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L’EUROPA ECLISSA IL SENATUR

30.03.1998

Era chiaro che il congresso straordinario della Lega doveva svolgere più che altro una funzione di sostegno all’identità del movimento, in una fase in cui il Carroccio sembra progressivamente escluso da ruoli politici di qualche significato. Ci si aspettava tuttavia qualche indicazione più esplicita, da parte di Bossi, sulla nuova strategia delle alleanze della Lega. Che invece non c’è stata. Si è capito che il nemico principale per i leghisti è la sinistra «nazionalista», ma non sembrerebbe che il rapporto con il Polo, malgrado gli sforzi dell’ambasciatore Tremonti, abbia fatto passi avanti significativi. In compenso, oltre a un nuovo attacco al papa, si è assistito alla bocciatura di una mozione favorevole al nazionalismo padano, che comprendeva un irritante accenno al diritto di «rappresaglia simbolica» contro le iniziative dello Stato. La mozione è stata stroncata da Bossi in persona, che si è preoccupato di chiarire con una certa enfasi che l’azione del Carroccio è dettata solo ed esclusivamente dall’«amore». Per comprendere meglio il congresso leghista è utile collocarlo sullo sfondo dei due principali avvenimenti degli ultimi giorni. In primo luogo la decisione sulla creazione dell’Europa monetaria a undici, cioè un evento di portata storica, destinato ad avere effetti profondi sulla politica continentale; e anche un evento di taglia inevitabilmente minore, il convegno di Parma della Confindustria, che tuttavia ha messo in scena un confronto fra imprenditori e governo dominato da una grande tensione, che ha esposto due linee alternative di politica economica, un dilemma «vero» sul quale si gioca la possibilità italiana di uno sviluppo di qualità effettivamente europea. Di fronte a questi eventi e alle loro implicazioni il congresso della Lega è risultato nettamente ridimensionato. È rimasto il colore delle camicie verdi e dei proclami contro Roma, gli interrogativi su perché Bossi non abbia mai citato la secessione, ma in una desolante assenza della politica. A mano a mano che si chiarisce il rilievo storico della creazione dell’unione monetaria, via via che crescono le aspettative sull’Europa politica, e si intensifica il dibattito sugli strumenti più adeguati per garantire sviluppo, occupazione e competitività, il leghismo mostra tutti i limiti di un movimento territoriale, che cerca di proporre insofferenze e idiosincrasie nordiste come un sistema di pensiero coerente. Con il risultato che mentre l’approfondirsi del processo di unificazione europea sottrae segmenti sempre più ampi di sovranità (a partire da quella sulla moneta), la Lega continua a inseguire il suo piccolo sogno nazionalista ottocentesco, con l’inevitabile contorno di camicie verdi, guardie nazionali, richieste di «devolution» e doppio parlamento, oltre naturalmentente ai soliti gadget provincial-nazionalistici. Ecco allora le dichiarazioni esplicitamente antieuropee, che mettono in luce la qualità esclusivamente reattiva della Lega, la sua carica del tutto anti-istituzionale. Che la configura come un movimento che non ha un progetto per collocare il paese (foss’anche solo un pezzo di paese) nell’Unione, e che quindi può speculare politicamente solo al ribasso, contro l’integrazione europea, contro l’unità nazionale, contro il rifacimento dell’architettura istituzionale, contro politiche nazionali di sviluppo. Ed è per queste considerazioni che riesce difficile continuare a concepire la Lega come il ricettore e l’interprete del «male del Nord». Sarà vero che esiste un disagio nordista, che i numerosi Nord italiani sono soffocati da regolazione intrusiva e imposizione fiscale opprimente, ma a questo punto è illogico pensare che esista automaticamente un canale preferenziale fra la società settentrionale e la Lega, che il male del Nord possa trasferirsi come un torrente in piena nel movimento di Bossi. Le ragioni del successo leghista, cioè in pratica della sua resistenza a dispetto del meccanismo bipolare, non appartengono alla sfera del «disagio» economico e imprenditoriale, ma ad altre dimensioni, caratterizzate dal persistere di un’autoillusione «etnica», da una corrente negata ma sempre attiva di antimeridionalismo, e come mastice collettivo da un’antireligione politica plebeo-protestataria che Bossi è bravissimo a riempire di leggende padane e di geopolitica immaginaria. Quindi sbaglia chi pensa che il Carroccio potrebbe diventare il collettore di tutte le delusioni politiche contemporanee, a partire dagli eventuali contraccolpi dovuti all’adesione alla moneta unica. Non esistono progetti o programmi politici ed economici della Lega; e Bossi non è il portatore di una politica economica alternativa, a cui le imprese possano affidarsi. La Lega rappresenta uno dei vari strati socio-antropologici del Nord, e il suo ruolo politico essenziale potrà esercitarlo soltanto nel momento in cui deciderà di dislocare nuovamente i propri voti in un’alleanza con il Polo. Ma a parte che la riedizione del colpo di fantasia del 1994 è problematico in sé, per fare le coalizioni elettorali, per riunire tutte le destre (centraliste, liberali, federaliste, secessioniste) occorrono precisamente le elezioni, che continuano a essere invisibili. Fino allora, cioè fino a una razionalizzazione politica sperabilmente definitiva, bisognerà accontentarsi delle proposizioni «gandhiane», del folklore, degli attacchi al papa. Con un senso progressivo non più di pericolo padano, o di rischio secessionista, ma soltanto di attesa delusa. Di frustrazione politica. Forse, detto più semplicemente, con il riconoscimento di una inadeguatezza.

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