788 risultati per in "L'Espresso"
L'Espresso, 02.12.2005
Eterna promessa Pier
Alla fine Pier Ferdinando rimpiangerà il gemello Marco. Perché Casini aveva una chance fintanto che Follini teneva aperta un'ipotesi che andasse "oltre" il Polo, oltre la Casa, oltre la destra. Perché erano le spine folliniane nel fianco di Berlusconi a segnalare la diversità democristiana. Tolto di mezzo l'ex allievo di Toni Bisaglia, il "moro-doroteo" Follini, l'Udc si ingarbuglia in una ragnatela di tessere: l'alternativa a Berlusconi appare una finzione, un altro di quegli illusionismi che Casini all'Eur ha rimproverato a chissà chi, non certo al Cavaliere orgoglioso di avere governato per cinque anni «nonostante Follini e compagnia bella» (quando si dice la bontà e l'eleganza). Un peccato, perché senza il suo alter ego calvo e occhialuto il presidente della Camera risulta essere semplicemente il capo di un partitino che ha tenuto il sacco a Berlusconi, votando le leggi-canaglia e contribuendo alla riforma-accozzaglia della Costituzione. Stanno portando a casa, gli Udc, una legge elettorale da fritto misto, che comunque poteva essere l'occasione per "smarcarsi", come dicono loro, e lanciare la corsa alla premiership, se Casini possedesse la fulminea capacità di approfittare delle opportunità, il senso sulfureo della perfetta ingratitudine con cui si salutano crudelmente i vecchi campioni al tramonto. Invece Casini ha come dote principale la pazienza, somma qualità dorotea ma dote irrilevante allorché si tratta di curvare la storia e di esercitare il carisma, o almeno di spingere dentro la palla gol. Come dicevano i vecchi aficionados del Comunale di Bologna, è «brào ma lento»: ha accettato l'attacco a tre punte, Gianfranco, Pierferdy, Silvio, ma con l'idea che ciò che conta è la tessitura a centrocampo, passaggi laterali, senza lamentarsi se ci sarà da arretrare in un'oscura fatica, come diceva il mediano Forlani, di "raccordo". Come risultato, dopo quattro anni e mezzo di allure istituzionale il capo dell'Udc si è rimesso la maglietta di capitano. Solo che alla prima promettente ripartenza sulla fascia («Non ho detto che avrei governato meglio, l'ho solo pensato»), gli è arrivato sulle tibie il takle del Padrone, e Casini è ripiegato prudenzialmente a centrocampo. Sarà per un'altra volta. Per adesso coltiva l'orticello di un rapporto privilegiato con la gerarchia vaticana, dove i Ruini e i Sodano lo trattano con l'affetto per i vecchi ragazzi di sagrestia, e guardano all'Udc come a un'utile cinghietta di trasmissione della Chiesa. Sullo sfondo, miraggi elettorali freddamente smentiti da Berlusconi («l'Udc è sotto il 4 per cento»), ipotesi quirinalizie sottoposte ai calcoli del Cavaliere, la fiducia che il vantaggio generazionale si farà sentire al momento buono. Ma nell'ora del ricambio ci vorrà la perfidia tenace del «carognitt de l'oratori», come lo chiamava con sarcasmo Umberto Bossi, e chissà se Pier Ferdinando ce l'ha ancora: il suo rivale Fini svolazza nei cieli della politica estera, spesso non capendoci niente ma con grande autorevolezza al cospetto delle nonne; Casini sembra pensare che, come per la Dc, l'eternità sia il destino dell'Udc. Ma di partiti neo-dc ce ne sono già troppi, quindi quell'eternità va divisa perlomeno in quattro: e il tempo passa, scivolano via le legislature, e anche Pier Ferdinando rischia fatalmente di passare, eterna promessa, eterna incompiuta.
L'Espresso, 11.08.2005
Bjorn Larsson
D La vita di Inga Andersonn, ricercatrice di criminologia, nasconde un segreto. Da una parte braccati da Echelon, l'orecchio che ascolta le nostre conversazioni ovunque, dall'altra sedotti da Scientology, la setta americana che promette di farci evolvere verso la felicità. Bjorn Larsonn (che il pubblico italiano ha amato per "La vera storia del pirata Long John Silver") ne "Il segreto di Inga" (Iperborea) al gusto per il thriller unisce profondità esistenziale. Chi sono i suoi personaggi? E come si arriva alla verità? R I miei sono personaggi senza radici, non hanno un'identità fissa, famiglia, nazionalità. Per quel che riguarda la verità ci si può arrivare con l'immaginazione e con la scienza. Ma lo scrittore non può fare concorrenza al giornalista. D Nel suo romanzo lei cita Echelon. Ma anche le sette. Cosa hanno in comune? R Il fatto che non si sappia bene chi le controlla. Dietro c'è sempre un segreto. E questo segreto è fondamentale per la loro sopravvivenza. Peccato che limiti la nostra libertà. L'alternativa è la trasparenza, la fiducia. Ma non è possibile nel caso del potere. Che deve mantenere un nocciolo duro di struttura segreta per poter difendersi. Antonella Fiori
