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PANORAMA, 07.11.1996, STORIA DELLA SETTIMANA
IL SINDACATO NELL’ ERA DELLA NON – INFLAZIONE
Si diceva che l' inflazione, l' iniqua tassa sui poveri, è la lotta di classe condotta con altri mezzi. La definizione alla Clausewitz sintetizza efficacemente gli effetti redistributivi perversi dei processi inflazionistici. L' inflazione infatti è un "tiro alla fune" sociale che vede schierati da una parte coloro che possono resistere, attraverso le manovre sui prezzi, la rendita finanziaria o il possesso dei beni che si rivalutano, e dall' altra tutti coloro che invece devono rincorrere il costo della vita, e che malgrado le resistenze assistono al logoramento quotidiano del loro potere d' acquisto. Ma ora la prospettiva si è rovesciata. Dovremo abituarci a vivere in una realtà "tedesca", tendenzialmente senza inflazione. In attesa di abituarci a questa situazione stazionaria, c' è qualcuno che è chiamato a ristrutturare profondamente il suo ruolo politico e la sua presenza nella società. E`, inevitabilmente, il sindacato. Il quale per anni ha potuto sistemare il suo quartier generale proprio nel cuore del processo inflazionistico, da dove offriva ai suoi rappresentanti illusione monetaria: cioè il miraggio di riacchiappare la scia dei prezzi con gli incrementi nominali di stipendio. Era una leva generatrice di distorsioni; ma per capire il rilievo che aveva nella strategia sindacale basti pensare alle reazioni che provocò lo sbrego di Bettino Craxi sulla scala mobile, e che portò alla rottura dentro la Cgil e al referendum perdente del 1985. Invece oggi, mentre il governatore della Banca d' Italia Antonio Fazio tiene una severa linea ispirata alla volontà esplicita di stroncare l'inflazione, e mentre l' Europa di Maastricht si profila come un' area a inflazione tendente a zero, davanti al sindacato si profilano questioni inattese. Dal momento che non sarà più possibile proporsi ai propri rappresentati come i tutori del reddito nominale, e che non appare prevedibile - almeno nel medio periodo - che si tratterà di agire per assicurare la redistribuzione di una ricchezza in crescita, per il sindacato si configura la necessità improrogabile di darsi una strategia alternativa. Nell' attuale fase intermedia il sindacato è stato uno dei pilastri della concertazione. Ciò significa che la sua azione si è risolta in un faccia a faccia con il governo e gli imprenditori, centrato soprattutto sul controllo dei volumi macroeconomici. Tuttavia, la concertazione non può durare all' infinito; funziona nelle fasi di terapia intensiva, ma a lungo andare non può governare dal vertice tutte le differenze settoriali dell' economia. Ci sono settori infatti che guadagnano produttività, e in cui non si possono comprimere le spinte alla redistribuzione dei vantaggi conseguiti, mentre altri settori viaggiano a rilento. Rappresentare unitariamente tutto il mondo del lavoro, dal settore pubblico prigioniero della propria struttura burocratica al settore privato messo alla prova dalla concorrenza sul mercato, è ormai un'altra illusione. Per questo servirà a poco una posizione difensiva. Se vorrà avere una chance nella futura società senza inflazione, il sindacato dovrà trovare il modo di rispondere a necessità reali. Non gli servirà a nulla agire a tutela delle nicchie corporative, grandi e piccole: al di là di inevitabili problemi di equità, nel faccia a faccia con il governo risulterà sempre più efficace la posizione dei partiti "estremi" come Rifondazione comunista. Ci sono invece alcuni campi d' azione in positivo, nei quali il sindacato si giocherà la sua rappresentatività sociale. Sono gli ambiti della formazione, dell' occupazione e della ristrutturazione dello Stato sociale. Perché la formazione è un tema cruciale per rendere possibile la qualificazione (e la riqualificazione) della forza lavoro rispetto alle rivoluzioni dell' apparato produttivo. Per l' occupazione c' è la necessità di un' indagine radicale, e quindi di una presenza attiva sul territorio, per favorire tutte le opportunità di "job creation" fuori dalle rigidità esistenti. Quanto infine al problema del welfare state, c' è l' urgenza di recuperare un riferimento nei ceti che effettivamente subiscono il peso maggiore dell' impatto con il mercato. Quest' ultima è effettivamente una scelta drammatica, che riconduce a un principio di selettività rappresentativa. Il sindacato non sarà più il sindacato di tutti. Ma nel momento in cui il rischio che si configura è quello di una crescente divaricazione fra le classi, sarebbe un' altra illusione rivendicare la rappresentanza e la protezione di un esteso e indistinto ceto medio, tentando semplicemente di fare opposizione vischiosa alla dinamica di differenziazione già in atto.
