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SUCCESSO SENZA PADRI

14.04.1998

Si capisce bene che la presentazione del Documento di programmazione economica e finanziaria rappresenta un punto di svolta per il governo. Ciò che invece si percepisce meno immediatamente è che il Dpef potrebbe costituire un simultaneo punto di svolta anche per la coalizione di partiti che sostengono l’esecutivo, e di riflesso per tutta la struttura della politica italiana. Come si è visto negli ultimi giorni, dopo la presentazione del Dpef intorno al governo si stanno addensando consensi. Alcuni fisiologici, ma altri, come quelli di Bertinotti o di Cofferati, tutt’altro che scontati. E anche la posizione della Confindustria si è configurata nel segno del possibilismo. Nel prossimo mese il governo godrà di una ventata aggiuntiva di consenso in seguito alla decisione ufficiale d’inizio maggio sulla moneta unica, che coronerà la spettacolare (e fortunata) rincorsa cominciata nel 1996. Anche se raccoglie i frutti di una razionalizzazione dei conti pubblici avviata da Giuliano Amato «approfittando» dall’uragano valutario dell’autunno 1992 e sostanzialmente tenuta dai governi successivi, non c’è alcun dubbio che sul piano simbolico il ministero attuale si qualificherà come il governo che ha reso materialmente possibile un’impresa a suo modo storica. A meno che non si voglia inseguire un radicale accanimento ideologico, negando qualsiasi merito al centrosinistra, si può pensare che il governo ne verrà rafforzato, nell’opinione pubblica oltreché nell’establishment. Scossoni ed elezioni sfumano quindi oltre i confini del probabile. Ed è immaginabile che molti settori della scena pubblica cominceranno a guardare con occhi diversi, e con espressioni migliori, il governo, in quanto perno della stabilità politica ed economica. Già i numeri contenuti nel Dpef sembrano fatti apposta per fare soffiare nelle vele una certa benaugurante brezzolina. Non la crescita impetuosa, e nemmeno estemporanee riduzioni tributarie, niente di clamoroso. Piuttosto, una studiata spintarella fatta di mezzo punticino in meno di tasse, altre razionalizzazioni della spesa pubblica per consentire la spesa per investimenti, previsioni incoraggianti sulla crescita del prodotto lordo, sull’ulteriore abbattimento del deficit, sulla tenuta dell’inflazione e sull’inversione di tendenza per ciò che riguarda l’occupazione. Insomma, è il Dpef del respiro di sollievo dopo la lunga apnea. Ed è anche la certificazione del successo dell’azione di governo. Solo che nel panorama c’è un elemento marcatamente politico che non è ancora stato notato: questo successo è sostanzialmente senza padri. Certo, è figlio dell’azione combinata di Prodi e Ciampi, affiancati da ministri di qualità come Bassanini, Bersani, Visco e altri. Ma l’ingresso nell’Euro e il Dpef dell’attesissima «fase 2» non hanno una vera e chiara paternità politica. Non c’è un partito che possa rivendicare la titolarità dell’exploit europeo. La coalizione di centrosinistra è andata più che altro a rimorchio, e le sue differenze dentro l’alleanza e al suo margine sono state sterilizzate proprio dal vincolo esterno rappresentato dall’obiettivo europeo, oltre che dalla pressione del meccanismo bipolare. Di riflesso si osserva un forte alone di imprecisione politica: non si capisce bene chi sarà il beneficiario del risultato già ottenuto dal governo, e nemmeno chi potrà rivendicare il merito dei non improbabili vantaggi futuri. Manca in definitiva il soggetto che può capitalizzare in modo diretto il dividendo europeo. Per questo ci si può chiedere se effettivamente l’articolazione del centrosinistra sia adeguata alla logica dei processi politici in atto. Perché se l’azionista di riferimento del governo, il Pds, avesse la titolarità di Palazzo Chigi, e si fosse assunto la responsabilità vincolante della gestione del paese, allora le imputazioni sarebbero chiare: ci sarebbe un vincitore, che potrebbe proporsi in quanto tale agli elettori. Ma le cose non stanno così. E anche in futuro D’Alema difficilmente potrà proporsi come candidato alla premiership. Sotto questo profilo allora, è tutto da vedere che la scelta della Cosa 2, con la creazione così lievemente ma irrimediabilmente sovietica dei Democratici di sinistra, sia stata effettivamente adeguata al futuro. Quindi il punto di svolta di Pasqua introduce in realtà nel centrosinistra un dilemma concreto, tutt’altro che futuribile. Cose lontane, si dirà? Forse. Però sappiamo che D’Alema dovrebbe mettersi a lavorare per preparare la propria candidatura come premier. Ma se questa idea non fosse realisticamente attuabile? Ne deriverebbe come conseguenza obbligata che l’unico modo per fruire oggi dell’«effetto Prodi», e domani per presentarsi come un soggetto politico da giudicare sulla qualità dei programmi e delle realizzazioni, consiste nell’allestire una forza politica che ha tutte le caratteristiche del «Partito dell’Ulivo», cioè un partito largo, aperto ma che esprime direttamente la propria politica. È una prospettiva che per D’Alema risulterà irritante, troppo veltroniana, perfino troppo occhettiana. Ma l’alternativa sarebbe restare per l’ennesima volta a metà del guado, con una tecnocrazia che produce il risultato europeo e il partito di maggioranza relativa che deve limitarsi a fare da massa di manovra. Una condizione provvisoria, che non diventa definitiva solo prolungandola. E che non genererà grandi tensioni, ma ha già provocato e provocherà qualche confusione di troppo.

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