240 risultati per in "LA STAMPA"
LA STAMPA, 25.10.1998
PARTITA INFINITA
Pace, innanzitutto, ai tifosi di buona volontà. Juve-Inter non è una rivincita, è solo un altro capitolo del loro duello infinito. La qualità essenziale del calcio è che a ogni stagione si riparte: i veleni dell'anno prima, le iniquità arbitrali, i rigori negati possono essere evocati solo dai viziosi del rancore. A mente fredda, un tifoso anche ragionevolmente fanatico dovrebbe ripensare a quella famosa entrata primaverile di Juliano su Ronaldo come a uno di quegli accidenti della storia di cui sono piene le cronache. L'importante è ricominciare; tutto il resto è storicamente «il passato di un'illusione». Magnifica illusione, naturalmente, una delle poche ancora coltivabili senza revisionismi. Anche perché il bipartitismo rappresentato da bianconeri e nerazzurri è uno dei meno imperfetti fra quelli sperimentati in Italia. Non si conoscono passaggi da uno schieramento all'altro, ribaltoni, trasformismi, e i «ladri di tifo» non hanno cittadinanza calcistica. Si diventa juventini o interisti obbedendo a misteriose alchimie antropologiche e psichiche, e non si cambia mai. Ciascuno poi interpreta la propria juventinità o il proprio interismo a proprio modo. L'amore tribale per una squadra è la somma di scelte infantili, e quindi potentissime, di decisioni irrazionali, e perciò indiscutibili. Per questo, Juve e Inter sono due storie parallele che si cristallizzano in due dogmi distinti e distanti. Quella bianconera è un'Italia condannata a vincere, e che vive la sua condanna con una tensione perenne, con una sottile e continua sofferenza che grazie al cielo (e grazie ora a Platini ora a Del Piero) trova rimedi di eccezionale efficacia. I suoi sostenitori si sono abituati a una squadra che non è la più forte: semmai è quella che vince di più. La differenza sembrerà capziosa, ma in essa si situa l'apprensività juventina, quella sensazione di fondo che fa apparire dovuti i successi, più dolorose le sconfitte, e inquiete perciò le aspettative. Il partito interista è tutt'altra cosa. Dai tempi eccelsi ma lontani di Suarez e Mazzola, per capire l'umore dei tifosi dell'Inter converrebbe leggere ciò che lo scrittore inglese Nick Hornby ha detto di sé in quanto tifoso dell'Arsenal (per decenni squadra avarissima, sgraziata, perfino dolorosa): «la condizione naturale del tifoso è un'amara delusione». L'Inter è una squadra che ha fatto soffrire i suoi sostenitori, è riuscita a dare corpo a tutti i loro timori, ha fatto angosciosamente avverare le previsioni più disastrose. Finché non è arrivato Ronaldo, cioè l'Asso, o l'Assoluto. Un giocatore che fa tornare la voglia di fare il tifo, al di là di ogni amarezza passata presente e futura. Che ha ridato agli interisti l'orgoglio di dichiararsi interisti. E di sfidare la Juve, una volta di più, in questo nuovo confronto autunnale: con i bianconeri che continueranno a lottare, per loro eterna condanna, e i nerazzurri a sperare, contro il passato della loro delusione.
