gli articoli LA STAMPA/

MA NON SIA UNO SCAMBIO

15.03.1998

Fin dall’inizio del suo mandato Luciano Violante ha riaperto i libri di storia e ha cominciato a parlare della necessità di una riconciliazione nazionale da Salò in poi. Dal canto suo, già a Fiuggi Gianfranco Fini aveva riconosciuto il ruolo liberatore dell’antifascismo non comunista. C’è evidentemente una convenienza reciproca che ex comunisti ed ex fascisti intravedono nella ricucitura della memoria. La determinazione con cui a destra e a sinistra si dichiara di volere discutere certe pagine censurate mostra la necessità, per i partiti eredi di quella storia e di quelle tragedie, di inseguire ancora oggi alcuni frammenti di legittimazione di cui sembrano sentire ancora la mancanza. È vero che oggi una riconciliazione definitiva rappresenterebbe un’autentica risorsa culturale, politica e morale per tutto il paese. Riconosciuto questo, sarà però opportuno anche rilevare che il lavoro di sutura storica così alacremente avviato propende fastidiosamente a diventare una faccenda esclusiva di ex comunisti ed ex fascisti. Sembra insomma che le pratiche della riconciliazione debbano essere sbrigate con un accordo post-ideologico fra ex, nel fragoroso silenzio degli altri, cattolici, laici, liberali, cioè di tutti coloro che hanno avuto l’ottima idea di non essere stati né comunisti né fascisti. Anche ieri, oltretutto, Fini ha rivendicato la frase con cui nella conferenza programmatica di Firenze aveva sostanzialmente messo sullo stesso piano gli ebrei deportati e gli italiani «infoibati». È un’espressione infelice, che sottintende uno schema storico altrettanto infelice, e ripeterla non la migliora, nonostante le puntigliose spiegazioni filologiche del leader di An. Infatti essa sintetizza un dibattito che si è abituato a esporre da un lato gli orrori di destra e dall’altro il libro nero del comunismo. E che non vede altro. Sicché ognuno è pronto ad ammettere qualcosa se può «serenamente» rinfacciare qualcosa alla controparte. In modo che ogni tragedia e ogni orrore vengono relativizzati. Sembra insomma che un intero problema storico e civile venga risolto alla fine con un do ut des fra gli eredi di coloro che ne furono i protagonisti estremi: con l’ammissione bilanciata degli orrori, e ciascuno riconoscendo certe ragioni dell’altro. Mentre in realtà la discussione storica e politica, e insieme la piena legittimazione dei soggetti in campo, non dovrebbero avvenire in questo modo. Malgrado tutto, c’è ancora bisogno di con tinue prove di qualità democratica, e questa va dimostrata non con le trasandate dichiarazioni fondate sulla prassi a cui siamo stati abituati («siamo democratici da decenni»); bensì con un’applicazione strenua dei principi di riferimento della democrazia liberale: cioè criteri da applicare in ogni ambito della vita pubblica e anche, senza sentimentalismi, in modo vincolante, nei confronti della storia.

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