PANORAMA, 24.10.1996, ATTUALITA' ITALIA
POLITICA AL RALLENTATORE
Tempo, non c' è tempo. La politica si schiaccia sul presente, senza intervalli fra l' azione e il risultato. Il governo Prodi ha oscuramente percepito questo appiattimento e ha cercato fin dall' inizio di neutralizzarlo con la "politica degli annunci": facciamo il federalismo, la riforma della scuola, la semplificazione fiscale, la Finanziaria europea, e tutto ciò come se il segnale di avvio coincidesse automaticamente con quello di arrivo. A suo tempo, il governo Berlusconi aveva creato gli spot governativi, il "fatto!" che doveva comunicare ai cittadini gli effetti concreti dell' attività dell' esecutivo. Perché ormai l'opinione pubblica si aspetta risultati immediati, verificabili senza aspettare la macchinosità della procedura legislativa e il burocratismo dell' attuazione. Si sa da sempre che il tempo in politica è una risorsa strategica. Ma oggi in Italia è anche una risorsa non disponibile. Dopo avere tollerato per quasi mezzo secolo la prevedibilità assoluta, un tempo politico uniforme, praticamente senza scansioni, gli italiani si sono abituati a ritmi politici brucianti, a catene di azioni e reazioni talmente accelerate da risultare incontrollabili politicamente. La prima grande accelerazione si è avviata con le campagne per i referendum elettorali. Si è avuta in quel periodo la sensazione di poter modificare la formula politica in diretta, fuori del circuito di mediazioni dei partiti e del Parlamento. E subito dopo si è avuta la sensazione di poter votare consegnando un mandato vincolante agli eletti. E' sorta l' illusione della democrazia diretta, l' eccitante quanto vacua convinzione di poter governare senza deleghe. Convinzione erronea perché la cosiddetta volontà popolare è pura mitologia politica; ma si può riconoscere che le aspettative messianiche proiettate sul sistema maggioritario avevano diffuso e reso apparentemente plausibile l' idea di poter trasformare senza mediazioni in azione di governo un programma politico sottoscritto a maggioranza dagli elettori. Che fosse un'aspettativa impropria è dimostrato dalla durata effimera del governo Berlusconi, ma non solo: anche il governo Prodi, insediato da non più di cinque mesi, si è già guadagnato bilanci definitivi, verdetti senza appello. C' è da chiedersi per quale ragione la psicologia collettiva ha interiorizzato questa impazienza. E' possibile che un simile atteggiamento sia stato modellato proprio dal ritmo convulso degli avvenimenti a partire dal 1992: Mani pulite, gli arresti quotidiani, la discesa in campo di Berlusconi, il raid elettorale del ' 94, il ribaltone, il nuovo scontro elettorale della primavera scorsa, la marcia sul Po: i tempi abitudinari sono stati sconvolti, ogni giorno contiene una novità, un avvenimento, uno scossone, una rivelazione, un trauma; e il sistema dei media riflette e intensifica questo stato di attesa permanente e di esplosioni continue. Rispetto a questo veloce e sincopato ritmo, l' attività di governo risulta insopportabilmente lenta, come del resto risulta lentissima, su un altro piano, l'attività processuale contro i responsabili di Tangentopoli rispetto alla spettacolare velocità degli arresti e degli avvisi di garanzia. Negli ultimi anni il tempo della politica è diventato il tempo "virtuale" di una campagna elettorale permanente, in cui si portano attacchi fulminei e si fanno promesse febbrili, con il sismografo dei sondaggi che misura in presa diretta il conseguente variare del consenso. Mentre nel tempo "reale" fra due elezioni, cioè nel tempo del governo e dell' amministrazione, ciò che viene percepito è l' andamento lento delle mediazioni entro la maggioranza, il gioco di compensazioni e risarcimenti tipico della contrattazione fra le parti, la complessa composizione degli interessi rappresentati dai partiti, e in definitiva la divaricazione sempre più appariscente fra obiettivo annunciato e tempo necessario per raggiungerlo. Si tratta di un problema intrinseco alla politica nelle società contemporanee: cioè società complesse che reclamano soluzioni semplici. E' un problema a cui le destre di solito offrono come risposta, nelle prime fasi di governo, una serie di provvedimenti shock, capaci di soddisfare la voglia di novità e di esprimere la tonalità programmatica del governo: seguiva questa logica il complesso di misure "espansive" predisposte da Giulio Tremonti all' inizio del governo Berlusconi. I governi di sinistra invece tendono a scalare nel tempo gli impegni: e sotto questa luce, se c' è una critica forse non marginale da rivolgere al governo attuale, è di non aver elaborato e presentato un' agenda, un calendario di programma, dando l' idea di voler annunciare il tutto e subito e di poter realizzare il poco e chissà quando.