L'Espresso, 19.05.2005
Floris è meglio di Masotti
Che differenza c'è fra due programmi di approfondimento come "Ballarò" e "Punto e a capo"? Vabbé, è chiaro che il programma di Giovanni Floris è un manifesto della sinistra modernizzante e un po' trendy, mentre il talk show di Giovanni Masotti è un programma marcatamente di destra e un po' folk. Ma per capire qualcosa di più, sono state utili due puntate di "Menabò", un programma di inside redazional-giornalistico su Raisat Extra (autori Marco Giudici, Nino Pirito, Lupo Tomasin). Naturalmente la trasmissione risulta curiosa perché è curiosa: fa vedere come viene fabbricato un giornale o un programma tv. Di "Ballarò" si capisce tutto subito, perché Floris espone l'ideologia del prodotto: «Ragazzi, le puntate politiche sono tutte parole, quindi più ospiti ci sono meglio è». Significa che non si può vivere di sola chiacchiera: il talk show ha bisogno di essere innervato di notizie, di contributi concreti, «vi ricordate Nando Pagnoncelli, la sua analisi dava forza al programma». In altre occasioni "Menabò" era stato divertente perché mostrava una redazione gestita dalla sapienza del direttore (formidabile una puntata dedicata al "Magazine" del "Corriere della Sera", con Maria Luisa Agnese al suo meglio). Floris a sua volta è il capofila di un giornalismo moderno, come aveva mostrato anche in un libro di un anno fa, "Una cosa di (centro) sinistra", attento a riempire di fatti la sequenza prevedibile del talk show. Masotti invece è più tradizionale. Cravatta allentata da giornalista vero, dubbi profondi sull'impianto della puntata: crisi di governo, elezione del papa, doping, non si sa che cosa scegliere. Clima convenzionale, da giornalismo più manifestamente cinicone, tipo «sempre meglio che lavorare», anche se poi quando in redazione guardano l'annuncio dell'elezione di Benedetto XVI qualcuno esulta facendo i pugni come allo stadio (e Masotti commenta con aria ammiccante una vignetta di Giorgio Forattini che unisce il nuovo papa a un missile in partenza: «Avete capito, Ratzinger, il razzo»). Inutile chiedere se è meglio Floris o Masotti. Noi non siamo gente credibile essendo di quelli che «vomitano bile» sul centrodestra. Ma anche da "Menabò" viene fuori che il programma di Raitre sembra più fresco, più pensato con l'occhio rivolto al pubblico anziché alla politica.
L'Espresso, 10.09.2009
David il genio
Abbiamo parlato diverse volte dello show di David Letterman, abbandonato dalla Rai e ripescato ora da Sky Uno. Quindi rischiamo di ripeterci. Ma dopo l'esibizione di Paul McCartney, "inventata" da Letterman alla sua maniera, c'era da restare davvero ammirati. E quindi eccoci qua, di nuovo, alle prese con l'eterno Letterman. Il "Late Show" va in onda dallo studio che fu di Ed Sullivan, dove più di quarant'anni fa i Beatles esordirono in America. Letterman non si è accontentato di ospitare McCartney, ma lo ha indotto gentilmente a esibirsi con la sua band dalla terrazza dello studio. Nella strada sotto si erano radunate nel frattempo centinaia di persone, come era avvenuto in una delle ultime storiche performance londinesi dei Beatles. Ecco quindi il genio di Letterman. Si prende un protagonista e lo si consegna al pubblico, per vedere l'effetto che fa. Paul McCartney non è un talento della comunicazione, e si è limitato a cantare due canzoni. Una era "Get Back", un celeberrimo rocchettino dei Beatles; l'altra una mediocre canzone della sua successiva carriera, lunga e spesso trascurabile. Ma il punto è la costruzione dello spettacolo, quella combinazione di improvvisazione finta e di preparazione vera in cui Letterman è un maestro. Tale quindi da far perdonare un certo appannamento, di recente, nelle battute, una qualche ripetitività nell'umorismo della "Top Ten List". Più invecchia e più Letterman diventa situazionista. Forse non c'è un altro show televisivo al mondo in cui avviene ciò che avviene al Late Show. Lo si può guardare anche per caso, senza impegno, se capita: sapendo che comunque qualcosa succederà.
