Trattasi di slogan inattuale, "Lavorare con lentezza". Eh sì, storia degli anni Settanta, anni non solo di piombo. "Gli anni della maturità che non sapemmo avereª, disse più tardi Giuliano Amato. Anni dell’alternativa politica cercata prima attraverso il Pci, grande avanzata alle elezioni politiche del 1976: ma ovviamente la Dc non cede, e "i due vincitori" prefigurano una specie di bipartitismo, la possibile modernizzazione politica dell’Italia post-sessantottesca, post-autunno caldo, post-divorzio, post-rivoluzione sessuale. E si tratta di un film, sempre "Lavorare con lentezza", prodotto da Fandango e girato da Guido Chiesa (il regista che ha alle spalle un buon successo nel 2000 con "Il partigiano Johnny"), in concorso al Festival di Venezia. Siamo a Bologna, l’isola felice, almeno in apparenza, del comunismo pragmatico all’emiliana, servizi sociali e salda egemonia culturale, un sindaco accademicamente con i controfiocchi come Renato Zangheri, il recupero del centro storico, l’umanesimo rosso, la borghesia soddisfatta, il compromesso socialdemocratico voluto da Togliatti fra l’Emilia rossa e i ceti medi che funziona ancora mirabilmente tutto sotto controllo, compagni. I segnali di disagio sono altrove: a Roma, dove in febbraio Luciano Lama Ë stato spernacchiato all’università dagli autonomi, "Lama non l’ama nessuno", "I Lama stanno in Tibet". Comincia qui l’anno 1977. E succede politicamente un Settantasette. Radio Alice è un epicentro. Bologna la grassa, la dotta eccetera comincia a fibrillare. Il magnifico rettore Rizzoli chiama le forze dell’ordine per spegnere gli scontri davanti ad Anatomia fra il Movimento e studenti e gli "squadristi" (come dicono a sinistra) di Comunione e Liberazione. Un carabiniere ammazza Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta continua. In un solo momento, Bologna non è più la stessa, l’isola è invasa, il sistema di potere del Pci si incrina, scricchiola, sbanda. I blindati della polizia demoliscono anche l’immagine del socialismo che funziona. Per raccontare questa storia, insidiosa come tutte le storie generazionali, Guido Chiesa ha chiamato a collaborare alla sceneggiatura i Wu Ming, entità definibile forse come "intellettuale collettivo", a cui si devono fra l’altro un paio di libri fortunati come "Q" e "54". Quelli di Wu Ming, per capirci, sono gente che se la tira abbastanza, e per ogni progetto o intuizione devono costruirci su una teoria; ma poi hanno avuto una buona idea, rintracciata dalle cronache d’allora: "Proprio sui giornali d’epoca abbiamo trovato notizia di una misteriosa rapina col buco, che dai canali sotto le strade di Bologna doveva portare un commando di uomini-talpa a un passo dal pavimento del caveau della Cassa di Risparmio…"ª. Quella della galleria è un’altra città sotterranea, simile metaforicamente a quella della Bologna underground. Le talpe scavano. Gli animali da scavo politico sono quelli dell’autonomia, di Radio Alice, di Francesco Berardi detto Bifo. Le talpe manovali del crimine sono un bolognese autentico e un "meridionale massa". Squalo e Pelo: il regista Chiesa li ha selezionati con ogni probabilità per testimoniare anche fisicamente i due volti di una Bologna che si sta disintegrando politicamente e socialmente. Da una parte il proletario di quartiere, ludico, cazzeggiatore, non ancora adulto, fichissimo nella sua svagatezza petroniana, interpretato dall’esordiente Tommaso Ramenghi; dall’altra Marco Luisi, immigrato incazzato duro, che sembra venuto già da un film d’epoca tipo "La classe operaia va in paradiso". Reclutati, i due, da un impresario della mala, tale Marangon, criminale filosofo (interpretato da Valerio Binasco), con il compito di scavare il lunghissimo tunnel verso la sede della Carisbo in piazza Minghetti. La Bologna non ufficiale ma comunque politica, quella di Radio Alice, della polizia, della contestazione Ë affidata ai volti di Valerio Mastandrea, poliziotto incaricato di ascoltare professionalmente la voce della sovversione che corre via etere, e di Claudia Pandolfi, sottratta alle melensaggini di prima sera, nel ruolo