PANORAMA, 17.10.1996, ATTUALITA' ITALIA
LA DESTRA IN PIAZZA? UNA BELLA SCOSSA
Tutti i giorni qualcuno annuncia mobilitazioni. Dopo il varo della Legge finanziaria il Polo ha evocato la "rabbia" dei ceti medi e medio-alti nel tentativo di spingerli contro il "governo delle tasse". Perfino il caro riapparso Mario Segni dipinge i suoi Comitati per l' assemblea costituente come gli arieti del nuovo che travolgeranno le resistenze dei conservatori. Ma se si cerca un atteggiamento che descriva questa Italia autunnale, anziché la rabbia, la collera, l' ira, insomma i sentimenti forti, si percepirebbe un sentimento debole e opaco, una specie di rassegnazione in grigio. E si capisce. Tutti gli strumenti tecnici escogitati per cercare di uscire dalla palude sono falliti o in via di fallimento. E' fallita la soluzione giudiziaria come sentiero per uscire dalla Prima repubblica e soprattutto come scorciatoia per entrare nella Seconda. Chi credeva infatti che l' azione di Mani pulite avrebbe bruciato il terreno intorno alla corruzione è stato smentito; il pool di Milano è riuscito a decapitare una classe dirigente ma il cerchio stregato che lega affari e politica non è stato interrotto. Nessuno ha ancora capito bene qual è il cuore dell' inchiesta spezzina, ma nondimeno l' immagine che si è avuta dei traffici fra l' ambiente di Lorenzo Necci e quello di Francesco Pacini Battaglia è stata deprimente. E in parallelo nessuno ha compreso perché un esponente di vertice del Pds come Cesare Salvi si è messo a fare animosamente le bucce ai magistrati milanesi. Considerazioni analoghe valgono anche per la riforma elettorale e istituzionale. Si era pensato infatti che lo strumento tecnico della legge maggioritaria avrebbe spezzato le collusioni fra i partiti, imponendo un trasparente rapporto di competizione fra due blocchi politici. Per certi aspetti, dopo la rivoluzione acefala provocata dalla scoperta di Tangentopoli il sistema maggioritario avrebbe dovuto essere l' equivalente figurato della ghigliottina, cioè un meccanismo politico duro, nitido, impietoso. E invece siamo sempre nei pressi dell' accordo non si sa quanto alto e nobile fra Silvio Berlusconi e Massimo D'Alema, mentre riappare Francesco Cossiga in veste referendaria, e le riforme sembrano un cantiere sull' autostrada, aperto senza scadenza. Si sono viste le privatizzazioni col buco della Comit e del Credito italiano, la conferma di boiardi storici come Ernesto Pascale e Biagio Agnes alla Stet, due diverse occupazioni della Rai, all' Enel un manager, Franco Tatò, bilanciato da un politichino, Chicco Testa. La rassegnazione è giustificata. Perché, a ragione o a torto, la società italiana ha investito cospicue risorse psicologiche, oltre che politiche, su tutto ciò che prometteva di smuovere la democrazia bloccata. Si è schierata con Di Pietro, ha dato i voti alla Lega, ha abbattuto la proporzionale, forse domani si convincerà che la crisi italiana verrà risolta con nuove istituzioni di democrazia più immediata. Ma sarà sempre più difficile convincere qualcuno con le formule. Il federalismo è morto per logoramento prima ancora di essere sperimentato. E la secessione non è nemmeno nata, dato che la marcia sul Po è stata un fallimento penoso, tale probabilmente da rendere ancora più frustrata e incattivita la "riserva indiana" nordista. Il Paese ha creduto in Berlusconi, ha creduto in Bossi, ha creduto in Prodi. Ora si trova nella classica situazione in cui chi aveva vinto le elezioni promettendo un' Italia più normale, riforme razionali, interventi di microchirurgia, è alle prese con interventi trafelati e cure da cavallo, operazioni da ospedale da campo. Ci sono buone ragioni per la disillusione: vedere una Finanziaria che raddoppia di volume in poche ore è stato forse il colpo di grazia alla fiducia residua. Autunno di tasse, di sacrifici, con il sospetto di iniquità evidenti. E con il peso dell' incertezza sulla credibilità effettiva del risanamento in funzione europea. Detto questo, il Polo vuole davvero portare i moderati a protestare con pochissima moderazione contro il "veterocomunismo" della Finanziaria? Se il centrodestra riuscisse a portare un milione di persone in piazza contro il governo, sarebbe uno scrollone perfino salutare. Perché di qui in avanti il rischio principale che corre il Paese non è un conflitto sociale e politico destinato ad acuirsi, ma è l'insidia strisciante di un cedimento all' apatia. Che vorrebbe dire la definitiva convinzione di massa che non è con i mezzi della politica che si esce dalla crisi. Di rassegnazione in rassegnazione, potremmo assistere su scala individuale, di gruppo, di settore, a ciò che Umberto Bossi ha cercato di fare su base geografica. E allora verrebbe veramente il momento dell' implosione, della defezione, della secessione: secessione, proprio così, ma dalla politica, dalla vita pubblica.
PANORAMA, 03.10.1996, IDEA DELLA SETTIMANA
REAZIONARI E ROSSI, CHE MALE C’ E’ ?
