef del respiro di sollievo dopo la lunga apnea. Ed è anche la certificazione del successo dell'azione di governo. Solo che nel panorama c'è un elemento marcatamente politico che non è ancora stato notato: questo successo è sostanzialmente senza padri. Certo, è figlio dell'azione combinata di Prodi e Ciampi, affiancati da ministri di qualità come Bassanini, Bersani, Visco e altri. Ma l'ingresso nell'Euro e il Dpef dell'attesissima «fase 2» non hanno una vera e chiara paternità politica. Non c'è un partito che possa rivendicare la titolarità dell'exploit europeo. La coalizione di centrosinistra è andata più che altro a rimorchio, e le sue differenze dentro l'alleanza e al suo margine sono state sterilizzate proprio dal vincolo esterno rappresentato dall'obiettivo europeo, oltre che dalla pressione del meccanismo bipolare. Di riflesso si osserva un forte alone di imprecisione politica: non si capisce bene chi sarà il beneficiario del risultato già ottenuto dal governo, e nemmeno chi potrà rivendicare il merito dei non improbabili vantaggi futuri. Manca in definitiva il soggetto che può capitalizzare in modo diretto il dividendo europeo. Per questo ci si può chiedere se effettivamente l'articolazione del centrosinistra sia adeguata alla logica dei processi politici in atto. Perché se l'azionista di riferimento del governo, il Pds, avesse la titolarità di Palazzo Chigi, e si fosse assunto la responsabilità vincolante della gestione del paese, allora le imputazioni sarebbero chiare: ci sarebbe un vincitore, che potrebbe proporsi in quanto tale agli elettori. Ma le cose non stanno così. E anche in futuro D'Alema difficilmente potrà proporsi come candidato alla premiership. Sotto questo profilo allora, è tutto da vedere che la scelta della Cosa 2, con la creazione così lievemente ma irrimediabilmente sovietica dei Democratici di sinistra, sia stata effettivamente adeguata al futuro. Quindi il punto di svolta di Pasqua introduce in realtà nel centrosinistra un dilemma concreto, tutt'altro che futuribile. Cose lontane, si dirà? Forse. Però sappiamo che D'Alema dovrebbe mettersi a lavorare per preparare la propria candidatura come premier. Ma se questa idea non fosse realisticamente attuabile? Ne deriverebbe come conseguenza obbligata che l'unico modo per fruire oggi dell'«effetto Prodi», e domani per presentarsi come un soggetto politico da giudicare sulla qualità dei programmi e delle realizzazioni, consiste nell'allestire una forza politica che ha tutte le caratteristiche del «Partito dell'Ulivo», cioè un partito largo, aperto ma che esprime direttamente la propria politica. È una prospettiva che per D'Alema risulterà irritante, troppo veltroniana, perfino troppo occhettiana. Ma l'alternativa sarebbe restare per l'ennesima volta a metà del guado, con una tecnocrazia che produce il risultato europeo e il partito di maggioranza relativa che deve limitarsi a fare da massa di manovra. Una condizione provvisoria, che non diventa definitiva solo prolungandola. E che non genererà grandi tensioni, ma ha già provocato e provocherà qualche confusione di troppo.