LA STAMPA, 19.10.1998
SE FINI STRIZZA L’OCCHIO
Il Polo si sta lentamente riprendendo dallo shock provocato dal contratto che sta per essere stipulato fra D'Alema e Cossiga. Ieri, nella Sala della Regina della Camera, durante l'assemblea dei parlamentari del centrodestra ha rifatto capolino la politica. Certo, all'inizio si è assistito alle prevedibili anche se talora violentissime accuse contro Scalfaro, «l'arbitro che gioca contro di noi», all'indignazione contro il furto di voti dei parlamentari cossighiani, agli annunci di manifestazioni contro la «congiura di palazzo» in corso di perfezionamento. Ciò rappresenta più che altro un'espressione di emotività politica, e sarebbe stato soltanto il sigillo dell'impotenza del Polo, se Gianfranco Fini non avesse avuto l'accortezza di rilanciare, delineando una prospettiva politica che sembra guardare molto al di là della situazione contingente. Il leader di An infatti ha posto nuovamente sul tappeto il tema dell'assemblea costituente, formulando così una sfida esplicita a Cossiga, storico sostenitore di questa soluzione. Perché la scelta di questa variante tattica? Da parte di Fini c'è la percezione nitida che il disegno di Cossiga potrebbe rivelarsi nel medio periodo molto insidioso per il Polo. Non è un segreto che la «politica tra complici», il patto a termine di cui ha parlato ieri su queste colonne Barbara Spinelli prefigura fin d'ora la nascita di uno schieramento di centro, alternativo al versante socialdemocratico, che avrebbe nel corredo genetico l'intenzione di svuotare il Polo, e l'obiettivo ancora più esplicito di marginalizzare politicamente An. La mossa del presidente di An nasce quindi prima di tutto da un intento autodifensivo. Fini sa bene che se oggi il Polo si autoemarginasse, se coltivasse l'illusione di fare opposizione di piazza e di strada, potrebbe rischiare prima uno sgocciolio poi un'emorragia verso l'Udr. Anche perché Cossiga farà di tutto per dimostrare che questo centrosinistra appena inventato è di fatto una grande coalizione (la più grande possibile nella situazione data), che essa è garantita e rappresentata in primo luogo da lui, e coloro che sono esclusi da questa intesa vanno considerati alla stregua di forze extraparlamentari. Il rilancio dell'assemblea costituente rappresenta quindi qualcosa in più di un messaggio. Se è vero che in politica una delle virtù migliori consiste nella capacità di scegliere gli avversari, Fini questa scelta sembra averla già fatta, e in modo tutt'altro che conformistico. Forse non è una forzatura vedere nella sua ipotesi, nel suo «spunto di riflessione» (come l'ha presentato ai parlamentari del Polo), almeno un pizzico di sfiducia sulla tenuta futura del centrodestra, e quindi un'apertura a soluzioni potenzialmente diverse. Per qualche aspetto, scegliere come avversario Cossiga oggi può voler dire scegliere un interlocutore che domani potrebbe tramutarsi in un punto di riferimento. È un momento in cui vincono i realisti, e Fini non manca certo di realismo. Ha preso atto che l'accordo di D'Alema con Cossiga si profila come qualcosa di politicamente pesante, forse cruciale, che ridisegnerà le linee interne di tutto il sistema politico. Siccome la politica del lamento non è nelle sue corde, comincia a gettare ponti. Potrebbe non ottenere risposte nell'immediato, visto che a questo punto non si vede quale interesse abbia Cossiga a movimentare nuovamente la situazione con l'elezione della costituente. Ma quelle a cui mostra di puntare sono le risposte per il futuro: oltre il Duemila. E chissà, forse oltre il Polo.
LA STAMPA, 14.10.1998
MA E’ ALTO IL PREZZO DA PAGARE
La prudenza del presidente della Repubblica è diventata di nuovo protagonista della fase politica. Occorreva trovare il modo di mettersi alle spalle il voto sulla fiducia che aveva costretto il governo alle dimissioni, di cicatrizzare le ferite nei partiti e nello schieramento di centrosinistra. Il Quirinale ha trovato la formula nel «pre-incarico» a Prodi. È un metodo che serve a stemperare le conflittualità e ad accertare se effettivamente esiste la base parlamentare necessaria per sostenere un nuovo governo. Ma è anche una scelta che rivela le difficoltà oggettive di trovare una soluzione convincente alla crisi. Per ora si può solo dire che Scalfaro ha preso una decisione pressoché obbligata: l'indicazione unanime dei partiti dell'Ulivo, senza candidature subordinate, insieme con il possibilismo di Cossiga, conduceva