Allorché Francis Fukuyama annunciò la "fine della storia", il frastuono planetario della caduta del Muro era da poco alle spalle, e gli scenari di Fukuyama sembravano fatti apposta per attizzare polemiche e sedute di autocoscienza ideologica. Il capitalismo aveva vinto, ma si poteva assolutizzarne hegelianamente il successo come fase suprema della storia? Malgrado i dubbi, la sinistra dei paesi avanzati avrebbe dovuto sentire l' ululare di sirene d' allarme. Fine della storia o no, si annunciava l' avvento di un mondo indifferenziato in cui veniva a mancare un modello alternativo. Fukuyama era un sintomo; la perdita dell' utopia era la malattia. Fra i retrovirus c' era la crisi della socialdemocrazia e della sua principale istituzionalizzazione, lo Stato sociale. Se avessero avuto la forza di guardare oltre il conflitto politico immediato, le sinistre avrebbero percepito la bruciante necessità di inventare un "nuovo paradigma". Solo che mentre si avvertiva distintamente la discontinuità, della nuova cassetta degli attrezzi non c' era traccia. Il lutto per la liquidazione del socialismo reale rendeva la sinistra orfana dell' eco romantica associata al progetto socialista, e sulla sua carne si accaniva la lama di François Furet, che metteva allo scoperto tutte le complicità storicamente connesse al comunismo. La sinistra soprattutto europea si è trovata di fronte a una tumultuosa insorgenza di problemi: l'offensiva liberista radicale di Margaret Thatcher, l' impatto demografico sulle strutture del welfare, la globalizzazione dei mercati. Si è interrotto il ciclo keynesiano del finanziamento in deficit della crescita economica. Società abituate a elevati debiti pubblici o ad alti tassi di inflazione si sono trovate nella necessità di aggiustare affannosamente i conti. E allora: c' è una formula "di sinistra", migliore o più augurabile di quella di destra, per attuare il raggiustamento? Oppure il compito residuale della sinistra è solo quello di competere con la destra proponendo ricette più volenterose, incorporando a tastoni nei propri programmi un contenuto imprecisato di socialità? Dagli anni Ottanta in poi, l' attacco della destra era stato dirompente. Dietro la magia reaganiana della "curva di Laffer" (riduzione delle tasse uguale crescita tendenziale), si era sviluppata una trasformazione radicale delle piattaforme conservatrici. Il movimento neoconservatore puntava esplicitamente a una mobilitazione dei ceti borghesi, scontando a muso duro il rischio di esclusioni sociali determinate dall' acuirsi della povertà nelle fasce più basse. Nella sua versione oltranzista, la sfida neoconservatrice avrebbe assunto infine la fisionomia del Contratto con l' America del repubblicano Newt Gingrich, sostenitore di una sorta di secessione di maggioranza delle classi privilegiate. La "società dei due terzi", che l' ideologo della Spd Peter Glotz aveva cercato di esorcizzare collocandola al centro dell' elaborazione politico-culturale della socialdemocrazia tedesca, veniva brutalmente rovesciata: è sui due terzi dei privilegiati che si disputa il consenso; chi, volente o nolente, resta fuori deve più che altro essere controllato socialmente. Ma oltre alla sfida neoconservatrice si cominciava ad avvertire anche il sovraccarico determinato da un passaggio d' epoca che faceva sorgere interrogativi nuovi. Ben prima che l' economista di Chicago Jeremy Rifkin lanciasse il suo grido d' allarme sulla "fine del lavoro", due autori in particolare avevano lanciato il tema del confronto fra i capitalismi, che poneva alla sinistra dilemmi inediti. Ronald Dore, studioso della London school of economics, aveva pubblicato un saggio, presentato in Italia dall' economista di sinistra Michele Salvati, sulla specificità dell' apparato produttivo giapponese, in cui veniva descritta "l' anomalia" di una struttura economica basata su criteri inaccettabili per le economie ruggenti dell' Occidente: in quanto essa è caratterizzata da strutture "corporate", a bassissima intensità di conflitto, preoccupate di raggiungere livelli di efficienza in tutta l' articolazione dell' apparato produttivo e non solo su un astratto calcolo di convenienza contabile. E un economista francese di estrazione cattolica, Michel Albert, aveva posto a confronto i "due capitalismi", quello anglosassone e quello "renano": l' uno concentrato sulla massima competitività e sulla performance di brevissimo termine; l' altro, esemplificato dal Modell Deutschland, costituito da un fittissimo intreccio di soggetti privati, banche, sindacati, istituzioni pubbliche, e vincolato a una concezione sociale dell'economia di mercato. Ce n' era abbastanza, volendo, per capire che il dilemma