LA STAMPA, 20.04.1998
IL PARTITO ESTREMISTA DEI MODERATI
Senza un repentino colpo di fantasia di Berlusconi, con il congresso di Forza Italia si sarebbe consumata solo una liturgia: priva di drammaticità nelle scelte politiche, dal momento che esiste un solo uomo in grado di sintetizzare la filosofia politico-culturale «azzurra», senza l'ombra di un concorrente; priva di alternative programmatiche, in quanto il decalogo politico-economico di Forza Italia è indiscutibile. C'erano insomma molte premesse affinché il congresso milanese si risolvesse in una cerimonia celebrativa, suoni e luci senza significati. Silvio Berlusconi deve avere colto il rischio dell'inconcludenza, ed è per questo che a metà evento ha sterzato clamorosamente. Si è impadronito del congresso, come solo un vero padrone può fare, ha interrotto il festival piuttosto ripetitivo del liberismo, della sussidiarietà e dello sviluppo, e ha cominciato ad attaccare con inusitata violenza il governo e in particolare Romano Prodi, a parare le risposte e a contrattaccare con sempre maggiore violenza. A quella decisione si può far risalire il momento che ha mutato la pelle politica di Forza Italia. Nasce lì l'ultima invenzione politica di Berlusconi, il «partito estremista dei moderati». Estremista lo è senza dubbio, a giudicare dai messaggi mandati da Milano. I suoi ingredienti sono riassumibili in un rancore da ricettario quarantottesco verso tutto ciò che per Forza Italia rappresenta il male: «le sinistre», l'egemonia comunista sul governo, il governo stesso, la sua politica. Il lievito per sollevare l'entusiasmo militante è dato poi dal sentimento di ribellione indignata per i modi con cui un governo ricattato da Rifondazione comunista ed egemonizzato dal Pds è riuscito a raggiungere l'obiettivo europeo. Ecco quindi la mitologizzazione nostalgica dei sette mesi di governo nel 1994, la profezia nerissima che l'Euro così faticosamente raggiunto sarà sicuramente un inferno per le imprese e i cittadini, ecco la polemica appassionata contro le tasse e le punizioni che i ceti medi verrebbero subendo, ecco le proteste vibranti contro il regime, ossia «l'alleanza cupa di poteri forti e fortissimi che tendono a occupare tutto: scuola, cultura, grande finanza, informazione e magistratura». Non importa qui analizzare la qualità di queste argomentazioni; è utile invece metterne a fuoco l'intensità, perché l'improvvisa radicalizzazione politica di Forza Italia è un passaggio importante. Il congresso di Milano era nato, con l'intervista di Berlusconi a Panorama, per rilanciare Forza Italia come una Democrazia cristiana secolarizzata, un rinato partito delle mediazioni: il perno, complice l'auspicato ritorno alla proporzionale, di un futuro ritorno al pentapartito. Si è trasformato invece nella chiamata a raccolta di un movimento antagonista. È possibile che sia stato proprio l'incontro a caldo con la «gente» di Forza Italia a convincere Berlusconi che il partito «c'era» effettivamente. Tutt'altro che il nulla additato, a torto, e con stile censurabile, da Prodi. Ma bisogna anche considerare che l'esistenza empirica di Forza Italia è uno dei fenomeni più prodigiosi e ad un tempo più effimeri che esistano sul mercato politico. Si tratta di ceti tenuti insieme da «istinti ed esperienze di mercato» (la definizione è di Giuliano Amato), ben più che da una cultura o una fede politica consistente. E quindi è un insieme eterogeneo, a identità debole, incline alle delusioni, che nelle lentezze della politica, senza l'occasione di uno scontro elettorale, rischia di precipitare a «volgo disperso». Questo deve avere capito Berlusconi, e quindi ha scandito il ritmo di una nuova mobilitazione. La festa azzurra in piazza del Duomo, non oceanica ma neanche irrilevante, ha dato un tocco di massa al desiderio di rivincita dei moderati-estremisti, che si sentono ingiustamente espropriati del governo ed esclusi dal potere. Ma quanto può durare una mobilitazione? La fine della legislatura è remota, soprattutto se a qualcuno venisse in mente di fare saltare il tavolo delle riforme, inducendo così la maggioranza di centrosinistra a restare fermamente dov'è per l'intero triennio. Ragionevolmente, non si può fare durare tre anni l'eccitazione innescata a Milano. Si sa che la politica è più pazienza che priapismo. Per Berlusconi dunque la traversata del deserto comincia in realtà adesso, con due anni di ritardo rispetto alla sconfitta elettorale. Ed è una strada più tortuosa di quanto non lascerebbe pensare l'animosità rivelatasi a Milano. L'altra faccia degli attacchi al governo è infatti il sostanziale silenzio su D'Alema. Chi viene riparmiato dal «furor» berlusconiano è l'interlocutore obbligato per le riforme. È probabile allora che nel futuro di Forza Italia assisteremo a un'operazione di alta acrobazia. Vedremo il Berlusconi capo del «partito estremista dei moderati», ostinatissimo e vocale contro il governo. E vedremo il temporeggiatore che cercherà di tenere aperto il canale con l'uomo che potrebbe facilitargli, con la riforma della giustizia, una soluzione ai suoi tormentosi problemi. Vedremo la tensione mobilitante verso l'identità e una strategia silenziosa di contatti e accordi. Insomma, Berlusconi è atteso a un nuovo miracolo politico, riunire in sé l'eroe del 27 marzo e l'oppositore ragionevole, l'uomo di piazza e il frequentatore del Palazzo. Chi volesse scommettere sull'esito dovrebbe sapere che difficilmente i miracoli accadono due volte.