L'Espresso, 02.08.2007
Più candidati più Prodi
Romano Prodi lo aveva detto tre settimane fa che i giochi per la leadership del Partito democratico non erano già fatti: «C'è spazio per candidati, programmi, liste e progetti». E dire che in quel momento Walter Veltroni sembrava già insediato, o già plebiscitato, anche se non era ben chiaro da chi. Da D'Alema e Marini con la tutela di Fassino. Dalla volontà collettiva. Dalla paura di vedere la sinistra dissolversi, com'era accaduto al Nord con le amministrative. In ogni caso il sentimento generale appariva chiarissimo: era meglio non disturbare la corsa del sindaco di Roma, agevolarne la campagna in modo da renderla praticamente un passeggiata, darsi un appuntamento senza fisime "democraticistiche" alla data del 14 ottobre, il gran giorno dell'assemblea costituente del nuovo partito e procedere alla beatificazione di san Walter. C'era qualche ragione plausibile per trasformare una scelta politica in una designazione dall'alto? In effetti l'invito a Veltroni a rimettersi in gioco nella politica nazionale era avvenuto in uno dei momenti di massima crisi di consenso del governo, con i sondaggi a picco e la popolarità di Prodi al minimo, e Veltroni veniva individuato come l'ultima carta possibile per rifare il maquillage al centrosinistra e ridargli un appeal pubblico. Per questa ragione Piero Fassino invitava tutti i possibili contendenti a non rompere «l'unità riformista», senza preoccuparsi della infelice sonorità dell'espressione. Certo, in questo modo si ammainava la bandiera di almeno un possibile altro candidato forte, quella di Pier Luigi Bersani, l'uomo del riformismo liberalizzatore e della crescita, vicino alle imprese e all'economia, capace di parlare agli establishment confindustriali e alle categorie. Si è trattato di una perdita secca: può darsi che con la sua rinuncia, concessa per evitare «il disorientamento del nostro popolo», Bersani abbia anche abdicato a funzioni di leadership in futuro. Inoltre non risultava particolarmente elegante o attraente che si desse per già definito il ticket veltroniano, con l'autodesignazione di Dario Franceschini nel ruolo di numero due. E nemmeno che la "fusione fredda" di Ds e Margherita avvenisse come una manovra decisa al vertice, con il rischio incombente di una serie di liste collegate al leader predesignato (una specie di riedizione postmoderna del centralismo democratico incrociato con il correntismo democristiano). Tanto più che l'incoronazione di re Walter avrebbe presumibilmente marginalizzato il governo, e ridotto Prodi al rango di amministratore delegato, se non di curatore fallimentare, della coalizione, in attesa di essere sostituito al primo rilancio politico del centrosinistra. Va da sé infatti che nel momento dell'insediamento di Veltroni come leader del Pd, sarebbe cominciata anche la sua campagna politica per recuperare il favore dell'elettorato. Con un "fresh start" come i democratici americani dopo l'era Clinton, e magari una "rupture" alla Sarkozy, per riprendere credibilità, consenso e potenzialità elettorali. Il governo sarebbe diventato un esecutivo a termine, in attesa di un nuovo confronto politico ed elettorale con il centrodestra da giocare con modalità nuove e non del tutto prevedibili, ma puntando sulla freschezza politica del veltronismo. È cambiato qualcosa? Almeno a sentire l'ambiente di Palazzo Chigi il cambiamento è netto: con l'ingresso in campo di due figure come Rosy Bindi e Enrico Letta i giochi si fanno meno scontati. Non tanto perché viene messo in discussione il risultato finale (naturalmente Veltroni è sempre il favorito), ma perché dovrebbe aprirsi una competizione, muoversi il dibattito, cominciare un confronto: ed è verosimile che in questo scenario più mosso il governo guadagni tempo. Il mese di campagna per le primarie potrebbe occupare una buona parte dello spazio mediatico; un risultato non "bulgaro" del voto dei simpatizzanti del Pd metterebbe Veltroni e Prodi in un rapporto più equilibrato. Ma l'effetto di primarie autentiche sarà ancora più evidente nell'opinione pubblica perché metterà a confronto ispirazioni culturali diverse: è vero che nel discorso torinese del Lingotto Veltroni è stato onnicomprensivo per saturare l'orizzonte politico della nuova ideologia "democratica". Tuttavia l'apparizione della combattiva Bindi (donna, non romana, non socialista, non ex comunista) arricchisce il dibattito portando nell'arena del Pd temi che appartengono tradizionalmente alla storia del cattolicesimo democratico; e l'ingresso in campo del quarantenne «post-ideologico» Letta propone un'ipotesi tipicamente liberal-riformista, agganciata alla realtà dei settori produttivi, in grado di dialogare con i ceti delle aree più sviluppate del paese. E in aggiunta Letta è dotato di una rete di rapporti coltivata fin dai tempi in cui era il ragazzo di bottega di Nino Andreatta nel centro studi dell'Arel, ed è portatore di una visione riformista di matrice europea, maturata nella sua formazione e a contatto con gli ambienti istituzionali della Ue. In sostanza, il Partito democratico "a corsa multipla" ha l'aspetto di un partito visibilmente meno finto di quanto non apparisse dopo i due congressi finali dei Ds e della Margherita. C'è un leader in pectore, Veltroni, che al di là dell'impianto della sua proposta si candida come un possibile miglior regista della coalizione, dall'Udeur a Rifondazione comunista. Enrico Letta è l'esponente di un riequilibrio riformista dell'alleanza, e l'interprete di un mondo che Veltroni conosce meno (anche se non è da sottovalutare il quasi endorsement di Luca Cordero di Montezemolo, a testimonianza che la concezione veltroniana della politica può attrarre le élite più attente al glamour "postmaterialista" e alla comunicazione). Rosy Bindi introduce una forte componente "di genere" e un'istanza di laicità sperimentata