LA STAMPA
LA STAMPA, 01.05.1998
QUEL CHE RESTA DELLA PENA
Qualcuno dirà che su un principio di civiltà giuridica come quello incorporato nel disegno di legge sull'abolizione dell'ergastolo è giusto che i parlamentari si dividano, come è avvenuto ieri in Senato. Su materie simili non ci sono pregiudiziali di partito: la coscienza è la coscienza. Ma nella realtà quel voto sembra piuttosto un sintomo di disordine, di confusione, di approssimazione. Il ministro della giustizia Flick che annuncia la sua opposizione alla legge «a titolo personale», i Verdi e Rifondazione comunista che insorgono, la maggioranza che si sfilaccia, Rinnovamento italiano che vota contro, le defezioni di coscienza nel centrodestra: che poi il Senato abbia approvato l'abolizione è qualcosa che ha il tono dell'inerzialità piuttosto che quello di una deliberazione convinta e razionale. C'è da preoccuparsi, perché l'abolizione dell'ergastolo non è affatto una misura o una correzione tecnica. È un provvedimento essenzialmente politico, in quanto porta nel Parlamento un tema che contrappone seriamente la classe politica e i cittadini. L'abolizione dell'ergastolo è un tema impopolare, scarsamente condiviso dall'opinione pubblica. Su questo punto, le rappresentanze politiche appaiono all'avanguardia rispetto alla società: da un lato c'è la risonanza emotiva provocata dall'aumento di violenze indiscriminate e di delitti disumani, mentre dall'altro c'è un principio illuministico da portare sul terreno della prassi. Il confronto può essere impari. Ma proprio per il valore culturale di una scelta del genere, non ci si può presentare in aula in ordine sparso, come se se si votasse una leggina qualsiasi. O c'è una chiara divisione fra chi vuole l'abolizione dell'ergastolo e chi invece vuole mantenerlo, e in questo caso sarebbe bene assistere a una bella, franca e civile discussione in Parlamento; oppure siamo in presenza di un'operazione tartufesca, dove chi è contrario all'abrogazione si limita a invocare questioni di opportunità, nel senso che «non si può eliminare l'ergastolo senza avere ridisegnato l'intero sistema delle pene». Con il risultato che un provvedimento importante, che interagisce con il bisogno di sicurezza dei cittadini e con le loro - le nostre - paure, scivola via in pratica senza una paternità politica, senza essere stato oggetto di discussione pubblica, senza avere mobilitato un contraddittorio fra i cittadini. Non ci sarà da sorprendersi allora se in seguito i cittadini medesimi dimostreranno di valutare questo provvedimento, come un tentativo arbitrario di risolvere i problemi della giustizia cominciando dal tetto, con misure più formali che sostanziali, con la solita tecnica di garantire l'eccezionalità anziché assicurare la normalità. Questa sciatteria politica, e istituzionale, produrrà danni ulteriori: e non nell'edificio della giustizia, già reso vacillante dall'alternativa sostanzialmente casuale tra la ferocia e il lassismo, ma piuttosto nella percezione che della giustizia hanno i cittadini comuni. Ai quali sarà difficile spiegare perché è giusto togliere al sistema penale la condanna a vita, quando il disfunzionamento della giustizia consente tutt'al più qualche tipo di punizione dal contenuto più che altro simbolico: la carcerazione preventiva, per chi è implicato in delitti «moderni», e l'ergastolo, per chi commette crimini arcaici. Per questo, l'abbandono di una punizione premoderna come l'ergastolo rischia nei fatti di essere interpretato non tanto come un passo in avanti in termini di civiltà, bensì come un'abdicazione: la rinuncia definitiva all'effettività della pena.