automaticamente a Prodi. Nello stesso tempo tuttavia c'è da osservare che la crisi è lungi dall'essere risolta e che i passaggi possono essere ancora numerosi e complessi. Cossiga e l'Udr infatti, in cambio di un via libera, devono dimostrare di avere sradicato l'Ulivo in quanto alleanza politica. Prodi, al contrario, per dare seguito alla sua rivendicazione di «coerenza personale e politica» è obbligato a minimizzare il ruolo dell'Udr, a sottrarsi alle condizioni che gli sono state proposte, a evitare un coinvolgimento politico consistente dei cossighiani nella prossima maggioranza. A prima vista si tratta di due posizioni che non sembrano incoraggiare le prospettive del Prodi-bis. Ma ammettiamo pure che fra qualche obbligata ambiguità si riesca formare un nuovo esecutivo: il suo compito si limiterà all'approvazione della finanziaria. Un compito sicuramente rilevante, e necessario per il Paese, ma chiuso in se stesso. Riesce difficile pensare che sia possibile intervenire su temi che richiedano intese più ampie, ad esempio sulla questione cruciale della legge elettorale (tanto più che ieri il Polo all'unisono ha giudicato un'operazione «da saltimbanchi» il nuovo mandato a Prodi, prospettando di conseguenza un'opposizione senza sconti). Ci troviamo quindi davanti a una soluzione di basso profilo, suggerita più che altro dall'incombere delle circostanze e dal convergere degli interessi sul punto di minore resistenza? È presto per dirlo con sicurezza, ed è presto anche per valutare quali implicazioni ha, sul piano politico generale, la soluzione basata «sulle forze politiche che hanno votato il Dpef». Di sicuro sappiamo solo che i giorni dopo la crisi sono stati percorsi da una sorda contrapposizione fra i partiti della coalizione di centrosinistra, a cominciare naturalmente dai Ds, e il partito virtuale dell'Ulivo. La ri-designazione del premier dimissionario è anche il frutto del timore che Prodi potesse radicalizzare le sue posizioni, agitare il simbolo dell'Ulivo in funzione anti-partitica, cercare mobilitazioni dal basso, approfondire le divisioni che esistono nel centrosinistra sulla natura e il formato dell'alleanza politica. Proprio per questo, mentre rimane intatto l'auspicio che un governo si faccia, e che riesca ad affrontare con linearità e puntualità il compito essenziale per cui verrà formato, viene spontaneo rilevare che le premesse da cui nasce sono largamente insoddisfacenti. Le condizioni elencate da Prodi per dare vita a un governo sono due: una coerenza politico-programmatica con l'esperienza precedente; una solida base di consenso parlamentare. Bene, le due condizioni sono in realtà una contraddizione piena. Soltanto con l'accettare la nuova designazione, Prodi ha negato di fatto tutto ciò che ha sostenuto negli ultimi giorni. Malgrado i toni sopra il rigo del suo intervento bolognese di domenica scorsa, il leader dell'Ulivo aveva visto trasformarsi lo schiaffo in Parlamento in un successo di stima per la coerenza e l'integrità del proprio comportamento. Il tentativo in cui è impegnato fin d'ora sarà invece intessuto di compromessi, di negoziati poco trasparenti, di accordi opachi. Comunque vada a finire, Prodi rischia di perdere una parte significativa della sua credibilità. La sua sconfitta alla Camera era stata brutale ma onorevole. Un suo eventuale successo, cioè la rinascita octroyéé come successore di se stesso, potrebbe consegnare agli italiani un uomo politico di lungo corso in più, e un programma, un progetto, un'idea in meno.
LA STAMPA, 03.10.1998
SE IL POLO BATTE UN COLPO
Una concezione meccanica del bipolarismo sta portando l'opposizione ad autoescludersi dalla vicenda politica. Come risultato, la crisi del governo Prodi viene percepita come un processo che avviene tutto dentro il cerchio stregato e intoccabile del centrosinistra, come se fosse un cupio dissolvi autogestito, e con il centrodestra che se ne sta beato a guardare. Si tratta di valutare in primo luogo se la logica bipolare contempli come unica strategia per l'opposizione quella di assistere inerte allo spettacolo della coalizione avversa che va in pezzi. Oppure se non sia il caso di agire politicamente, di intervenire nella crisi, di prendere iniziative per condizionare il succedersi degli avvenimenti. Per varie settimane il Polo si è limitato a guardare con scetticismo quella che ha considerato a lungo l'ennesima sceneggiata di Bertinotti, per poi manifestare un interesse esclusivamente