con determinazione e duttilità all'epoca della proposta di legge sui Dico. Insomma non è a priori una competizione artificiosa, e il partito può non essere un prodotto artificiale. Degli altri cinque candidati, Furio Colombo rappresenta una testimonianza antiberlusconiana, un pezzetto dell'eredità girotondina. Quanto a Marco Pannella, la sua autocandidatura, rigettata dall'ufficio di presidenza, rappresentava una provocazione al Pd, non del tutto superflua ma funzionale più al leader radicale che alle sorti del Partito democratico. I candidati eccentrici (il rappresentante delle comunità montane Lucio Cangini, il blogger ex capo dei giovani del Ppi Mario Adinolfi, l'esperto di finanza etica Jacopo Gavazzoli Schettini) rappresentano quel tanto di personalismo volontaristico che si manifesta nelle gare aperte. Un po' di folklore, un po' di civismo, un'opportunità di guadagnare la scena per qualche settimana. Ma è chiaro che in questo momento la posta in gioco riguarda la configurazione del Pd e il suo ruolo all'interno dell'Unione. Va considerato che il partito nascituro è una formazione largamente eclettica, pochissimo ideologica, scarsamente omogenea sul piano culturale. Il suo format politico deriverà in buona misura dai rapporti di forza tra le personalità al suo interno. E il punto forse decisivo della sua azione dipenderà dal ruolo che il Pd assumerà in relazione al discrimine più critico interno al centrosinistra, e cioè alla linea di attrito fra sinistra liberale e sinistra radicale. Per ora, sotto l'ombrello veltroniano si sono manifestate linee divergenti: da un lato un progetto di continuità, ossia il tentativo di tenere sotto lo stesso tetto governativo l'intera Unione attuale; dall'altro, l'ipotesi enunciata nel "manifesto dei coraggiosi" promosso da Francesco Rutelli, vale a dire la suggestione di alleanze «di nuovo conio» se il rapporto con la sinistra comunista dovesse portare definitivamente all'impasse l'iniziativa del governo. È questo il terreno su cui si misureranno concretamente tutti i protagonisti dell'avventura "democrat", dai candidati principali alle figure di confine come Lamberto Dini, a partire dalla legge finanziaria ma più in generale sulle scelte di sistema: il che, in pratica, vuol dire la posizione che i protagonisti assumeranno sul referendum elettorale di Segni e Guzzetta o su una legge elettorale alternativa. Infatti mentre c'è una componente del Pd che ha appoggiato esplicitamente il referendum, da Letta alla Bindi ad Arturo Parisi (con la posizione laterale di Veltroni, appoggio senza firma), sono già in corso le manovre per un sistema elettorale molto più morbido: Fassino ha aperto la strada al modello tedesco, che trova consensi anche nel centrodestra (Berlusconi e Casini). Agli occhi dei più critici, in primis Parisi, si tratterebbe di un grave passo indietro, che favorirebbe il ritorno ad alleanze a geometria variabile, con la fine dello schema bipolare e la costituzione di rendite di posizione al centro. Forse il chiarimento preventivo andrebbe praticato su questo tema: perché sarebbe piuttosto singolare assistere all'impegno dei tre principali candidati del Pd a favore di un referendum che tende al bipartitismo mentre sullo sfondo i partiti contrattano la proporzionale.
L'Espresso, 10.04.2003
Il divoorzio breve nellla Casa delle libertà
Sono passati sedici anni da quando la legge sul divorzio fu modificata, portando da cinque a tre gli anni che devono passare fra la separazione e il divorzio stesso. Dal 1987 a oggi, cioè da quando la riduzione del periodo di attesa venne approvata (con il voto favorevole della Dc), la società italiana ha vissuto una specie di rivoluzione, nei valori, nel costume, nelle abitudini. Quindi, l'ulteriore modificazione, avanzata dalla parlamentare ds Elena Montecchi, che riduce a un anno il periodo fra separazione e divorzio, ha l'aspetto di una semplice iniziativa di adattamento delle norme alla realtà e alle esigenze delle persone. Tutti i motivi che vengono segnalati a favore del nuovo intervento legislativo appaiono ispirati alla ragionevolezza: la durata teorica dei tre anni di attesa si allunga a dismisura nella prassi, fino a toccare i sei-otto anni; le coppie disintegrate sono costrette a sopportare il peso di una sofferenza psicologica e materiale che nel caso della parte generalmente più debole, le donne, si può tradurre in ingiustizie e autentiche vessazioni; i labirinti burocratici impediscono la stabilizzazione delle nuove coppie formatesi dopo la separazione, e i ritardi si ripercuotono in modo umanamente critico sulla possibilità di avere figli nell'ambito di una nuova unione civilmente regolata. Tutto ciò considerato, è ovvio auspicare che la trasformazione legislativa avvenga con rapidità, e anzi si può presumere che in sede parlamentare la nuova norma trovi un'ampia maggioranza trasversale. Eppure l'iniziativa di legge ha incontrato immediatamente davanti a sé un muro di obiezioni. In parte prevedibili, come nel caso delle critiche provenienti dall'"Osservatore romano", puntate sull'"assurdità" del cambiamento legislativo, o da parte del presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, che ha denunciato il tentativo di rendere «ancora più fragile la tutela giuridica della stabilità del matrimonio». Le parole di Ruini sono studiate con accortezza, nel senso che reclamano la protezione non di un valore religioso (l'indissolubilità), bensì un bene sociale (la stabilità delle famiglie). In questo senso, risulta difficile accusare il presidente della Cei di integralismo. Tanto più che in Parlamento l'opposizione alla legge-Montecchi è rappresentata non tanto dal partito di esplicita ispirazione cattolica, l'Udc, quanto da esponenti politici appartenenti ai due partiti estremi della Casa delle libertà, ossia Alleanza nazionale e la Lega, da cui si alzano voci che invocano