Romano Prodi lo aveva detto tre settimane fa che i giochi per la leadership del Partito democratico non erano già fatti: «C’è spazio per candidati, programmi, liste e progetti». E dire che in quel momento Walter Veltroni sembrava già insediato, o già plebiscitato, anche se non era ben chiaro da chi. Da D’Alema e Marini con la tutela di Fassino. Dalla volontà collettiva. Dalla paura di vedere la sinistra dissolversi, com’era accaduto al Nord con le amministrative. In ogni caso il sentimento generale appariva chiarissimo: era meglio non disturbare la corsa del sindaco di Roma, agevolarne la campagna in modo da renderla praticamente un passeggiata, darsi un appuntamento senza fisime "democraticistiche" alla data del 14 ottobre, il gran giorno dell’assemblea costituente del nuovo partito e procedere alla beatificazione di san Walter. C’era qualche ragione plausibile per trasformare una scelta politica in una designazione dall’alto? In effetti l’invito a Veltroni a rimettersi in gioco nella politica nazionale era avvenuto in uno dei momenti di massima crisi di consenso del governo, con i sondaggi a picco e la popolarità di Prodi al minimo, e Veltroni veniva individuato come l’ultima carta possibile per rifare il maquillage al centrosinistra e ridargli un appeal pubblico. Per questa ragione Piero Fassino invitava tutti i possibili contendenti a non rompere «l’unità riformista», senza preoccuparsi della infelice sonorità dell’espressione. Certo, in questo modo si ammainava la bandiera di almeno un possibile altro candidato forte, quella di Pier Luigi Bersani, l’uomo del riformismo liberalizzatore e della crescita, vicino alle imprese e all’economia, capace di parlare agli establishment confindustriali e alle categorie. Si è trattato di una perdita secca: può darsi che con la sua rinuncia, concessa per evitare «il disorientamento del nostro popolo», Bersani abbia anche abdicato a funzioni di leadership in futuro. Inoltre non risultava particolarmente elegante o attraente che si desse per già definito il ticket veltroniano, con l’autodesignazione di Dario Franceschini nel ruolo di numero due. E nemmeno che la "fusione fredda" di Ds e Margherita avvenisse come una manovra decisa al vertice, con il rischio incombente di una serie di liste collegate al leader predesignato (una specie di riedizione postmoderna del centralismo democratico incrociato con il correntismo democristiano). Tanto più che l’incoronazione di re Walter avrebbe presumibilmente marginalizzato il governo, e ridotto Prodi al rango di amministratore delegato, se non di curatore fallimentare, della coalizione, in attesa di essere sostituito al primo rilancio politico del centrosinistra. Va da sé infatti che nel momento dell’insediamento di Veltroni come leader del Pd, sarebbe cominciata anche la sua campagna politica per recuperare il favore dell’elettorato. Con un "fresh start" come i democratici americani dopo l’era Clinton, e magari una "rupture" alla Sarkozy, per riprendere credibilità, consenso e potenzialità elettorali. Il governo sarebbe diventato un esecutivo a termine, in attesa di un nuovo confronto politico ed elettorale con il centrodestra da giocare con modalità nuove e non del tutto prevedibili, ma puntando sulla freschezza politica del veltronismo. È cambiato qualcosa? Almeno a sentire l’ambiente di Palazzo Chigi il cambiamento è netto: con l’ingresso in campo di due figure come Rosy Bindi e Enrico Letta i giochi si fanno meno scontati. Non tanto perché viene messo in discussione il risultato finale (naturalmente Veltroni è sempre il favorito), ma perché dovrebbe aprirsi una competizione, muoversi il dibattito, cominciare un confronto: ed è verosimile che in questo scenario più mosso il governo guadagni tempo. Il mese di campagna per le primarie potrebbe occupare una buona parte dello spazio mediatico; un risultato non "bulgaro" del voto dei simpatizzanti del Pd metterebbe Veltroni e Prodi in un rapporto più equilibrato. Ma l’effetto di primarie autentiche sarà ancora più evidente nell’opinione pubblica perché metterà a confronto ispirazioni culturali diverse: è vero che nel discorso torinese del Lingotto Veltroni è stato onnicomprensivo per saturare l’orizzonte politico della nuova ideologia "democratica". Tuttavia l’apparizione della combattiva Bindi (donna, non romana, non socialista, non ex comunista) arricchisce il dibattito portando nell’arena del Pd temi che appartengono tradizionalmente alla storia del cattolicesimo democratico; e l’ingresso in campo del quarantenne «post-ideologico» Letta propone