estetico per l'aggravarsi della frattura nella maggioranza. Berlusconi ha diramato i soliti sondaggi prodigiosi, Fini e Casini hanno ripetuto di aspettarsi il solito mediocre compromesso capace di salvare in extremis il centrosinistra. E adesso, mentre la crisi raggiunge ogni giorno livelli crescenti di gravità, il Polo continua a fare da spettatore, ancora del tutto avulso dal gioco. Sarà rigorosamente bipolare, ma questa non è una strategia. È tutt'alpiù voyeurismo politico. Guardare da fuori ciò che avviene dentro la maggioranza può portare a qualche soddisfazione vicaria, ma difficilmente a risultati politici di qualche entità. Fossimo ancora nella Prima repubblica, davanti a una crisi seria avremmo assistito a un lavorio di diplomazie, a contatti fra correnti contigue di partiti opposti, a tentativi dell'opposizione di modificare gli equilibri di potere e comunque di esercitare un'influenza sulla ssfumatura finale delle soluzioni. Ieri l'eccesso, cioè i balletti partitocratici, adesso il nulla. Con il risultato che il protagonista assoluto della crisi, a parte Bertinotti, è inevitabilmente Cossiga con i suoi ultimi indiani centristi, l'unico uomo politico che perlomeno ha cominciato ad aggirarsi intorno al recinto dell'Ulivo e a sollevare nuvole di fumo e ipotesi politiche. Ciò che sembra sfuggire ai capi del Polo è che l'estraneità tende inevitabilmente a confermare se stessa: restare fuori adesso significa avere buone probabilità di restare fuori anche in futuro. Non ci sono infatti, malgrado gli avvertimenti lanciati per dovere d'ufficio di D'Alema, ragionevoli possibilità di elezioni anticipate. La finanziaria deve essere approvata in ogni caso, pena un cataclisma nazionale. Il realismo comunista di Cossutta si pone con una certa angoscia il problema dei contraccolpi che avrebbe l'accusa di riconsegnare l'Italia alla destra. Tutto questo mentre l'intelligenza politica di Cossiga è alla ricerca dell'occasione migliore per dare un ruolo risolutivo all'Udr, eventualmente sotto il manto dell'interesse nazionale, della laica responsabilità civica, del cristianissimo bene comune. Tutti sono in movimento quindi, tranne il Polo. Ma può uno schieramento politico aspettare la caduta di Gerico semplicemente facendo squillare di tanto in tanto le cattiverie antigovernative di Tremonti o le certezze apodittiche dei Pisanu e dei La Loggia? Oppure non sarebbe il caso di cercare di inserirsi nelle pieghe della crisi, per individuare un punto critico ed eventualmente per forzare la situazione e orientarla a proprio vantaggio? Di per sé l'interesse del Polo e in particolare di Forza Italia è definibile semplicemente: il centrodestra ha bisogno di assecondare la crisi del centrosinistra e di mettere in rilievo i limiti dell'Ulivo, ma con i comportamenti di una forza moderata e responsabile, senza passare per il partito dello sfascio. Su un piano diverso, ma politicamente cruciale, il centrodestra ha la necessità di battere strategicamente Cossiga e l'Udr, cioè chi è portatore di un'alternativa secca di riaggregazione del centro moderato. C'è un modo per ottenere questi obiettivi? C'è sicuramente se il Polo è capace di mettere in discussione la sua linea di condotta, se accetta di rimettersi in partita, se non si fa incantare dalla propria sdegnosa solitudine. Uno fra questi modi, forse il più clamoroso ma non certo il più irrazionale, consisterebbe per esempio nel presentarsi davanti all'opinione pubblica e di annunciare ufficialmente che il centrodestra, per una bella e nobile serie di ragioni, decide di votare la finanziaria del governo Prodi, senza contropartite. Le conseguenze di una decisione del genere possono essere soltanto immaginate. Ma vogliamo elencarne qualcuna? Grave e forse definitiva battuta d'arresto dell'Udr, imbarazzo della maggioranza, interesse dei Popolari e di tutta l'area centrista dell'Ulivo, dimostrazione di responsabilità politica, successo d'immagine fra i cittadini, e via a catena. Sono effetti virtuali, naturalmente, dal momento che nessuno nel Polo sembra particolarmente desideroso di uscire dall'isolamento. Quindi allo stato dei fatti è fantapolitica. Ma o ci sono iniziative di questo tipo, originali, decise con piglio manovriero, anche politicamente sfrontate e bipolarmente eretiche, oppure il Polo si esibirà ancora una volta nel suo piccolo Aventino antigovernativo, la regolare specialità di fine anno che non maschera del tutto la sua inefficacia politica.