la difesa della famiglia. Ora, che esistano ancora punti di vista secondo cui la famiglia va difesa mantenendo la difficoltà di divorziare, magari fino al punto di difendere famiglie già disintegrate, sembrerà una bizzarria. Ma è una bizzarria apparente, che rivela qualcosa di significativo sulla concezione della società e della libertà che alligna in alcuni settori del centrodestra. Al punto che l'ipotesi di riduzione dei tempi, e del danno postmatrimoniale, non è nemmeno un test di laicità a cui viene sottoposta la classe politica italiana. È più semplicemente un test di saggezza comportamentale, una prova della sua capacità di leggere e comprendere la realtà sociale del nostro paese. Certo, risulterebbe paradossale se un'alleanza politica propostasi come l'interprete della modernizzazione italiana scegliesse su questa materia una posizione reazionaria, magari neanche palese, semplicemente facendo attrito, introducendo emendamenti, paralizzando tortuosamente l'iter legislativo. Elena Montecchi ha parlato di una misura di civiltà; ma può darsi che non sia nemmeno il caso di richiamare parole così impegnative. Basterebbe richiamarsi alla razionalità, alla trasparenza, all'efficacia intrinseca delle norme. Mentre i suoi oppositori dovrebbero spiegare quale idea dell'Italia hanno in mente: un paese che cura gelosamente l'idea organica dell'indissolubilità famigliare? Una società di valori antichi da custodire in una specie di serra? L'impressione è che fra le mura della Casa delle libertà, a dispetto di Popper e nonostante tutto, ci sia ancora qualche occhiuto sostenitore della società chiusa
L'Espresso, 10.04.2003
Il divorzio breve nella Casa delle libertà
Sono passati sedici anni da quando la legge sul divorzio fu modificata, portando da cinque a tre gli anni che devono passare fra la separazione e il divorzio stesso. Dal 1987 a oggi, cioè da quando la riduzione del periodo di attesa venne approvata (con il voto favorevole della Dc), la società italiana ha vissuto una specie di rivoluzione, nei valori, nel costume, nelle abitudini. Quindi, l'ulteriore modificazione, avanzata dalla parlamentare ds Elena Montecchi, che riduce a un anno il periodo fra separazione e divorzio, ha l'aspetto di una semplice iniziativa di adattamento delle norme alla realtà e alle esigenze delle persone. Tutti i motivi che vengono segnalati a favore del nuovo intervento legislativo appaiono ispirati alla ragionevolezza: la durata teorica dei tre anni di attesa si allunga a dismisura nella prassi, fino a toccare i sei-otto anni; le coppie disintegrate sono costrette a sopportare il peso di una sofferenza psicologica e materiale che nel caso della parte generalmente più debole, le donne, si può tradurre in ingiustizie e autentiche vessazioni; i labirinti burocratici impediscono la stabilizzazione delle nuove coppie formatesi dopo la separazione, e i ritardi si ripercuotono in modo umanamente critico sulla possibilità di avere figli nell'ambito di una nuova unione civilmente regolata. Tutto ciò considerato, è ovvio auspicare che la trasformazione legislativa avvenga con rapidità, e anzi si può presumere che in sede parlamentare la nuova norma trovi un'ampia maggioranza trasversale. Eppure l'iniziativa di legge ha incontrato immediatamente davanti a sé un muro di obiezioni. In parte prevedibili, come nel caso delle critiche provenienti dall'"Osservatore romano", puntate sull'"assurdità" del cambiamento legislativo, o da parte del presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, che ha denunciato il tentativo di rendere «ancora più fragile la tutela giuridica della stabilità del matrimonio». Le parole di Ruini sono studiate con accortezza, nel senso che reclamano la protezione non di un valore religioso (l'indissolubilità), bensì un bene sociale (la stabilità delle famiglie). In questo senso, risulta difficile accusare il presidente della Cei di integralismo. Tanto più che in Parlamento l'opposizione alla legge-Montecchi è rappresentata non tanto dal partito di esplicita ispirazione cattolica, l'Udc, quanto da esponenti politici appartenenti ai due partiti estremi della Casa delle libertà, ossia Alleanza nazionale e la Lega, da cui si alzano voci che invocano la difesa della famiglia. Ora, che esistano ancora punti di vista secondo cui la famiglia va difesa mantenendo la difficoltà di divorziare, magari fino al punto di difendere famiglie già disintegrate, sembrerà una bizzarria. Ma è una bizzarria apparente, che rivela qualcosa di significativo sulla concezione della società e della libertà che alligna in alcuni settori del centrodestra. Al punto che l'ipotesi di riduzione dei tempi, e del danno postmatrimoniale, non è nemmeno un test di laicità a cui viene sottoposta la classe politica italiana. È più semplicemente un test di saggezza comportamentale, una prova della sua capacità di leggere e comprendere la realtà sociale del nostro paese. Certo, risulterebbe paradossale se un'alleanza politica propostasi come l'interprete della modernizzazione italiana scegliesse su questa materia una posizione reazionaria, magari neanche palese, semplicemente facendo attrito, introducendo emendamenti, paralizzando tortuosamente l'iter legislativo. Elena Montecchi ha parlato di una misura di civiltà; ma può darsi che non sia nemmeno il caso di richiamare parole così impegnative. Basterebbe richiamarsi alla razionalità, alla trasparenza, all'efficacia intrinseca delle norme. Mentre i suoi oppositori dovrebbero spiegare quale idea dell'Italia hanno in mente: un paese che cura gelosamente l'idea organica dell'indissolubilità famigliare? Una società di valori antichi da custodire in una specie di serra? L'impressione è che fra le mura della Casa delle libertà, a dispetto di Popper e nonostante tutto, ci sia ancora qualche occhiuto sostenitore della società chiusa
L'Espresso, 05.08.2004
Meglio Ruta o cicuta?
