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Eterna promessa Pier

02.12.2005

Alla fine Pier Ferdinando rimpiangerà il gemello Marco. Perché Casini aveva una chance fintanto che Follini teneva aperta un’ipotesi che andasse "oltre" il Polo, oltre la Casa, oltre la destra. Perché erano le spine folliniane nel fianco di Berlusconi a segnalare la diversità democristiana. Tolto di mezzo l’ex allievo di Toni Bisaglia, il "moro-doroteo" Follini, l’Udc si ingarbuglia in una ragnatela di tessere: l’alternativa a Berlusconi appare una finzione, un altro di quegli illusionismi che Casini all’Eur ha rimproverato a chissà chi, non certo al Cavaliere orgoglioso di avere governato per cinque anni «nonostante Follini e compagnia bella» (quando si dice la bontà e l’eleganza). Un peccato, perché senza il suo alter ego calvo e occhialuto il presidente della Camera risulta essere semplicemente il capo di un partitino che ha tenuto il sacco a Berlusconi, votando le leggi-canaglia e contribuendo alla riforma-accozzaglia della Costituzione. Stanno portando a casa, gli Udc, una legge elettorale da fritto misto, che comunque poteva essere l’occasione per "smarcarsi", come dicono loro, e lanciare la corsa alla premiership, se Casini possedesse la fulminea capacità di approfittare delle opportunità, il senso sulfureo della perfetta ingratitudine con cui si salutano crudelmente i vecchi campioni al tramonto. Invece Casini ha come dote principale la pazienza, somma qualità dorotea ma dote irrilevante allorché si tratta di curvare la storia e di esercitare il carisma, o almeno di spingere dentro la palla gol. Come dicevano i vecchi aficionados del Comunale di Bologna, è «brào ma lento»: ha accettato l’attacco a tre punte, Gianfranco, Pierferdy, Silvio, ma con l’idea che ciò che conta è la tessitura a centrocampo, passaggi laterali, senza lamentarsi se ci sarà da arretrare in un’oscura fatica, come diceva il mediano Forlani, di "raccordo". Come risultato, dopo quattro anni e mezzo di allure istituzionale il capo dell’Udc si è rimesso la maglietta di capitano. Solo che alla prima promettente ripartenza sulla fascia («Non ho detto che avrei governato meglio, l’ho solo pensato»), gli è arrivato sulle tibie il takle del Padrone, e Casini è ripiegato prudenzialmente a centrocampo. Sarà per un’altra volta. Per adesso coltiva l’orticello di un rapporto privilegiato con la gerarchia vaticana, dove i Ruini e i Sodano lo trattano con l’affetto per i vecchi ragazzi di sagrestia, e guardano all’Udc come a un’utile cinghietta di trasmissione della Chiesa. Sullo sfondo, miraggi elettorali freddamente smentiti da Berlusconi («l’Udc è sotto il 4 per cento»), ipotesi quirinalizie sottoposte ai calcoli del Cavaliere, la fiducia che il vantaggio generazionale si farà sentire al momento buono. Ma nell’ora del ricambio ci vorrà la perfidia tenace del «carognitt de l’oratori», come lo chiamava con sarcasmo Umberto Bossi, e chissà se Pier Ferdinando ce l’ha ancora: il suo rivale Fini svolazza nei cieli della politica estera, spesso non capendoci niente ma con grande autorevolezza al cospetto delle nonne; Casini sembra pensare che, come per la Dc, l’eternità sia il destino dell’Udc. Ma di partiti neo-dc ce ne sono già troppi, quindi quell’eternità va divisa perlomeno in quattro: e il tempo passa, scivolano via le legislature, e anche Pier Ferdinando rischia fatalmente di passare, eterna promessa, eterna incompiuta.

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