un’ipotesi tipicamente liberal-riformista, agganciata alla realtà dei settori produttivi, in grado di dialogare con i ceti delle aree più sviluppate del paese. E in aggiunta Letta è dotato di una rete di rapporti coltivata fin dai tempi in cui era il ragazzo di bottega di Nino Andreatta nel centro studi dell’Arel, ed è portatore di una visione riformista di matrice europea, maturata nella sua formazione e a contatto con gli ambienti istituzionali della Ue. In sostanza, il Partito democratico "a corsa multipla" ha l’aspetto di un partito visibilmente meno finto di quanto non apparisse dopo i due congressi finali dei Ds e della Margherita. C’è un leader in pectore, Veltroni, che al di là dell’impianto della sua proposta si candida come un possibile miglior regista della coalizione, dall’Udeur a Rifondazione comunista. Enrico Letta è l’esponente di un riequilibrio riformista dell’alleanza, e l’interprete di un mondo che Veltroni conosce meno (anche se non è da sottovalutare il quasi endorsement di Luca Cordero di Montezemolo, a testimonianza che la concezione veltroniana della politica può attrarre le élite più attente al glamour "postmaterialista" e alla comunicazione). Rosy Bindi introduce una forte componente "di genere" e un’istanza di laicità sperimentata con determinazione e duttilità all’epoca della proposta di legge sui Dico. Insomma non è a priori una competizione artificiosa, e il partito può non essere un prodotto artificiale. Degli altri cinque candidati, Furio Colombo rappresenta una testimonianza antiberlusconiana, un pezzetto dell’eredità girotondina. Quanto a Marco Pannella, la sua autocandidatura, rigettata dall’ufficio di presidenza, rappresentava una provocazione al Pd, non del tutto superflua ma funzionale più al leader radicale che alle sorti del Partito democratico. I candidati eccentrici (il rappresentante delle comunità montane Lucio Cangini, il blogger ex capo dei giovani del Ppi Mario Adinolfi, l’esperto di finanza etica Jacopo Gavazzoli Schettini) rappresentano quel tanto di personalismo volontaristico che si manifesta nelle gare aperte. Un po’ di folklore, un po’ di civismo, un’opportunità di guadagnare la scena per qualche settimana. Ma è chiaro che in questo momento la posta in gioco riguarda la configurazione del Pd e il suo ruolo all’interno dell’Unione. Va considerato che il partito nascituro è una formazione largamente eclettica, pochissimo ideologica, scarsamente omogenea sul piano culturale. Il suo format politico deriverà in buona misura dai rapporti di forza tra le personalità al suo interno. E il punto forse decisivo della sua azione dipenderà dal ruolo che il Pd assumerà in relazione al discrimine più critico interno al centrosinistra, e cioè alla linea di attrito fra sinistra liberale e sinistra radicale. Per ora, sotto l’ombrello veltroniano si sono manifestate linee divergenti: da un lato un progetto di continuità, ossia il tentativo di tenere sotto lo stesso tetto governativo l’intera Unione attuale; dall’altro, l’ipotesi enunciata nel "manifesto dei coraggiosi" promosso da Francesco Rutelli, vale a dire la suggestione di alleanze «di nuovo conio» se il rapporto con la sinistra comunista dovesse portare definitivamente all’impasse l’iniziativa del governo. È questo il terreno su cui si misureranno concretamente tutti i protagonisti dell’avventura "democrat", dai candidati principali alle figure di confine come Lamberto Dini, a partire dalla legge finanziaria ma più in generale sulle scelte di sistema: il che, in pratica, vuol dire la posizione che i protagonisti assumeranno sul referendum elettorale di Segni e Guzzetta o su una legge elettorale alternativa. Infatti mentre c’è una componente del Pd che ha appoggiato esplicitamente il referendum, da Letta alla Bindi ad Arturo Parisi (con la posizione laterale di Veltroni, appoggio senza firma), sono già in corso le manovre per un sistema elettorale molto più morbido: Fassino ha aperto la strada al modello tedesco, che trova consensi anche nel centrodestra (Berlusconi e Casini). Agli occhi dei più critici, in primis Parisi, si tratterebbe di un grave passo indietro, che favorirebbe il ritorno ad alleanze a geometria variabile, con la fine dello schema bipolare e la costituzione di rendite di posizione al centro. Forse il chiarimento preventivo andrebbe praticato su questo tema: perché sarebbe piuttosto singolare assistere all’impegno dei tre principali candidati del Pd a favore di un referendum che tende al bipartitismo mentre sullo sfondo i partiti contrattano la proporzionale.
02.08.2007