Se un pomeriggio qualsiasi si comincia a guardare "Estate sul 2", naturalmente su Raidue, non ci si stacca più. Ipnotizzati. Perché il programma condotto da una Maria Teresa Ruta rigenerata (abbassata la testa, smerigliate le valvole) è, punto 1, un provino continuo della prossima edizione e di quelle successive dell'"Isola dei famosi". Infatti, presenta, punto 2, una fila di svip, svippati e svippate, di cui non è certa la professione, se non quella di fare gli ospiti in programmi come "Estate sul 2". Ammettiamo che uno si svegli una mattina e pensi: ma Lory Del Santo, dove sarà finita? E Jo Squillo, quella che oltre le gambe c'è di più, che cosa starà facendo? Bene, "Estate sul 2" colma la lacuna, soddisfa la curiosità, offre l'ultima notizia e l'ultimo look (perlomeno l'ultimo look che svippati e svippate si possono permettere). Ma non basta. Punto 3: nel programma c'è anche la zona grandi recuperi. Visto un bellissimo esemplare di Alessandro Meluzzi, ex Forza Italia, ex straccione di Valmy con Cossiga, tornato alla sua professione di psicologo, anche se irresistibilmente attratto dalla tv, come accade a tutti gli psicologi, specialmente quelli che sanno scrutare la profondità, gli abissi, insomma l'insondabile superficialità della personalità contemporanea per descriverla radiosamente a Costanzo, a Vespa, o almeno alla Ruta. Punto 5: non manca un cuoco, nel programma, e non manca nemmeno la partecipazione di Barbara Alberti e di Marina Ripa di Meana. A proposito di marina e marinai, avvistata anche una eccezionale apparizione di Marina Occhiena, la fatalona ex Ricchi e Poveri. Al sesto punto, si segnalano i grandi dibattiti di "Estate sul 2": ti piacerebbe rinascere dell'altro sesso? La sposi se ha un figlio? Funzionano le minacce con i figli, tipo se non studi niente vacanze? Sono temi e dilemmi che inducono agli istinti più malvagi tutti noi. Sicché dopo due o tre puntate arriva alla coscienza, come direbbe lo psicologo, il tema fondamentale, esprimibile così: cari ospiti, cari famosi, care lori, marine, alessandri, teneteli cari, i vostri gettoncini di presenza, aprite libretti di risparmio, fate dei Bot, accendete una pensione integrativa. Non venitevi poi a lamentare: al momento buono, punto finale, il contributo previsto dalla legge Bacchelli non ve lo diamo, no e poi no, neanche se c'è l'interessamento del presidente del Consiglio (come è avvenuto nel caso di Joe Sentieri, forse per affinità canora e salterina).
L'Espresso, 02.09.2004
Forrest Gump è diventato un quiz
Lunedì 30 agosto torna "L'Eredità", programma giornaliero di Raiuno, sei giorni su sette, prima del tg delle 20, condotto da Amadeus. Nessuno in Italia conosce il regolamento di questo gioco a quiz, così come nessuno conosce il vero nome di Amadeus e, tanto per cambiare settore, nessuno conosce il nome di tre dirigenti di Rifondazione comunista escludendo Bertinotti (su quest'ultimo punto, il copyright è dello storico Giuseppe Berta). Comunque "L'Eredità" male non fa, è una trasmissione del tutto innocua, che si guarda per vedere se la concorrente tale o il concorrente talaltro è ignorante come noi a proposito di delfini, di buddhismo o di mitologia greca (ma dice preoccupato Claudio Gorlier che, ahi, "lacune stupefacenti affiorano in professoresse di scuola media"). Lasciati al passato i tempi del quiz paranoico, con i concorrenti preparatissimi su un solo argomento, tipo "Rischiatutto" e prima "Lascia o raddoppia", il quiz contemporaneo è un esercizio di abilità generica, in cui persone molto dilettanti e mediamente informate sperano di riuscire a dimostrare in primo luogo una capacità televisiva, l'attitudine a stare in video, a risultare attraenti per simpatia o per "preparazione". "Lei mi sembra molto preparato/a", dirà infatti Amadeus a un/a concorrente che padroneggia con una certa disinvoltura il condizionale. Come altri quiz televisivi "L'Eredità" presenta domande su argomenti che non padroneggerebbe neppure un conoscitore degli organigrammi di Rifondazione comunista, in cui la cosiddetta preparazione di chi gareggia si misura nella capacità di trovare argomentazioni apparentemente ragionevoli per escludere le risposte in apparenza sbagliate. D'altronde, oggi chi si offre alle selezioni per partecipare a un telequiz non ha come scopo primario i premi in denaro. Il titolo stesso del programma di Amadeus segnala la possibilità di una fortuna improvvisa e inaspettata, qualcosa che cade dal cielo. Sotto questo aspetto la Casa dell'Eredità è un programma a suo modo politico, che in parte attenua la retorica e le fatiche dell'impresa, del mercato, della competitività, del lavoro, della professionalità. Viva Amadeus. Viva Forrest Gump. Viva il colpo di fortuna. In alto le bandane e una pioggia di euri scenda su di voi.
