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LA GRANDE RIFORMA DEI MIRACOLI

24.04.1998
SCONGIURATO IL FALLIMENTO

Le riforme costituzionali servono a tutti anche se non piacciono (quasi) a nessuno. È bastato infatti che si diffondesse fra i partiti la sensazione che il cammino istituzionale stava per interrompersi, che il lavoro della Bicamerale era pronto per essere gettato nel cestino, perché il clima in Parlamento mutasse vistosamente. Con il senno di poi verrebbe perfino la tentazione di dire che l’affondo di Walter Veltroni, che poteva essere distruttivo, ha ottenuto un controeffetto. Il vicepresidente del Consiglio e antagonista di D’Alema aveva fatto notare che l’eventuale fallimento del processo di riforma non avrebbe avuto la minima ripercussione sulla durata del governo e della legislatura, e che in ogni caso la questione della giustizia poteva benissimo essere scorporata dalla Costituzione e regolata con leggi ordinarie. Il fatto è però che se il governo può sopportare senza traumi il collasso delle riforme, e anzi guardare con una certa simpatia al congelamento istituzionale, i protagonisti della fase politica non possono permetterselo. Magari per ragioni «egoistiche», ma proprio non possono. Non se lo può consentire Berlusconi, che non si aspetta certamente da una riforma di sistema la soluzione dei suoi personali problemi giudiziari, ma che da un accordo e da un risultato sulle riforme può vedere rafforzata la sua posizione, e trovarsi circondato da un alone di dignità istituzionale e di solidarietà politica non trascurabile né da parte delle procure né da parte dei giudici. E naturalmente l’inabissamento della Bicamerale non se lo può permettere D’Alema, per almeno due motivi: per una ragione di prestigio, essendo l’uomo politico che più ha investito nella Commissione costituente; e perché l’abbandono delle riforme concentrerebbe tutto il peso dell’equilibrio e della stabilità proprio sul governo, rendendolo insostituibile, intoccabile, vicino all’eternità. Scenario pessimo, per le ambizioni politiche di D’Alema. Il segretario dei Ds è convinto che in futuro spetterà al principale leader della sinistra candidarsi alla guida del governo. Ma per giungere a questo obiettivo, già piuttosto difficile di per sé, ha bisogno come condizione primaria di un quadro istituzionale stabilizzato. Prodi è l’uomo della transizione, D’Alema quello dell’approdo. Se l’approdo si allontana, tutta la sua strategia politica diventa precaria. Tutte le sue scelte, compresa quella della «Cosa 2», diventano discutibili. Allora, dopo il grande sonno che rischiava di diventare una smorta agonia, ecco che il processo riformatore è scattato nuovamente in avanti, dopo il discorso dalemiano «dei 25 minuti». Sono state approvate nuove norme sulle potenzialità autonomistiche delle regioni, e successivamente la spinta federalista della forma di stato ha ripreso un vigore insperato con la riformulazione ex novo del ruolo e delle funzioni del Senato. Ciò che può apparire curioso è che una scelta impegnativa, quella di un federalismo pronunciato, sia avvenuta così, un po’ per caso e un po’ per necessità, e comunque come il prodotto di contingenze politiche confuse ben più che come coerente progetto istituzionale. Ma è proprio per questo che le decisioni istituzionali degli ultimissimi giorni gettano qualche luce anche sulle vicende di questi giorni, e prospettano conseguenze politiche di un certo rilievo. Se si vogliono stilare classifiche, è indubbio che chi può rivendicare un successo è D’Alema, che è riuscito a ottenere da Berlusconi un atteggiamento molto più possibilista di quanto non fosse emerso prima e durante il congresso di Forza Italia. Inoltre il segretario del Pds è anche riuscito a interrompere il rapporto tra Forza Italia e la Lega, almeno a giudicare dall’asprezza delle reazioni del Carroccio. Ma l’aspetto di sistema forse più importante è che si è creato una specie di nuovo «arco costituzionale», che comprende naturalmente An (e, seppure in una posizione dialettica, anche Rifondazione comunista) mentre porta seccamente la Lega ad autoescludersi. Le questioni che il Parlamento deve ancora affrontare, dalla giustizia allo sbrogliamento del dualismo presidente-premier inventato con il «semipresidenzialismo all’italiana», sono così cospicue da non consentire ottimismi troppo pronunciati. Ma varrebbe la pena che questo nuovo «arco costituzionale» provasse a stringere rapidamente un accordo di fondo sui temi fondamentali. Perché un’occasione come quella attuale difficilmente si ripresenterà: e perderla, dopo averla riacciuffata per un mezzo miracolo, significherebbe sfidare il destino, non solo la logica politica.

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