della sinistra consisteva nell' accettare e perseguire un modello di società scegliendolo fra alternative reali, non rifugiandosi in fughe ideologiche dalla realtà. Rivaleggiare con il modello anglosassone significava perdere l'anima. Helmut Kohl, capo di un partito centrista (Cdu), poteva adattare i propri programmi assimilando aspetti neoconservatori, finalizzandoli al traguardo del raggiungimento di Maastricht e sfidando robustamente il conflitto sociale. Ma per Tony Blair nel Regno Unito, o per Lionel Jospin in Francia, e anche per Massimo D' Alema in Italia, accettare integralmente questa rincorsa avrebbe significato un' abdicazione morale. Se alla sinistra non resta nulla se non l' autocertificazione che la sua ristrutturazione dello Stato sociale è migliore di quella proposta dai partiti conservatori, la politica è solo una partita in cui due giocatori si disputano il potere. Forse questo simulacro di competizione democratica potrebbe funzionare se ci trovassimo in una situazione stazionaria. Ma il cambiamento è vertiginoso. La tecnologia distrugge posti di lavoro sostituendoli al ribasso: e secondo Rifkin negli Stati Uniti il computer "minaccia di fare sparire 90 milioni di posti di lavoro". La formula di Rifkin, per resistere alla "crisi epocale del lavoro", è riassumibile nel "lavorare meno lavorare tutti". Ma se la redistribuzione di quote di lavoro potrebbe essere un tampone, essa dice poco o nulla sulla frontiera simbolica che la sinistra è chiamata a presentare come strumento di mobilitazione pubblica. Anche perché, per esempio, di fronte agli squilibri della globalizzazione, elencati da Ralf Dahrendorf nel saggio Quadrare il cerchio, vanno in cortocircuito tutti i codici a cui la sinistra ha sempre fatto riferimento. Vale a dire: se il processo di mondializzazione economica (con la delocalizzazione degli apparati produttivi e l' osmosi fra i mercati) erode il principio di nazionalità, è lo statuto stesso della sinistra a entrare in contraddizione. La perdita di qualche milione di posti di lavoro in Europa è uguagliata dalla nascita di qualche milione di posti di lavoro in Malaysia o in Indonesia? Non sono problemi soltanto della sinistra, dal momento che la reazione americana all' economia globale si è espressa simmetricamente nel neoprotezionismo populista di Pat Buchanan, rivale sconfitto da Bob Dole nella corsa alla candidatura per le presidenziali. E anche Jacques Chirac, per vincere le prime elezioni postmitterrandiane, ha dovuto agitare un programma intriso di suggestioni nazionalpopuliste, difficilmente identificabili sul discrimine destra-sinistra. E allora, cercando di fronteggiare i marosi della società multietnica, le ondate demografiche che nelle società a crescita zero prosciugano le casse del welfare, assistendo alla desertificazione del lavoro dipendente, le sinistre si trovano davanti a una scelta di fondo fra due ipotesi strategiche. Possono scegliere l' ipotesi clintoniana, che quattro anni fa sbancò la corsa alla Casa Bianca prospettando il sogno europeo di una società capace di temperare i conflitti entro il progetto di un' architettura sociale, ma che oggi deve rinculare all' inseguimento dell' America moderata sponsorizzando lo smantellamento dell' edificio del welfare. Secondo questa prospettiva, il destino della sinistra è di trovare volta per volta un punto di equilibrio tatticamente virtuoso fra le diverse componenti della società, portatrici di istanze settoriali. Certo, Clinton e il Partito democratico americano non sono riconoscibili come sinistra, ma resta il fatto che il clintonismo è un luogo di mediazione politicamente praticabile riferito a un amplissimo spettro di società: lobby movimentiste, avanguardie libertarie, settori radical, residui dell'organizzazione sindacale, ceti medi ancora influenzati da idee liberal, fasce di elettorato con insofferenza per la destra. L' altra strada è, invece, l' esito di una diagnosi ultimativa. Vale a dire: la sinistra ha perso il confronto con la modernità. E quindi, anziché procedere alla rincorsa di ciò che la destra sa fare molto meglio, tanto varrebbe pensare il "nuovo paradigma" puntando deliberatamente alla controtendenza. Si tratta di fare ancora una volta del sincretismo culturale, ma selezionando un complesso di soluzioni coerente, in grado di fare corpo. Quando D' Alema dice che il centrosinistra produrrà in Italia un' autentica "rivoluzione liberale", sostiene a un tempo un' ovvietà e una subalternità. Di fronte all' iperindividualismo canonizzato dalla destra, l'orizzonte ideologico della sinistra può trovare alcuni ancoraggi in un universo di pensiero finora esplorato solo a tentoni. Sullo sfondo c' è la critica "comunitaria" al liberalismo utilitarista dei filosofi americani (Michael Walzer, Alasdair MacIntyre, Michael Sandel), per i quali la persona e la collettività sono in interazione costante. Ma c' è anche la riflessione formulata da Jacques Delors, che appare l' ultimo significativo sforzo politico-istituzionale di congiungere mercato ed "efficienza sociale". C' è lo sviluppo sostenibile predicato dagli ambientalisti non fondamentalisti, così come c' è l' impegno a produrre "capitale sociale", cioè il lento stratificarsi di fiducia, senso civico, istruzione, lealtà fra gli individui e le istituzioni. E magari la suggestione inevitabile della Centesimus Annus di Karol Wojtyla. Tutto questo implica una perdita e una semplificazione. La perdita consiste nell' arretramento rispetto all' idea che la sinistra possa guidare il progresso imprimendogli il proprio sigillo. La semplificazione invece è un riflesso della rinuncia a competere con la destra sul terreno della destra. In questo senso il caso italiano può essere effettivamente un bacino di sperimentazione. Perché dopo avere attraversato la fase "amazzonica" del partito di Achille Occhetto (a cui oggi si potrebbe affiancare l' entusiasmo per il subcomandante Marcos e gli zapatisti del Chiapas, ovvero una rivoluzione fecondata con i telefonini satellitari), il centrosinistra in Italia è un ibrido in cui si sono innestate le venature socialdemocratiche di cui è portatore D' Alema ma anche le tradizioni personalistiche e comunitarie del cattolicesimo politico. Da questo cocktail non esce una nuova via alla modernità: esce semmai un' intenzione propriamente conservatrice, forse perfino reazionaria. Ma se la tragedia della sinistra contemporanea consiste nel non avere ancora metabolizzato gli effetti della Rivoluzione, non si può escludere che rispetto a un futuro dalle dimensioni vertiginose, anonime, sfuggenti, il ruolo della sinistra non debba essere quello di una consapevole e deliberata reazione. LA BIBLIOTECA DELLA CRISI Francis Fukuyama, La fine della storia (Rizzoli, 1992). Il compimento hegeliano della fenomenologia del capitalismo come definitivo assetto sociopolitico del pianeta, dopo il crollo del Muro. François Furet, Il passato di un' illusione (Mondadori, 1995). L' illusione è il comunismo, un' ideologia fallimentare in cui la promessa di riscatto si è incarnata in una serie letale di esperienze totalitarie. Eric Hobsbawm, Il secolo breve (Rizzoli, 1995). L' epicedio del ' 900, un secolo che comincia nel ' 14 con l' esplosione della grande guerra, conflitto tecnologico di massa, e si conclude nell' 89, con la morte dell' utopia comunista. John Rawls, Una teoria della giustizia (Feltrinelli, 1982). Il manifesto del "contrattualismo", l' ultima grande apologia del pensiero liberal. Jeremy Rifkin, La fine del lavoro (Baldini & Castoldi, 1995). Un' apocalittica esposizione dell' impatto della tecnologia sui livelli di occupazione del mondo sviluppato. Ronald Dore, Bisogna prendere il Giappone sul serio (Il Mulino, 1990). L' impianto socioeconomico del Sol Levante a confronto con le società industriali occidentali: consenso contro conflitto, efficienza "produttiva" contro efficienza "allocativa". Michel Albert, Capitalismo contro capitalismo (Il Mulino, 1990). Il confronto fra il capitalismo anglosassone (iperfinanziarizzato, ultracompetitivo, basato sulla prestazione di breve periodo) e il capitalismo "renano", fondato sulla costruzione di ampi ceti medi, la partecipazione sindacale, i sistemi di sicurezza sociale. Amartya K. Sen, Scelta, benessere, equità (Il Mulino, 1986). Riflessioni di un celebre economista in cui la "triste scienza" sfuma classicamente verso la filosofia morale, con un' esplicita intenzione antiutilitaristica. Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio (Laterza, 1995). Uno dei padri del pensiero liberale europeo illustra le tragedie della globalizzazione dell' economia. Jacques Delors, Libro bianco su Crescita, competitività e occupazione. Il piano dell' ex presidente della Commissione europea, socialista cattolico, per ricostruire le condizioni in cui mercato e concorrenza, competitività e flessibilità possano essere solidalmente funzionali all' accrescimento dell' occupazione. Robert Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane (Mondadori, 1994). Storia e geografia di come si forma in Italia il "capitale sociale" (civismo e fiducia) a partire dall' età comunale: per capire le origini del dualismo fra Nord e Sud. Marco Revelli, Le due destre (Bollati Boringhieri, 1996). Un polemico saggio sul tramonto della sinistra, finita a interpretare il ruolo di una "destra" liberale subalterna a una destra plebiscitaria.