L'Espresso, 09.09.2004
Piombo amore e fantasia
Trattasi di slogan inattuale, "Lavorare con lentezza". Eh sì, storia degli anni Settanta, anni non solo di piombo. "Gli anni della maturità che non sapemmo avereª, disse più tardi Giuliano Amato. Anni dell'alternativa politica cercata prima attraverso il Pci, grande avanzata alle elezioni politiche del 1976: ma ovviamente la Dc non cede, e "i due vincitori" prefigurano una specie di bipartitismo, la possibile modernizzazione politica dell'Italia post-sessantottesca, post-autunno caldo, post-divorzio, post-rivoluzione sessuale. E si tratta di un film, sempre "Lavorare con lentezza", prodotto da Fandango e girato da Guido Chiesa (il regista che ha alle spalle un buon successo nel 2000 con "Il partigiano Johnny"), in concorso al Festival di Venezia. Siamo a Bologna, l'isola felice, almeno in apparenza, del comunismo pragmatico all'emiliana, servizi sociali e salda egemonia culturale, un sindaco accademicamente con i controfiocchi come Renato Zangheri, il recupero del centro storico, l'umanesimo rosso, la borghesia soddisfatta, il compromesso socialdemocratico voluto da Togliatti fra l'Emilia rossa e i ceti medi che funziona ancora mirabilmente tutto sotto controllo, compagni. I segnali di disagio sono altrove: a Roma, dove in febbraio Luciano Lama Ë stato spernacchiato all'università dagli autonomi, "Lama non l'ama nessuno", "I Lama stanno in Tibet". Comincia qui l'anno 1977. E succede politicamente un Settantasette. Radio Alice è un epicentro. Bologna la grassa, la dotta eccetera comincia a fibrillare. Il magnifico rettore Rizzoli chiama le forze dell'ordine per spegnere gli scontri davanti ad Anatomia fra il Movimento e studenti e gli "squadristi" (come dicono a sinistra) di Comunione e Liberazione. Un carabiniere ammazza Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta continua. In un solo momento, Bologna non è più la stessa, l'isola è invasa, il sistema di potere del Pci si incrina, scricchiola, sbanda. I blindati della polizia demoliscono anche l'immagine del socialismo che funziona. Per raccontare questa storia, insidiosa come tutte le storie generazionali, Guido Chiesa ha chiamato a collaborare alla sceneggiatura i Wu Ming, entità definibile forse come "intellettuale collettivo", a cui si devono fra l'altro un paio di libri fortunati come "Q" e "54". Quelli di Wu Ming, per capirci, sono gente che se la tira abbastanza, e per ogni progetto o intuizione devono costruirci su una teoria; ma poi hanno avuto una buona idea, rintracciata dalle cronache d'allora: "Proprio sui giornali d'epoca abbiamo trovato notizia di una misteriosa rapina col buco, che dai canali sotto le strade di Bologna doveva portare un commando di uomini-talpa a un passo dal pavimento del caveau della Cassa di Risparmio..."ª. Quella della galleria è un'altra città sotterranea, simile metaforicamente a quella della Bologna underground. Le talpe scavano. Gli animali da scavo politico sono quelli dell'autonomia, di Radio Alice, di Francesco Berardi detto Bifo. Le talpe manovali del crimine sono un bolognese autentico e un "meridionale massa". Squalo e Pelo: il regista Chiesa li ha selezionati con ogni probabilità per testimoniare anche fisicamente i due volti di una Bologna che si sta disintegrando politicamente e socialmente. Da una parte il proletario di quartiere, ludico, cazzeggiatore, non ancora adulto, fichissimo nella sua svagatezza petroniana, interpretato dall'esordiente Tommaso Ramenghi; dall'altra Marco Luisi, immigrato incazzato duro, che sembra venuto già da un film d'epoca tipo "La classe operaia va in paradiso". Reclutati, i due, da un impresario della mala, tale Marangon, criminale filosofo (interpretato da Valerio Binasco), con il compito di scavare il lunghissimo tunnel verso la sede della Carisbo in piazza Minghetti. La Bologna non ufficiale ma comunque politica, quella di Radio Alice, della polizia, della contestazione Ë affidata ai volti di Valerio Mastandrea, poliziotto incaricato di ascoltare professionalmente la voce della sovversione che corre via etere, e di Claudia Pandolfi, sottratta alle melensaggini di prima sera, nel ruolo dell'avvocata giovane e di sinistra che sta dalla parte dei rivoltosi. Secondo Wu Ming, fare un film sulla Bologna del biennio 1976-77 significava soprattutto questo: sperimentare se fosse possibile parlare di anni Settanta senza restare prigionieri dell'uno o dell'altro clichè. Rifiutarsi di credere che la complessità di quel decennio potesse essere rappresentata solo da Bombolo e Mario Morettiª. Tuttavia un punto di vista di questo tipo è molto parziale, anzi, unilaterale. L'unilateralismo è dato dal prendere la prospettiva del "movimento" come l'unica praticabile. In realtà, la galassia movimentista era soltanto uno degli elementi in gioco: il Settantasette bolognese rappresenta una delle crisi settoriali che preludono alla grande crisi di sistema. Quando a Bologna, in settembre, viene organizzato il grande convegno sulla repressione, sull'onda di Fèlix Guattari e dell'Antiedipo, il dato di fondo è rappresentato dal fatto che una generazione ha dichiarato la propria sfiducia nel Partito comunista. Cioè nell'alternativa politica al "regime" democristiano. Se non si crede nel meccanismo della democrazia "borghese", non c'è altra strada se non l'insurrezione, la lotta di massa, l'esplosività collettiva contro