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L’AMBIGUITA’ COME STRATEGIA

17.09.1998

Quante volte era echeggiato nelle ultime settimane l’aut aut bertinottiano «svolta o rottura»? Su questa alternativa era appesa, almeno figurativamente, la legge finanziaria, e dunque la sorte del governo e della maggioranza. Ma in conclusione del vertice di ieri, la politica ha compiuto un altro dei suoi minimalisti miracoli in grigio, quelli che stingono le differenze, limano gli opposti, smussano gli angoli senza fornire soluzioni. Fatto sta che Bertinotti dice che non c’è svolta, e gli altri, D’Alema in testa, rispondono che non c’è neanche rottura. Sicuramente non c’è il clima di dramma politico che si verificò un anno fa, quando il leader di Rifondazione portò la crisi (quasi) sino in fondo. E a differenza di allora i protagonisti di questa fase sono tutti attori dimezzati, nessuno dei quali è in grado di tenere una scelta in modo radicale. Prodi e i partiti dell’Ulivo infatti non hanno più nel proprio arsenale il deterrente credibile delle elezioni anticipate; nello stesso tempo non appare praticabile nemmeno l’idea del ribaltino, cioè la sostituzione di Rifondazione comunista con l’Udr di Cossiga, con i rischi conseguenti di rimescolamento politico generale. Dal canto suo, Bertinotti non appare nelle condizioni di poter portare il conflitto all’estremo, pena una lacerazione già serpeggiante nel suo partito. Quindi il negoziato in corso avviene sotto il segno della necessità, delle vie obbligate. È necessario per la maggioranza trovare un accordo con Bertinotti, è necessario per quest’ultimo trovare modo di accordarsi con Prodi e D’Alema senza dimostrare di avere ceduto. E l’unico modo per fare scelte a senso unico senza dare l’impressione di avere perso la dignità consiste nel restare nell’ambiguità. Dal punto di vista degli equilibri politici, si tratta della soluzione più comoda, dato che permette di scivolare in avanti senza traumi, da un accordicchio all’altro, da una mezza rottura a una mezza ricucitura. Restare nell’ambiguità consente innanzitutto al governo di durare; e in secondo luogo concede a Bertinotti la possibilità di «tenere aperto il problema» e perciò di riproporre continuamente la sua presenza politica reclamando innovazioni clamorose di politica economica e incalzando il riformismo del governo da posizioni esplicitamente classiste. Anche se è un buon esempio di fantasia della politica, il copione dell’ambiguità ha anche effetti molto negativi. Rende insignificanti agli occhi dell’opinione pubblica i contenuti della politica governativa. Fa svanire nell’indifferenza pubblica una finanziaria che ha il timido aspetto di un convalescente dopo sei anni di terapie dolorose. Mortifica le aperture a sostegno dello sviluppo e dell’occupazione. Toglie visibilità le misure sociali ipotizzate a favore dei ceti più svantaggiati. Inoltre la strategia dell’ambiguità, l’unica empiricamente praticabile fra centrosinistra e Rifondazione, mantiene il Paese in una specie di condizione sospesa. Getta sul governo un alone di imprecisione, che si riflette anche sul suo livello di consenso e di popolarità. Introduce incertezza quando occorrerebbero certezze programmatiche e credibilità operativa. Fa perdere di vista la prospettiva imponendo i ritmi del breve e del brevissimo periodo. Ma, come diventa sempre più chiaro, non ha alternative. A tutti è permesso sognare un altro mondo, dove non esistono né aut aut né compromessi continuamente rinnovati. Ma fuori dai sogni bisogna fare i conti con problemi come «o svolta o rottura», e con soluzioni in cui la svolta è una svoltina e la rottura si minaccia ma non si fa.

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