LA STAMPA, 30.09.1998
UNA STAGIONE FINITA
Malgrado tutto, Francesco Saverio Borrelli non è mai stato un simbolo. Troppo intellettuale, borghese, sosfisticato: il simbolo autentico di Mani pulite era il «plebeo» Di Pietro. Borrelli non ha mai lanciato proclami sulla diffusione di Mani pulite nel mondo: si direbbe piuttosto che abbia trattato le indagini su Tangentopoli come un esercizio di razionalità organizzativa. A suo tempo non ha mancato di spedire avvertimenti al mondo della politica, invitando chi aveva «scheletri nell'armadio» a farsi da parte. Ma sarebbe sommario attribuirgli un'etichetta giustizialista. Dal giorno dell'arresto di Mario Chiesa, il 17 febbraio 1992, a oggi, il freddo, razionale, illuminista Borrelli ha attraversato un'altalena sconvolgente: era il capo di una struttura investigativa divenuta popolarissima perché i suoi uomini avevano messo allo scoperto Tangentopoli; poi, in seguito a una guerra via via più rovente con Berlusconi e il Polo, è divenuto la «toga rossa», l'esempio più scandaloso dell'uso politico della giustizia. In questi anni in realtà Borrelli ha convissuto non solo con l'aspro conflitto politico innescato dalle inchieste giudiziarie e dai processi, ma anche con un impulso, un orientamento, una tentazione coessenziale con Mani pulite, che ha serpeggiato per tutti questi sei anni e che non è mai giunta a compimento: la tentazione (sommata alla percezione della necessità) di dare una sistemazione a ciò che l'inchiesta di Milano aveva aperto. È una vicenda che comincia assai presto, se è vero che è proprio uno dei pm di punta del pool, Gherardo Colombo, a ipotizzare una soluzione politica per Tangentopoli, solo pochi mesi dopo l'arresto di Mario Chiesa, nella consapevolezza che la magistratura non potesse assumersi i doveri dlela politica. Sotto il governo Amato, nel marzo 1993, un tentativo organico di arrangiamento viene praticato con la fallita operazione del decreto Conso, affossato come tentato colpo di spugna. Nel luglio 1994 è la volta del decreto Biondi sulla custodia cautelare, quello che provoca la rivolta televisiva del pool e lo scatenamento del «popolo dei fax». All'inizio del settembre successivo, ecco «l'articolato di Cernobbio», una specie di disegno di legge preparato da Di Pietro con il pool e alcuni avvocati milanesi per una «soluzione legislativa» di Tangentopoli. Infine c'è da sottolineare l'episodio più controverso dell'era Mani pulite, cioè l'addio di Di Pietro alla magistratura, quella toga abbandonata il 6 dicembre 1994 che ieri Borrelli ha ricordato come la delusione più grave della sua esperienza di magistrato. Il fatto è che la questione giudiziaria è fortemente condizionata da una transizione politica irrisolta. Se un sistema elettorale più lineare avesse condotto a un rinnovamento radicale di partiti e schieramenti, e se la riforma delle istituzioni avesse avuto successo, il ridisegno dei confini fra politica e magistratura sarebbe avvenuto fisiologicamente, come effetto della nuova architettura. Dal momento invece che la giustizia è restata una fonte di conflitto fra i due schieramenti principali (e anche all'interno del centrosinistra), si è assistito allo scambio mancato dentro la Commissione bicamerale, e quindi al suo fallimento. Quindi la decisione di Borrelli di abbandonare il pool è forse figlia di una rassegnazione giustificata dal succedersi degli eventi. La parte «storica» di Mani pulite è agli atti. Ora rimarrebbe da trovare quell'equilibrio che è saltato in modo drammatico e che non si è ancora riusciti a ripristinare. I grandi progetti istituzionali si sono rivelati fallimentari; l'azione giudiziaria ha perduto l'alone di consenso generale che aveva all'inizio. È probabile quindi che Borrelli abbia pensato che il miglior modo per rientrare nella normalità consista nel ridare peso ai meccanismi dell'ordine giudiziario, alle funzioni di carriera. Visto che la rivoluzione è rimasta incompiuta, tanto vale tornare alla burocrazia: nella certezza che l'unica riforma davvero praticabile è quella di laicizzare le inchieste, reinserirle in funzionamenti spersonalizzati, rinunciando defininitivamente agli eroi, da una parte, e ai geni del male, dall'altra.
LA STAMPA, 24.09.1998, SOCIETA' E CULTURA
LA TERZA VIA LASTRICATA DI SPINE
Come si stronca un guru? Per saperlo basta leggere il giudizio che l'Economist ha dedicato al libro di Anthony Giddens The Third Way, mandato nelle librerie inglesi dall'editrice Polity Press a metà settembre. Va da sé che espressioni come «terza via» sembrano fatte apposta per attirarsi le stroncature, anche in tempi di centrosinistra «mondiale». Ma Giddens non è un intellettuale qualsiasi: dopo una lunga militanza accademica a Cambridge, che lo ha imposto come uno dei migliori sociologi contemporanei, è diventato il direttore della London School of Economics, e uno degli ispiratori principali di Tony Blair e del New Labour. L'Economist non ha avuto dubbi: «Questo libro è tremendamente, magistralmente e per certi aspetti disturbantemente vacuo». Il fatto è, scrive la bibbia liberista, che la terza via fra