LA STAMPA, 01.06.1998
SITUAZIONE DRAMMATICA MA NON SERIA
La riforma si sta afflosciando, e se le premesse della Bicamerale erano vere dovremmo trovarci a un passo dal dramma. Se il progetto costituzionale era il passaggio essenziale per completare la transizione politica, il ritrovarsi lontani dall'approdo, in piena mareggiata, testimonierebbe il fallimento senza scampo della classe politica che si era assunta questo compito. Dovremmo quindi aspettarci dunque un eccezionale tensione politica, tali da ripercuotersi sulla vita dell'intera nazione. Ma è proprio così? Ci aspetta davvero un incubo? In realtà la riforma si era trasformata da tempo in un tema esclusivo del ceto politico. Per i cittadini la liturgia costituente era un evento astratto e distante. Di conseguenza, più che di dramma sembra il caso di parlare di nevrosi. Il fallimento del progetto costituente scalda tutt'al più l'acquario politico: l'opinione pubblica osserva l'impazzimento dei pesci nell'acqua che bolle, ma non sembra incline a stracciarsi le vesti per la tragedia in corso. Il progetto della Bicamerale ha descritto una lunga parabola. Fino alla sua sommità i partiti e gli schieramenti hanno interpretato la prospettiva di un accordo, anche di qualità discutibile, come migliore rispetto a un fallimento. Si capisce: l'idea della grande riforma era figlia della grande crisi. Essa doveva doveva redistribuire legittimazione politica a tutti i protagonisti, consolidare gli schieramenti, e soprattutto offrire un insieme di regole condivise che avrebbe reso meno minacciosa la vittoria elettorale di uno schieramento sull'altro. Ma, iniziata la fase discendente, l'esito della Bicamerale è cominciato ad apparire come un prodotto di qualità tanto scadente da risultare indifendibile. Il momento che ha svelato la vera natura della Commissione è stato il passaggio da un'ipotesi di premiership al semipresidenzialismo, in seguito al raid leghista. In quel momento si è avuta la sensazione, mai più smentita, che «questo o quello per me pari sono», che una soluzione valeva l'altra: con un discredito sul processo riformatore che non si è mai dileguato. Per ora la cronaca attribuisce a Berlusconi la responsabilità di avere fatto crollare il castello di carte. Ora è chiaro che il capo di Forza Italia ha sparato contro l'accordo con un intento esplicitamente politico: in primo luogo per scardinare l'intesa tra D'Alema e Fini, cioè l'asse fra postcomunisti e postfascisti in cui rischiava di restare intrappolato; ma anche per rimescolare le carte in vista di quel progetto neocentrista che in questo momento fa ruotare spettatori molto interessati, dal cardinale Ruini a Giulio Andreotti, e possibili protagonisti, come Cossiga. Posto di fronte allo strappo, D'Alema ha approfittato della situazione prospettando un seguito per cui cui dovrà essere Berlusconi stesso ad assumersi in Parlamento la responsabilità di silurare le riforme. Ma questa come sempre è tattica, dove D'Alema eccelle, e l'imputazione delle colpe serve a poco. C'è invece da chiarire piuttosto se l'attuale classe politica è in grado di reggere l'urto del fallimento. È indubbio infatti che il prestigio dei maggiori leader riceverebbe un colpo pesante, e che Bossi vedrebbe confermate tutte le sue teorie più apocalittiche. Ma scontato tutto ciò sarà opportuno tenere distinti i piani. Il prezzo della caduta della Bicamerale non può essere la caduta del governo, altrimenti il Polo avrebbe avuto un interesse vitale solo al fallimento delle riforme. Dunque il governo rimane al suo posto e per ora di elezioni non si parla. Quanto alle ipotesi per «rilanciare» il processo costituente, è riemersa ovviamente la vecchia idea dell'assemblea costituente. Come se oggi ci trovassimo davvero ad avere superato un periodo storicamente drammatico, una crisi di regime, e la nazione fosse allo sbando. In realtà convocare oggi l'assemblea costituente è un'idea che risponde al dramma eventuale di una politica che fallisce il suo compito; ma non si addice affatto a un paese che da tempo ha ritrovato ritmi normali dopo le fibrillazioni da Tangentopoli in poi. Molti dei problemi che la Bicamerale doveva risolvere, dal rafforzamento dell'esecutivo alla questione delle garanzie, dalla riarticolazione territoriale dei poteri al federalismo fiscale, possono essere affrontati con leggi ordinarie. Va poi aggiunto che con la riforma mancata evaporerebbe, per il bene di tutti, anche il patto della crostata e relativa legge elettorale regressiva. È un dramma? Infine, e soprattutto, il fallimento della terza Bicamerale dovrebbe insegnare che se le grandi riforme sono illusorie, conviene praticare un processo di adattamento e di correzioni parziali, com'è prassi nei paesi normali. Perché dopo la crisi esplosa nel 1992 abbiamo tutti invocato ipotesi straordinarie e progetti di taglia superiore. Ma dovremmo sapere il primo sintomo del ritorno alla normalità è proprio l'abbandono delle soluzioni eccezionali.