le istituzioni del controllo politico-sociale, "al limite" anche l'illegalità di massa o individuale e sotterranea. Oppure, come prospettano i Wu Ming, c'è la libertà d'invenzione formale, "la forza- invenzione, i "cento fiori", le tinte acide delle serigrafie, le fanzine, il cut-up grafico e sonoro, il linguaggio destrutturato delle radio libere e dei circoli di proletariato giovanile ("Un risotto vi seppellirà"), l'irrompere degli slang e degli accenti regionali dopo decenni di dizione Raiª. Dopo di che ci si può anche chiedere: che cosa è restato? La Bologna di allora aveva tentato di neutralizzare la propria epopea negativa ricorrendo alle caratteristiche stereotipate di città tollerante. Ma in realtà lo scontro fra movimenti e istituzioni era destinato a rimanere insoluto e sterile perchè gli uni e le altre non credevano alla democrazia. Dopo ?Zangheri zangherò zangheriamo la città", l'autonomia restava all'interno di un circuito estetico, non di rado estetizzante, compiaciuto delle proprie formule, mentre dentro la roccaforte sbrecciata del socialismo "Emilian Style" ci si rendeva conto che nel bilancio fra l'egemonia politica e il cambiamento, fra la lotta e il governo, il partito si era seduto. D'altronde, come era possibile tenere insieme, nel clima di allora, i docenti democratici dell'Università di Bologna che firmavano appelli progressisti, Umberto Eco che preparava lo scherzo sublime di "Il nome della rosa", Dario Fo con il suo teatro militante, il Soccorso rosso che reclutava fiancheggiatori, nonchè Carlo Ginzburg e Vittorio Foa, Lotta continua e l'Autonomia, la guerriglia e la liberazione, rivoluzionari, dadaisti, nichilisti, indiani metrò. Mentre dall'altra parte c'era l'arco costituzionale, i partiti, Zangheri che diceva "ci vuole il dialogo fra la città e gli studenti, escludendo i fautori della violenza"ª. Questione di incomunicabilità. Lavorare con lentezza era impossibile anche allora, perchè i movimenti avevano un bisogno matto di velocità, di efficacia grafica, di creazione parolibera, mentre la politica è troppo lenta rispetto ai tempi nuovi. Per questo adesso tutti parlano di memoria: "Memoria dei movimenti, memoria moltepliceª, secondo Wu Ming. "Tutte le storie parlano di oggi. E di domani"ª, dice Guido Chiesa, uno che pure preferisce "l'ironia alla nostalgia"ª. A proposito: l'espressione "lavorare con lentezza" viene da una canzone che ogni mattina apriva le trasmissioni di Radio Alice, un brano del pugliese Enzo Del Re, oltranzista della canzone politica di quegli anni, abituato a chiedere come compenso il minimo sindacale della paga di una giornata di lavoro di un metalmeccanico. Ma forse la canzone che meglio definisce quei tempi Ë di Rino Gaetano, "Mio fratello è figlio unico", che in poche strofe fa ancora ricordare che le contraddizioni sono allora e sempre in seno al popolo.
L'Espresso, 11.11.2004
Grande fratello grandissimo
Sarà che hanno sbagliato il casting. Sarà che non c'è nessuna donna che possa figurare come oggetto del desiderio, una Mascia o una Marina, una gatta grassa o una gatta morta. Sarà che l'unico essere interessante dovrebbe essere quel tale Jonathan che sembra avere il fisico di un serpente o di Iggy Pop, l'Iguana (però ibridato con la faccia di Adriano Celentano). Sarà e sarà, ma sarà anche il fatto che perfino il Padrone, il magnate arcoriano provvisoriamente insediato a Palazzo Chigi, avrebbe detto ai suoi intimi di governo: «Ma che stronzate stanno a di', questi, tutto il giorno». Insomma, le ragioni saranno tante, ma l'unica realtà comprensibile è che il "Grande Fratello", quest'anno, fa pena. Gli ascolti calano, gli share languono, l'audience latita. Al punto che l'imprevedibile è accaduto davvero: la moda è cambiata, il trend si è azzoppato, il glam è altrove, e nessuno fra gli intellettuali confessa più lubricamente di essere un fan del "GF". Un'occhiatina all'"Isola dei Famosi" è ancora consentita; ma non appena il tasto del telecomando cade sul "Grande Fratello", si urla: «Cambia, cambia». Difficile spiegare le ragioni del flop. I protagonisti sono brutti come italiani normali, parlano con un forte, insopportabile accento regionale, hanno una concezione della vita da giornale di gossip, sono capaci di ingurgitare 44 lattine di birra e dopo darsi a un petting schifosino. Sostanza: sono italiani medi o medio-bassi come tutti noi che guardiamo la svaccata televisione pubblica o privata. E allora perché non scatta l'identificazione? Perché il pubblico non si immedesima? Eh, perché? Sarà che hanno sbagliato il casting eccetera. Ma l'unica spiegazione veramente suggestiva è che sia proprio cambiato il mood. Il "Grande Fratello" era il programma perfetto per accompagnare l'ascesa di Silvio Berlusconi e del berlusconismo, con la benedizione della Prestigiacomo e della Santanchè. Quando il "GF" tramonta, vuol dire semplicemente che tramonta anche il regime, il centrodestra, il berlusconismo suddetto. Anzi, si può pensare a un crossover fantastico, immaginando di abrogare con referendum il "Grande Fratello" e il governo, e di spedire gli esponenti più significativi del centrodestra nell'"Isola dei Famosi". Così si risolve il problema del rimpasto di Rocco, delle aliquote di Gianfranco (nel senso di Fini), e della proporzionale di Silvio. Addio, cari, alla prossima edizione.
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