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SITUAZIONE DRAMMATICA MA NON SERIA

01.06.1998

La riforma si sta afflosciando, e se le premesse della Bicamerale erano vere dovremmo trovarci a un passo dal dramma. Se il progetto costituzionale era il passaggio essenziale per completare la transizione politica, il ritrovarsi lontani dall’approdo, in piena mareggiata, testimonierebbe il fallimento senza scampo della classe politica che si era assunta questo compito. Dovremmo quindi aspettarci dunque un eccezionale tensione politica, tali da ripercuotersi sulla vita dell’intera nazione. Ma è proprio così? Ci aspetta davvero un incubo? In realtà la riforma si era trasformata da tempo in un tema esclusivo del ceto politico. Per i cittadini la liturgia costituente era un evento astratto e distante. Di conseguenza, più che di dramma sembra il caso di parlare di nevrosi. Il fallimento del progetto costituente scalda tutt’al più l’acquario politico: l’opinione pubblica osserva l’impazzimento dei pesci nell’acqua che bolle, ma non sembra incline a stracciarsi le vesti per la tragedia in corso. Il progetto della Bicamerale ha descritto una lunga parabola. Fino alla sua sommità i partiti e gli schieramenti hanno interpretato la prospettiva di un accordo, anche di qualità discutibile, come migliore rispetto a un fallimento. Si capisce: l’idea della grande riforma era figlia della grande crisi. Essa doveva doveva redistribuire legittimazione politica a tutti i protagonisti, consolidare gli schieramenti, e soprattutto offrire un insieme di regole condivise che avrebbe reso meno minacciosa la vittoria elettorale di uno schieramento sull’altro. Ma, iniziata la fase discendente, l’esito della Bicamerale è cominciato ad apparire come un prodotto di qualità tanto scadente da risultare indifendibile. Il momento che ha svelato la vera natura della Commissione è stato il passaggio da un’ipotesi di premiership al semipresidenzialismo, in seguito al raid leghista. In quel momento si è avuta la sensazione, mai più smentita, che «questo o quello per me pari sono», che una soluzione valeva l’altra: con un discredito sul processo riformatore che non si è mai dileguato. Per ora la cronaca attribuisce a Berlusconi la responsabilità di avere fatto crollare il castello di carte. Ora è chiaro che il capo di Forza Italia ha sparato contro l’accordo con un intento esplicitamente politico: in primo luogo per scardinare l’intesa tra D’Alema e Fini, cioè l’asse fra postcomunisti e postfascisti in cui rischiava di restare intrappolato; ma anche per rimescolare le carte in vista di quel progetto neocentrista che in questo momento fa ruotare spettatori molto interessati, dal cardinale Ruini a Giulio Andreotti, e possibili protagonisti, come Cossiga. Posto di fronte allo strappo, D’Alema ha approfittato della situazione prospettando un seguito per cui cui dovrà essere Berlusconi stesso ad assumersi in Parlamento la responsabilità di silurare le riforme. Ma questa come sempre è tattica, dove D’Alema eccelle, e l’imputazione delle colpe serve a poco. C’è invece da chiarire piuttosto se l’attuale classe politica è in grado di reggere l’urto del fallimento. È indubbio infatti che il prestigio dei maggiori leader riceverebbe un colpo pesante, e che Bossi vedrebbe confermate tutte le sue teorie più apocalittiche. Ma scontato tutto ciò sarà opportuno tenere distinti i piani. Il prezzo della caduta della Bicamerale non può essere la caduta del governo, altrimenti il Polo avrebbe avuto un interesse vitale solo al fallimento delle riforme. Dunque il governo rimane al suo posto e per ora di elezioni non si parla. Quanto alle ipotesi per «rilanciare» il processo costituente, è riemersa ovviamente la vecchia idea dell’assemblea costituente. Come se oggi ci trovassimo davvero ad avere superato un periodo storicamente drammatico, una crisi di regime, e la nazione fosse allo sbando. In realtà convocare oggi l’assemblea costituente è un’idea che risponde al dramma eventuale di una politica che fallisce il suo compito; ma non si addice affatto a un paese che da tempo ha ritrovato ritmi normali dopo le fibrillazioni da Tangentopoli in poi. Molti dei problemi che la Bicamerale doveva risolvere, dal rafforzamento dell’esecutivo alla questione delle garanzie, dalla riarticolazione territoriale dei poteri al federalismo fiscale, possono essere affrontati con leggi ordinarie. Va poi aggiunto che con la riforma mancata evaporerebbe, per il bene di tutti, anche il patto della crostata e relativa legge elettorale regressiva. È un dramma? Infine, e soprattutto, il fallimento della terza Bicamerale dovrebbe insegnare che se le grandi riforme sono illusorie, conviene praticare un processo di adattamento e di correzioni parziali, com’è prassi nei paesi normali. Perché dopo la crisi esplosa nel 1992 abbiamo tutti invocato ipotesi straordinarie e progetti di taglia superiore. Ma dovremmo sapere il primo sintomo del ritorno alla normalità è proprio l’abbandono delle soluzioni eccezionali.

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