LA STAMPA, 08.06.1998
L’ILLUSIONE DELLO SCHEMA BIPOLARE
Il meccanismo del doppio turno ha prodotto come sempre il suo effetto, e la seconda giornata delle elezioni amministrative ha visto l'esplicarsi di un confronto effettivamente bipolare. La tendenza dei risultati mostra che nei comuni capoluogo di provincia il Polo è in vantaggio, sebbene in presenza di un forte astensionismo. Se ne potrebbe trarre qualche rassicurazione sul funzionamento del sistema politico italiano, se non si intuisse facilmente che il voto di ieri è il riflesso di una situazione politica che per certi aspetti è, se non già superata, in via di potenziale superamento. I risultati politici della consultazione amministrativa erano affiorati piuttosto nettamente due settimane fa. A trattare il voto come un sondaggio nazionale, ignorando quindi tutte le possibili specificità locali, emergeva un rilevante arretramento elettorale del Polo, insieme a un insoddisfacente risultato dell'Ulivo (ma in particolare del Pds), e a un successo inatteso di tutte le componenti centriste, sia nello schieramento di destra sia in quello di sinistra. In quel momento la presunta riaffermazione dello schema bipolare era un'illusione dettata dai primissimi dati; in realtà il risultato del 24 maggio presentava elementi confusi, tutti comunque all'insegna di una profonda frantumazione della rappresentanza politica. Per ora il sistema elettorale riesce ancora a scremare i contendenti del secondo turno in modo sostanzialmente omogeneo con lo schema politico nazionale (la maggioranza dei ballottaggi si svolge con un confronto fra centrodestra e centrosinistra), ma non è detto che in futuro, a cominciare con le elezioni friulane, dove si vota con la proporzionale e i centristi corrono da soli, il modello bipolare possa ragionevolmente tenere. Questa è l'incertezza maggiore che percorre come un brivido la superficie della politica italiana. Fra il primo e il secondo turno di queste amministrative si è afflosciata penosamente la riforma costituzionale, che avrebbe dovuto stabilizzare il sistema bipolare. E non è tutto: numerosi fattori di scomposizione degli schieramenti sono all'opera. A cominciare dalla pressione di Berlusconi, che ha chiesto l'iscrizione di Forza Italia nel Partito popolare europeo, nel tentativo di mettere in tensione l'alleanza «non-europea» dei Popolari italiani con la sinistra; per proseguire con l'aspra polemica che ha coinvolto Franco Marini e i principali esponenti dei Popolari stessi con la gerarchia cattolica (naturalmente Marini sostiene di avere polemizzato con Avvenire, giornale della Cei, e non con l'episcopato, ma la realtà è che i richiami del cardinale Ruini ai valori cattolici, e l'offensiva episcopale sui temi della bioetica e della famiglia, costituiscono un fattore che introduce turbolenza nel centrosinistra, mentre induce il Polo a cavalcare le posizioni della Chiesa sulla fecondazione eterologa e sulle famiglie di fatto. Fatto sta che al centro dell'arco politico si è aperto uno spazio che si presta alla suggestione neocentrista. D'Alema nega sbrigativamente questo fantasma, con il suo seguito di vecchi personaggi politici, possa avere una chance: «non c'è trippa per i gatti», non si sente la mancanza del vecchio centro. Tuttavia l'esorcismo del segretario diessino non può nascondere che non siamo mai stati vicini come adesso alla ricostituzione di un soggetto politico centrista. Manca ancora il meccanismo che può fare scattare il processo di ricostituzione. Ma la previsione più logica, in questo momento, consiste nel dire che è cominciata una corsa parallela. Da una parte si misura la tenuta degli schieramenti, Polo e Ulivo, ed è spontaneo pensare che sia problematica. In particolare, è l'Ulivo a uscire scosso dalle amministrative, mettendo allo scoperto le proprie contraddizioni interne, dividendosi, perdendo una città storicamente di sinistra come Parma. Dall'altra bisogna osservare quali mosse verranno compiute in quell'area di confine che è il centro. Le elezioni di ieri hanno confermato l'idea che un'efficiente legge elettorale tende a rafforzare lo schema bipolare; bisognerà vedere tuttavia quale sarà la volontà effettiva dei partiti, come si muoveranno i protagonisti; e anche quale formula elettorale si sceglieranno, dopo la fine della Bicamerale. Perché l'insegnamento delle ultime amministrative è che la legge elettorale «fa» gli schieramenti; ma quando sono gli schieramenti a fare la legge elettorale, non è detto che la razionalità prevalga sui calcoli di parte.
LA STAMPA, 14.06.1998, SPORT
LE RIFORME DEL GOVERNO (MAL)DINI
Il bipolarismo calcistico era considerato l'unico funzionante. Da Rivera e Mazzola (con l'inconveniente del terzo polo, cioè Mariolino Corso) via via fino a Baggio e Zola, e adesso all'alternativa fra il polo Roby e il polo Alex. Ma a guardare meglio la repubblica del Pallone aveva rivelato le prime degenerazioni consociative già con Valcareggi a Messico 70: a cominciare dal compromesso storico fra Mazzola e Rivera per finire con la «conventio ad excludendum» ai danni del numero 10 milanista contro il Brasile. Tanto è vero che in questi giorni, aspettando il Camerun, i due partiti in contrapposizione non sono i baggisti e i delpieriani: il contrasto è fra i sostenitori dell'incompatibilità e i fautori della convivenza fra i due trequartisti. Noi siamo per la Grosse Koalition, per la solidarietà nazionale, o della nazionale, per un accordo alto e nobile. Mezzeali unitevi. Un conservatore come Maldini penserà che questo equilibrio sia troppo avanzato. Ma se vuole davvero la riforma della nazionale, il citì non può contare solo sul partito degli arbitri, che pure, con il procuratore capo nigeriano Francesco Saverio Boucheardeau, gli hanno effettivamente dato una mano, soprattutto in area. Ci vorrebbe un'operazione Piedi Buoni, ma si sa come vanno queste cose: nel momento della difficoltà, dopo il ribaltone, in attesa della rivincita, prevale la prudenza, arriva il governo di Lamberto. Probabile che Maldini, e sottolineo Dini, agisca con la cautela di ogni esecutivo tecnico: parte Baggio, rimpasto di Del Piero. Ecco l'Inciucio. Il Tridente può attendere.
LA STAMPA, 18.06.1998, TUTTOLIBRI
MA LA GLOBALIZZAZIONE RAFFORZERA’ LA DEMOCRAZIA?
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