socialdemocrazia e neoliberismo non è solo una chiacchiera da salotto per intellettuali, è diventata anche la dottrina filosofica semiufficiale del partito laborista, e ha fatto da sfondo al «curious political seminar» newyorkese con Clinton, Blair e Prodi. E quindi va presa sul serio, magari per registrare che la terza via di Giddens è lastricata di genericità: cosicché alla fine di 170 pagine di aria fritta, fumosità, «appelli convenzionali alla virtù civica», rimane solo un criterio accertabile: «in base a questo libro, la terza via è qualunque cosa faccia il New Labour». Propaganda, insomma. Che cos'è, malizia politica, faziosità anti-blairista, taccagneria conservatrice verso l'aerea generosità intellettuale del teorizzatore del «realismo utopico»? Certo, lo sberleffo dell'Economist è distruttivo. Ma per capire qualcosa in più su questa polemica, conviene fare un passo indietro. Praticamente tutto ciò che è contenuto in The Third Way trova la sua matrice in un altro libro di Giddens, Oltre la destra e la sinistra, uscito nel 1994 e presentato in Italia un anno fa dal Mulino. Un saggio in cui, secondo il manifesto, il sociologo inglese compie una vera e propria elaborazione del lutto per la "morte" del socialismo in tutte le sue versioni». Oltre la destra e la sinistra nasceva dalla consapevolezza secondo cui nel mondo attuale «il conservatorismo fattosi radicale si oppone al socialismo divenuto conservatore». Preso dentro questo rovesciamento, Giddens elaborava il suo discorso filosofico-politico del «centro radicale»: ci accingiamo a vivere nell'era della «post-scarsità», nel regno dei valori «postmaterialisti» analizzato da Ronald Inglehart. In questa prospettiva, e «in un universo sociale in cui i possibili futuri non solo sono costantemente valutati rispetto al presente, ma contribuiscono attivamente a plasmarlo», le categorie politiche classiche appaiono insignificanti. Nel futuro universo sociale pensato da Giddens, e quindi in parte già oggi, la politica deve intervenire sugli squilibri di potere piuttosto che sulla distribuzione del reddito, e poi sul decentramento dei livelli di governo, sulla presenza di povertà; il welfare deve diventare «positivo» (incorporando il rischio anziché offrendo una tutela) e la dimensione ecologica acquista un rilievo cruciale. Ci dev'essere effettivamente un sortilegio nella London School of Economics, se è vero che un famoso ex direttore della scuola, Ralf Dahrendorf, ebbe a dire che essa «ha sempre vissuto sul rischioso crinale dove si incrociano l'ambizione di comprendere le cose e l'ambizione di cambiarle». Per Giddens, che per più di vent'anni è stato apprezzato anche come quadrato costruttore di manuali sociologici, questo sortilegio si è espresso con la maturazione di interessi non convenzionali (a cominciare dal saggio dedicato nel 1995 a La trasformazione dell'intimità), per finire pericolosamente in politica con «la terza via». Questo suo ultimo e controverso libro va preso innanzitutto per quello che è, non per come lo hanno salutato i critici più sbilanciati a sinistra: non una grande opera di teoria ma un prontuario divulgativo. All'incirca «tutto quello che avreste voluto sapere sulla terza via». Con tanto di riepiloghi, di elenchi, di box. Tutto questo per provare a dare struttura e sostanza ad argomenti ad un tempo pesantissimi e leggerissimi. Perché il mondo contemporaneo, dice Giddens, è dominato e permeato da cinque dilemmi: la globalizzazione, il nuovo individualismo, il binomio destra/sinistra, il ruolo della politica, il tema ecologico. Questi cinque dilemmi (che l'Economist naturalmente fa a pezzi: «perché cinque e non quattordici, o altri cinque dilemmi differenti?») interagiscono intensificando a dismisura il loro effetto: la globalizzazione attacca lo stato-nazione e plasma il nuovo individualismo, che mina la solidarietà meccanizzata del welfare, mentre si profilano aree di rischio, come quello ambientale, su cui l'individuo non può nulla, gli stati-nazione possono poco, e rispetto al quale la contrapposizione destra/sinistra finisce per rivelarsi irrilevante. Il programma della terza via, ridotto a un elenco, è una serie di formule che hanno il pregio di irritare qualsiasi mentalità conservatrice, o semplicemente abituata a ragionare in termini fattuali. Che cosa vuole dire «società civile attiva», «nuova economia mista», «nazione cosmopolita»? Sono termini politicamente significativi o solo buoni auspici, wishful thinking progressista, buonismo postmoderno? L'ironia dell'Economist ha fissato l'intollerabile leggerezza delle categorie interpretative di Giddens. Ma forse la critica in questo caso è stata troppo facile. L'errore del sociologo inglese, semmai, è stato quello di portare le sue dottrine analitiche al livello di un manifesto politico: mettendo insieme in tal modo l'apoditticità del pamphlet e la rarefazione del teorico. Con il risultato di sembrare, alla fine, sicurissimo di sé e irrimediabilmente generico: cioè senza accorgersi che unendo una virtù accademica a un vizio politico non si fa molta strada, neanche sulla terza via.