dell’avvocata giovane e di sinistra che sta dalla parte dei rivoltosi. Secondo Wu Ming, fare un film sulla Bologna del biennio 1976-77 significava soprattutto questo: sperimentare se fosse possibile parlare di anni Settanta senza restare prigionieri dell’uno o dell’altro clichè. Rifiutarsi di credere che la complessità di quel decennio potesse essere rappresentata solo da Bombolo e Mario Morettiª. Tuttavia un punto di vista di questo tipo è molto parziale, anzi, unilaterale. L’unilateralismo è dato dal prendere la prospettiva del "movimento" come l’unica praticabile. In realtà, la galassia movimentista era soltanto uno degli elementi in gioco: il Settantasette bolognese rappresenta una delle crisi settoriali che preludono alla grande crisi di sistema. Quando a Bologna, in settembre, viene organizzato il grande convegno sulla repressione, sull’onda di Fèlix Guattari e dell’Antiedipo, il dato di fondo è rappresentato dal fatto che una generazione ha dichiarato la propria sfiducia nel Partito comunista. Cioè nell’alternativa politica al "regime" democristiano. Se non si crede nel meccanismo della democrazia "borghese", non c’è altra strada se non l’insurrezione, la lotta di massa, l’esplosività collettiva contro le istituzioni del controllo politico-sociale, "al limite" anche l’illegalità di massa o individuale e sotterranea. Oppure, come prospettano i Wu Ming, c’è la libertà d’invenzione formale, "la forza- invenzione, i "cento fiori", le tinte acide delle serigrafie, le fanzine, il cut-up grafico e sonoro, il linguaggio destrutturato delle radio libere e dei circoli di proletariato giovanile ("Un risotto vi seppellirà"), l’irrompere degli slang e degli accenti regionali dopo decenni di dizione Raiª. Dopo di che ci si può anche chiedere: che cosa è restato? La Bologna di allora aveva tentato di neutralizzare la propria epopea negativa ricorrendo alle caratteristiche stereotipate di città tollerante. Ma in realtà lo scontro fra movimenti e istituzioni era destinato a rimanere insoluto e sterile perchè gli uni e le altre non credevano alla democrazia. Dopo ?Zangheri zangherò zangheriamo la città", l’autonomia restava all’interno di un circuito estetico, non di rado estetizzante, compiaciuto delle proprie formule, mentre dentro la roccaforte sbrecciata del socialismo "Emilian Style" ci si rendeva conto che nel bilancio fra l’egemonia politica e il cambiamento, fra la lotta e il governo, il partito si era seduto. D’altronde, come era possibile tenere insieme, nel clima di allora, i docenti democratici dell’Università di Bologna che firmavano appelli progressisti, Umberto Eco che preparava lo scherzo sublime di "Il nome della rosa", Dario Fo con il suo teatro militante, il Soccorso rosso che reclutava fiancheggiatori, nonchè Carlo Ginzburg e Vittorio Foa, Lotta continua e l’Autonomia, la guerriglia e la liberazione, rivoluzionari, dadaisti, nichilisti, indiani metrò. Mentre dall’altra parte c’era l’arco costituzionale, i partiti, Zangheri che diceva "ci vuole il dialogo fra la città e gli studenti, escludendo i fautori della violenza"ª. Questione di incomunicabilità. Lavorare con lentezza era impossibile anche allora, perchè i movimenti avevano un bisogno matto di velocità, di efficacia grafica, di creazione parolibera, mentre la politica è troppo lenta rispetto ai tempi nuovi. Per questo adesso tutti parlano di memoria: "Memoria dei movimenti, memoria moltepliceª, secondo Wu Ming. "Tutte le storie parlano di oggi. E di domani"ª, dice Guido Chiesa, uno che pure preferisce "l’ironia alla nostalgia"ª. A proposito: l’espressione "lavorare con lentezza" viene da una canzone che ogni mattina apriva le trasmissioni di Radio Alice, un brano del pugliese Enzo Del Re, oltranzista della canzone politica di quegli anni, abituato a chiedere come compenso il minimo sindacale della paga di una giornata di lavoro di un metalmeccanico. Ma forse la canzone che meglio definisce quei tempi Ë di Rino Gaetano, "Mio fratello è figlio unico", che in poche strofe fa ancora ricordare che le contraddizioni sono allora e sempre in seno al popolo.
09.09.2004