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TANTO PEGGIO PER I FATTI

06.04.1998
LA RETORICA DELLA DESTRA

Non si era nemmeno finito di deprecare il conformismo ulivista che già straripava il conformismo opposto: in assenza di una politica, infatti, la destra si è affidata alla retorica. Cioè a un’idea fissa, a un’ossessione, antigovernativa vivificata dal risentimento politico. È un atteggiamento che viene manifestato di continuo dai leader del Polo, e poi declinato animosamente dalle sue seconde file, articolato dagli intellettuali d’area, diffuso sui giornali dai commentatori schierati (apertamente o no) con il centrodestra. Ne deriva un pensiero davvero «unico», che dilaga nelle fasce sociali più vicine al Polo, nei ceti imprenditoriali e professionali, fino a trasformarsi in senso comune, anzi, in dogma, in articolo di fede, in verità a priori. È un pensiero che oscilla fra il lamento e la profezia luttuosa. Il lamento dice con assiduità disarmante che il traguardo dell’Euro è stato raggiunto sì, ma attraverso maquillage contabile e fiscalità aggiuntiva, cioè trucchi di bilancio e tasse. Che non sono state realizzate riforme realmente strutturali. Che il nostro paese continua a essere avviluppato in lacci e lacciuoli, che non c’è flessibilità, e nemmeno una cultura del mercato, c’è indifferenza per la crescita e per gli strumenti che essa richiederebbe. Il complesso profetico a cui portano inevitabilmente questi ragionamenti è che avremo forse acchiappato per la coda l’Euro, ma ce ne pentiremo amaramente, perché la nostra economia ne verrà strangolata, e naturalmente non potrà salvarsi, come in passato, «con le svalutazioni competitive». Ci vuole la debita gratitudine per questa lezione di macroeconomia, ancorché venga ripetuta con una regolarità imparaticcia e lievemente noiosa. Ma nelle versioni più allucinate, e più aristocraticamente cariche di tragedia, il pensiero unico della destra porta a visioni metafisiche come la contemplazione di plotoni di imprenditori in fuga verso la libertà del sommerso nei Balcani, per sottrarsi alla micidiale stretta del fisco italiano e alla minaccia delle 35 ore. Se attrae tanti adepti, la retorica della destra dev’essere in sé convincente, ma il suo dilagante successo forse non si spiegherebbe se non mettesse in gioco alcuni caratteri socio-antropologici. Se tante persone di ottimo standard culturale soggiacciono in modo così irriflesso alla propensione al vaticinio funesto, vuol dire che all’osservazione empirica si unisce qualcosa di diverso: ai dati e ai numeri si affianca una pervicace mentalità anticomunista (e questo va bene), ma anche la secolare tentazione dell’autodisprezzo elitario, di quella passione per la catastrofe lucidamente prevista (e addirittura auspicata per vedere la conferma della propria lucidità intellettuale) che è l’altra faccia dello scetticismo nazionale. Sta di fatto che dall’autunno del 1996, cioè dal varo della finanziaria «europea», la retorica della destra ha sbagliato tutte le diagnosi e tutte le previsioni. Dico diagnosi e previsioni, ma è inteso che venivano presentate come certezze quintessenziali e preziose. Certezza che l’Ulivo avrebbe fallito l’obiettivo europeo. Dogma che i consumi sarebbero crollati. Articolo di fede per cui l’abbattimento dell’inflazione avrebbe ucciso l’economia. Verità a priori che non si sarebbe assistito alla ripresa della crescita. E via lamentando, e via protestando, con sistematico disprezzo per le verifiche a posteriori. Ora è possibile che la mistica di cui è intriso il Polo impedisca di distinguere la realtà dalle predizioni, e che quindi molti cultori del disastro siano convinti che il disastro è comunque avvenuto, malgrado la cronaca per ora li smentisca. Ma le smentite sono particolari insignificanti rispetto a una grande teoria e a una forte personalità, e quindi, come sempre, «tanto peggio per i fatti». Tanto peggio, insomma, se i consumi non sono crollati, se l’appuntamento con la moneta unica è stato rispettato, se l’economia ha ripreso a crescere a un ritmo significativo, se tutte le grandi imprese hanno ripreso a fare bilanci notevoli, se la struttura produttiva del Centronord sta mantenendo la propria competitività e le aziende stanno facendo profitti a tutto spiano. E tanto peggio per i fatti se la Borsa continua ad attrarre risparmio in modo vertiginoso, addirittura preoccupante, e se grazie a questa ondata di investimenti le società si stanno arricchendo e gli investitori pure. Domani, ovviamente, avverrà la catastrofe: lo abbiamo capito e siamo preparati, oltre che grati della segnalazione. Se intanto qualcuno riesce ancora a guadagnare o ad arricchirsi, si tratta solo di un inopinato, e certamente temporaneo quanto rimediabile, errore dell’empiria rispetto ai superiori paradigmi della filosofia. In attesa dell’apocalisse, l’unica cosa che si potrebbe auspicare è che i guru della retorica antiulivista si prendessero la briga di osservare la realtà, sceverando più precisamente gli accadimenti dalle predizioni. Altrimenti ci si potrebbe formare l’idea di essere di fronte a una fissazione maniacale, una percezione stralunata, una pavloviana inclinazione al tragico. Nei casi peggiori, una sindrome grave di scollamento dalla realtà. Nei casi invece più moderati, a loro modo più «sociali», una tentazione comunque fastidiosa a impartire lezioni, senza tregua, altezzosamente. Che contagia molti, di questi tempi. E che dovrebbe essere neutralizzata dal pensiero che la destra, storicamente è stata il partito del realismo, cioè del principio di realtà, non il partito delle fantasie, per quanto aristocratiche, per quanto snobistiche, per quanto sussiegosamente crudeli.

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