PANORAMA, 19.09.1996, ATTUALITA' ITALIA
MA QUANTE BELLE MENTI, MADAMA DENNY
Eccesso di zelo, eccesso di pagine, eccesso di dichiarazioni di principio, eccesso di filosofia e di sociologia? Sul "caso" Denny Mendez, cioè l' assegnazione del titolo di Miss Italia alla diciottenne nera di Santo Domingo dopo le proteste di Alba Parietti nel nome di un' idea di bellezza "nazionale", sono intervenuti filosofi come Gianni Vattimo, sociologi come Sabino Acquaviva, autorità del giornalismo come Indro Montanelli ed Enzo Biagi, commentatori come Nello Ajello, star tv come Enrico Mentana. E anche chi scrive, per segnalare che dietro il premio alla incolpevole Denny si intravedeva un sovrappiù di "politically correct" e di morale elevata a spettacolo. Nulla di più gratificante, infatti, dell' apparire buoni, buonisti e antirazzisti attraverso il funzionamento implacabile dello show, che premia l' outsider coronando una favola. Ma fin qui siamo sempre dentro una trama narrativa non troppo dissimile, quanto a schema, da Pretty Woman, dove alla fine la traviata riesce a sposare Richard Gere, anche se ci si immagina che sullo sfondo del lieto fine le sue colleghe prostitute resteranno desolatamente a battere il marciapiede incontrando di norma brutti ceffi, non il tenebroso Gere della finzione e nemmeno l' arrapato Hugh Grant della realtà. E quindi nessuno pensa veramente che il successo della giovane Mendez equivalga a un riscatto morale che possa ricadere a pioggia sugli extracomunitari. Però, a pensarci, può darsi che tutta la discussione sia stata tutt' altro che superflua. C' era qualcosa di autenticamente simbolico nella discussione sulla bellezza italiana, sul tipo italiano, sulla fisionomia e la pelle che ci si aspetta dalla vincitrice domestica di un concorso di bellezza. E quindi non è strano che l' intellighenzia si sia schierata. Bellezza non italiana, ha sancito Montanelli; ricatto antirazzista, ha protestato Mentana. Eppure, a voler prendere sul serio il caso Mendez, si fa poca fatica a sfiorare temi cruciali per il futuro come il problema della cittadinanza basata sul diritto del sangue o sul diritto del suolo. In fondo, la contrapposizione principale su cui si sono misurati in settimana i capannelli nei bar, nei corridoi delle aziende, nelle sale mensa, nei salotti familiari, è data da chi può essere definito italiano: chi è nato in Italia da genitori italiani o chi ha ottenuto di essere riconosciuto cittadino della Repubblica? Ed è lecito pretendere che a rappresentare la bellezza del Bel Paese sia una donna che presenta i tratti "tipici" della bellezza femminile italiana? Quali sarebbero, oltretutto, questi tratti tipici, visto che l' Italia è un coacervo di canoni estetici, e abbiamo la "tipica" bellezza romana, la "tipica" bellezza napoletana, e aspettiamo che Umberto Bossi specifichi qual è a suo parere la bellezza padana autentica? Ci si può anche chiedere come sarebbe stata giudicata la partecipazione ed eventualmente la vittoria di un' altoatesina bionda e dalla erre tedesca molto gutturale, italiana non certo per etnia. E forse alla fine si giungerebbe alla conclusione che il lieve scandalo ai danni dell' estetica nazionale rappresentato dalla nuova Miss Italia è dato esclusivamente da ciò che ne rappresenta il fattore di diversità più evidente, e cioè la pelle nera. Al punto che si potrebbe forse addirittura pensare che la partecipazione di Denny Mendez è stata la rivelazione che nel nostro Paese esistono i neri. Non dite che lo si sapeva perché non è vero. I neri non li vediamo, li ignoriamo, tendiamo a considerarli come non-entità, esseri senza identità e perfino senza individualità. L' apparizione di Denny Mendez è stata la rivelazione che anche le nostre faccette nere possono essere alte uno e ottanta e puntare a sfondare nel cinema. Ma soprattutto che esistono. Al punto che, se effettivamente esistono, niente vieta agli italiani brava gente e allo show figlio-di-puttana di premiare Denny ai danni delle napoletane e delle romane che magari erano più tipiche. Solo che a Salsomaggiore ci si titilla la coscienza una volta, e poi tanti saluti. Domani, nigeriane e marocchini tornano nell' indistinto, e a nessuno verrà da chiedersi se c' è un' ideale di professionalità nazionale per la prostituzione o per il lavaggio dei vetri agli incroci. Volendo, di Denny Mendez si poteva discutere ancora di più.
PANORAMA, 12.09.1996, SPECIALE
AIUTO, SIAMO NEL PALLONE GLOBALE!