LA STAMPA, 17.09.1998
L’AMBIGUITA’ COME STRATEGIA
Quante volte era echeggiato nelle ultime settimane l'aut aut bertinottiano «svolta o rottura»? Su questa alternativa era appesa, almeno figurativamente, la legge finanziaria, e dunque la sorte del governo e della maggioranza. Ma in conclusione del vertice di ieri, la politica ha compiuto un altro dei suoi minimalisti miracoli in grigio, quelli che stingono le differenze, limano gli opposti, smussano gli angoli senza fornire soluzioni. Fatto sta che Bertinotti dice che non c'è svolta, e gli altri, D'Alema in testa, rispondono che non c'è neanche rottura. Sicuramente non c'è il clima di dramma politico che si verificò un anno fa, quando il leader di Rifondazione portò la crisi (quasi) sino in fondo. E a differenza di allora i protagonisti di questa fase sono tutti attori dimezzati, nessuno dei quali è in grado di tenere una scelta in modo radicale. Prodi e i partiti dell'Ulivo infatti non hanno più nel proprio arsenale il deterrente credibile delle elezioni anticipate; nello stesso tempo non appare praticabile nemmeno l'idea del ribaltino, cioè la sostituzione di Rifondazione comunista con l'Udr di Cossiga, con i rischi conseguenti di rimescolamento politico generale. Dal canto suo, Bertinotti non appare nelle condizioni di poter portare il conflitto all'estremo, pena una lacerazione già serpeggiante nel suo partito. Quindi il negoziato in corso avviene sotto il segno della necessità, delle vie obbligate. È necessario per la maggioranza trovare un accordo con Bertinotti, è necessario per quest'ultimo trovare modo di accordarsi con Prodi e D'Alema senza dimostrare di avere ceduto. E l'unico modo per fare scelte a senso unico senza dare l'impressione di avere perso la dignità consiste nel restare nell'ambiguità. Dal punto di vista degli equilibri politici, si tratta della soluzione più comoda, dato che permette di scivolare in avanti senza traumi, da un accordicchio all'altro, da una mezza rottura a una mezza ricucitura. Restare nell'ambiguità consente innanzitutto al governo di durare; e in secondo luogo concede a Bertinotti la possibilità di «tenere aperto il problema» e perciò di riproporre continuamente la sua presenza politica reclamando innovazioni clamorose di politica economica e incalzando il riformismo del governo da posizioni esplicitamente classiste. Anche se è un buon esempio di fantasia della politica, il copione dell'ambiguità ha anche effetti molto negativi. Rende insignificanti agli occhi dell'opinione pubblica i contenuti della politica governativa. Fa svanire nell'indifferenza pubblica una finanziaria che ha il timido aspetto di un convalescente dopo sei anni di terapie dolorose. Mortifica le aperture a sostegno dello sviluppo e dell'occupazione. Toglie visibilità le misure sociali ipotizzate a favore dei ceti più svantaggiati. Inoltre la strategia dell'ambiguità, l'unica empiricamente praticabile fra centrosinistra e Rifondazione, mantiene il Paese in una specie di condizione sospesa. Getta sul governo un alone di imprecisione, che si riflette anche sul suo livello di consenso e di popolarità. Introduce incertezza quando occorrerebbero certezze programmatiche e credibilità operativa. Fa perdere di vista la prospettiva imponendo i ritmi del breve e del brevissimo periodo. Ma, come diventa sempre più chiaro, non ha alternative. A tutti è permesso sognare un altro mondo, dove non esistono né aut aut né compromessi continuamente rinnovati. Ma fuori dai sogni bisogna fare i conti con problemi come «o svolta o rottura», e con soluzioni in cui la svolta è una svoltina e la rottura si minaccia ma non si fa.