LA STAMPA, 24.04.1998
LA GRANDE RIFORMA DEI MIRACOLI
Le riforme costituzionali servono a tutti anche se non piacciono (quasi) a nessuno. È bastato infatti che si diffondesse fra i partiti la sensazione che il cammino istituzionale stava per interrompersi, che il lavoro della Bicamerale era pronto per essere gettato nel cestino, perché il clima in Parlamento mutasse vistosamente. Con il senno di poi verrebbe perfino la tentazione di dire che l'affondo di Walter Veltroni, che poteva essere distruttivo, ha ottenuto un controeffetto. Il vicepresidente del Consiglio e antagonista di D'Alema aveva fatto notare che l'eventuale fallimento del processo di riforma non avrebbe avuto la minima ripercussione sulla durata del governo e della legislatura, e che in ogni caso la questione della giustizia poteva benissimo essere scorporata dalla Costituzione e regolata con leggi ordinarie. Il fatto è però che se il governo può sopportare senza traumi il collasso delle riforme, e anzi guardare con una certa simpatia al congelamento istituzionale, i protagonisti della fase politica non possono permetterselo. Magari per ragioni «egoistiche», ma proprio non possono. Non se lo può consentire Berlusconi, che non si aspetta certamente da una riforma di sistema la soluzione dei suoi personali problemi giudiziari, ma che da un accordo e da un risultato sulle riforme può vedere rafforzata la sua posizione, e trovarsi circondato da un alone di dignità istituzionale e di solidarietà politica non trascurabile né da parte delle procure né da parte dei giudici. E naturalmente l'inabissamento della Bicamerale non se lo può permettere D'Alema, per almeno due motivi: per una ragione di prestigio, essendo l'uomo politico che più ha investito nella Commissione costituente; e perché l'abbandono delle riforme concentrerebbe tutto il peso dell'equilibrio e della stabilità proprio sul governo, rendendolo insostituibile, intoccabile, vicino all'eternità. Scenario pessimo, per le ambizioni politiche di D'Alema. Il segretario dei Ds è convinto che in futuro spetterà al principale leader della sinistra candidarsi alla guida del governo. Ma per giungere a questo obiettivo, già piuttosto difficile di per sé, ha bisogno come condizione primaria di un quadro istituzionale stabilizzato. Prodi è l'uomo della transizione, D'Alema quello dell'approdo. Se l'approdo si allontana, tutta la sua strategia politica diventa precaria. Tutte le sue scelte, compresa quella della «Cosa 2», diventano discutibili. Allora, dopo il grande sonno che rischiava di diventare una smorta agonia, ecco che il processo riformatore è scattato nuovamente in avanti, dopo il discorso dalemiano «dei 25 minuti». Sono state approvate nuove norme sulle potenzialità autonomistiche delle regioni, e successivamente la spinta federalista della forma di stato ha ripreso un vigore insperato con la riformulazione ex novo del ruolo e delle funzioni del Senato. Ciò che può apparire curioso è che una scelta impegnativa, quella di un federalismo pronunciato, sia avvenuta così, un po' per caso e un po' per necessità, e comunque come il prodotto di contingenze politiche confuse ben più che come coerente progetto istituzionale. Ma è proprio per questo che le decisioni istituzionali degli ultimissimi giorni gettano qualche luce anche sulle vicende di questi giorni, e prospettano conseguenze politiche di un certo rilievo. Se si vogliono stilare classifiche, è indubbio che chi può rivendicare un successo è D'Alema, che è riuscito a ottenere da Berlusconi un atteggiamento molto più possibilista di quanto non fosse emerso prima e durante il congresso di Forza Italia. Inoltre il segretario del Pds è anche riuscito a interrompere il rapporto tra Forza Italia e la Lega, almeno a giudicare dall'asprezza delle reazioni del Carroccio. Ma l'aspetto di sistema forse più importante è che si è creato una specie di nuovo «arco costituzionale», che comprende naturalmente An (e, seppure in una posizione dialettica, anche Rifondazione comunista) mentre porta seccamente la Lega ad autoescludersi. Le questioni che il Parlamento deve ancora affrontare, dalla giustizia allo sbrogliamento del dualismo presidente-premier inventato con il «semipresidenzialismo all'italiana», sono così cospicue da non consentire ottimismi troppo pronunciati. Ma varrebbe la pena che questo nuovo «arco costituzionale» provasse a stringere rapidamente un accordo di fondo sui temi fondamentali. Perché un'occasione come quella attuale difficilmente si ripresenterà: e perderla, dopo averla riacciuffata per un mezzo miracolo, significherebbe sfidare il destino, non solo la logica politica.
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