LA STAMPA, 05.09.1998
UNA CRISI A BASSA INTENSITA’
A volere una formula, la situazione politica è ancora riassumibile come una crisi a bassa intensità. Il centrosinistra infatti è attraversato da conflitti che coinvolgono più o meno tutti i partiti, ma nello stesso tempo è ragionevolmente improbabile che si verifichi un evento davvero traumatico. Si ha piuttosto l'impressione che tutta l'area che ruota attorno al governo, compresa ovviamente Rifondazione comunista e compresa meno ovviamente l'Udr, debba trovare un riequilibrio; e che il raggiungimento di questo equilibrio dipenda non tanto dalle intenzioni esplicite dei partiti e dei leader, quanto dalla loro adattabilità alle circostanze. Ciò significa che i movimenti di questi giorni sono per lo più inerziali, e che in giro c'è poca politica. Tranne che per Rifondazione comunista, che è in gioco come partito, non sono in discussione né orientamenti politico-ideologici cruciali né scelte di lungo periodo. Si tratta più che altro di assestamenti, nei quali contano interessi parziali, ma in cui le variazioni negli addendi non stravolgono il bilancio complessivo. Ci si aspettava che qualcuno prendesse l'iniziativa di dare uno scrollone, e si capiva che questo qualcuno non poteva essere Bertinotti: il segretario di Rifondazione si trova in una condizione con pochi sbocchi, con il partito alle soglie di una spaccatura brutale, con la poco brillante prospettiva di essere considerato il distruttore del centrosinistra, l'autore di un regalo storico alla destra, e tutto questo senza citare le serpeggianti minacce di ribaltino con l'Udr. Invece erano attese iniziative dalle parti di Massimo D'Alema. Perché era da troppo tempo all'angolo, e aveva bisogno di recuperare un ruolo qualificante, togliendosi di dosso i bruciori delle sconfitte. Ma ieri, con la riunione del coordinamento nazionale dell'Ulivo, anche D'Alema ha scelto il profilo moderato. Niente invenzioni troppo movimentiste. Si ricuce, si riprende a tessere. Dopo avere accennato a qualche avance verso Cossiga, D'Alema si è premurato di chiarire che sulla Finanziaria i voti dell'Udr sono benvenuti ma vanno considerati «aggiuntivi» e non «sostitutivi» rispetto a Rifondazione comunista. Il poco che D'Alema ha mandato a dire non è del tutto insignificante. Tradotto in chiaro, significa: malgrado un certo successo come entità parlamentare, l'Udr per ora è un contenitore virtuale; non ci sono in vista collassi del Polo che consentano nell'elettorato la reincarnazione neocentrista pilotata da Cossiga a svantaggio di Fini e Berlusconi; tanto vale che l'Udr si affianchi alla maggioranza, bilanciando simmetricamente Rifondazione e conferendo al centrosinistra quasi la dimensione di «governo nazionale». E con la gradevole prospettiva di consentire a D'Alema di poter giostrare con maggiore libertà, fare l'ambasciatore viaggiante su un arco politicamente molto esteso, di poter trattare senza pregiudizi sull'occupazione e l'economia con Bertinotti, e con l'opposizione alcuni temi come la riforma della giustizia. Qualche tessera ha già cominciato timidamente a sistemarsi. Prodi rilancia l'Ulivo proiettandolo verso le elezioni europee, e nello stesso tempo si prende perfino la briga di avanzare qualche inatteso messaggio distensivo all'opposizione. Il problema, adesso, è come si passa dalla crisi serpeggiante a una nuova stabilizzazione. Il percorso è complicato, incontrerà inciampi e difficoltà, ma non ha alternative razionali. L'area della maggioranza tende a estendersi, stemperando così le possibilità di condizionamento dei singoli partiti. Nello stesso tempo riprende vigore l'ipotesi del «patto sociale» proposto da Ciampi (che ieri ha trovato l'approvazione anche di Gianni Agnelli), cioè una riedizione del modulo neocorporativo della concertazione. Prodi ha parlato della prossima Finanziaria come di una legge «di rilancio» e «attenta all'equità», mandando così segnali a sinistra. Alla fine il puzzle domestico, per quanto irritante appaia la difficoltà della soluzione a tentoni, potrebbe effettivamente comporsi. C'è da chiedersi invece come sia possibile da un lato governare efficacemente (soprattutto in un momento mondiale che richiede credibilità politica e incisività operativa), all'interno di un'alleanza sempre più larga e fondamentalmente compromissoria. Oppure, su un altro piano, come si può perseguire l'obiettivo leggero della semplificazione e della flessibilità attraverso il macchinoso e pesante sistema della triangolazione fra governo, imprese e sindacati. Ma tant'è: se è vero che ha perso spinta propulsiva, l'Ulivo non ha perso affatto in estensione. Tende di nuovo a diventare un'alleanza-sistema, rappresentando e compensando al proprio interno il conflitto politico. Può essere proprio questo, il prezzo intrinseco della stabilità. D'altronde, dato che probabilmente la maggioranza può trovare il mezzo per neutralizzare Bertinotti, non si vede chi e dove sia qualcuno che abbia interesse a rompere. Eventualmente le tentazioni sono a entrare. E se il centrosinistra diventa «lungo», vuole dire che il suo sarà il tempo in cui si tratta tutto, di continuo: ma sempre sotto il segno del necessario e dell'inevitabile.
pagina
di 20