Primo campionato dell' "era Bosman", primo calcio d' avvio dopo la sentenza della Corte europea di giustizia che ha liberalizzato il mercato pallonaro. Fischio d' inizio l' 8 settembre, data brivido, da cornetti rossi. Consigliabili gli scongiuri perché il calcio globale non significhi calcisticamente la morte della patria. Gli stranieri sono tanti, ma in fondo sempre meno che in Portogallo, Gran Bretagna, Belgio, Germania, Spagna. Sembra la vittoria finale del mercato e invece probabilmente è solo la sconfitta definitiva del calciomercato. Perché la principale legge dell' economia, tristissima scienza secondo Carlyle, recita che c' è mercato dove c' è scarsità. E quindi ci si poteva appassionare al rito estivo del mercato calcistico quando il blocco agli stranieri faceva lievitare i prezzi dei campioni (o presunti tali) a livelli insensati. Anche se si sapeva che quei prezzi erano quasi sempre nominali. Si cedeva infatti il fin troppo generoso centravanti da 10 miliardi in cambio di due diligenti centrocampisti da 5 miliardi l' uno. Un rintronato terzino da 1 miliardo per due giovani promesse da 500 milioni. Adesso invece il calcio è l' unica grande industria del capitalismo avanzato che non conosce il "downsizing": c' è l' abbondanza, il consumismo, il paese di Cuccagna; i giocatori vengono comprati, venduti, sostituiti in un grande e continuo shopping. A prezzi ancora più insensati di prima, con l'aggravante però che i soldi sono veri, moneta sonante, velocissimi bonifici bancari. Nessuno è più incedibile, gli intoccabili, le "bandiere", non esistono più. In altri tempi la cessione simultanea delle due punte titolari della Juventus avrebbe scatenato la rivolta dei tifosi. Adesso si discute sulla vendita ma con il pensiero già al prossimo acquisto. Una sinistra euforia finanziaria è stata diffusa in quasi tutta Europa dalle tv, che pompano danaro negli stadi per virtualizzare il calcio nel teleschermo. Al punto che non sono più i padroni e padrini del calcio italiano, presidenti di società e general manager, a dettare legge sul mercato della calcistizzazione universale. Eh no, adesso perfino gli inglesi, orgogliosi del loro calcio duro e monotono, fanno i raider dalle nostre parti per portarsi a casa gli atleti temprati dal campionato più hard del mondo. Concorrenza aggressiva? Macché, acquisti cash, e anche spericolati. Miliardi per la pelata di fine carriera di Vialli, miliardi per la testa grigia del macchinoso Ravanelli. E pazienza se si trattasse solo di alcuni calciatori: ecco Trapattoni che torna a guidare il Bayern di Monaco, ridiventando "Herr Ciofanni". Ed ecco soprattutto il re dei pragmatici, Fabio Capello, approdato al comando del Real Madrid e, tanto per smentire l' idea che la nevrosi sia una prerogativa solo del calcio italiano, si trova subito invischiato in una persistente polemica con la società e i tifosi madrileni. E poi è il primo torneo ultramediatico, il campionato sfiorato dalle magie della pay-per-view: per seguire la squadra del cuore ci vuole un' antenna parabolica, il decodificatore, la "smart card". Investimento, più di un milione e mezzo, abbonamento mezzo milione. Troppo? Troppo complicato? E sarà poi vero che il destino del calcio è di riempire i salotti e svuotare gli stadi? Per ora in verità lo stadio, soprattutto a Torino, Milano, Roma, continua a essere una cattedrale del presenzialismo. Quando al Delle Alpi si profila l' Avvocato, quando a San Siro compare il Cavaliere, quando all'Olimpico si ritrovano tutti, da Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini a Sergio D' Antoni, da Carlo Azeglio Ciampi a Romano Prodi, ci si rende conto che il calcio nazionale è una singolarissima e ineguale vetrina. Perché espone sulle tribune l' establishment del Paese e nelle curve i ceti marginali, devianti, petardoni. Dagli stadi sembra completamente scomparsa la classe media, che ora si tenta di intercettare via etere direttamente fra le mura di casa. D' ALEMA E IL SUO FU-FU Solo Umberto Bossi si vede poco allo stadio. Forse se ne sta lontano per evitare equivoci sulla zona e sull' uomo così come all' Arena aveva scambiato la musica del Nabucco con quella dei Lombardi. Sta di fatto che il calcio è considerato, piuttosto a ragione, un potentissimo fattore di legittimazione, un formidabile catalizzatore di popolarità. Massimo D' Alema ha dovuto essere inquadrato sul terreno di gioco ed esibirsi nel suo ormai famosissimo fu-fu sui pugni per far dimenticare di essere il "vecchio bolscevico" che aveva sempre detto di essere. Fini ha dovuto affrontare dopo la svolta di Fiuggi spaventosi tornei di calcetto (spaventosi perché si rischia la marcatura di Cesare Previti) per diventare effettivamente "post". Eccetera. Ed è meglio piantarla lì, perché la politica soffoca il calcio, se ne appropria, lo parassitizza. Mentre il vero vizioso di football non vuole distrazioni, si infastidirebbe perfino se durante la telecronaca Bruno Pizzul segnalasse che a Bergamo ci sono in tribuna Bill Clinton e Saddam Hussein: perché lui accende la tv, a pagamento o no, per vedere l' Atalanta, non il marito di Hillary e il perfido iracheno. Seguendo questa stringente logica bisognerebbe quindi cominciare a parlare di questioni tecniche. Per esempio a valutare se assisteremo a uno scontro fra due culture, due mondi, due Weltanschauung, come direbbe quel tedesco del Trap. Da una parte i sostenitori del calcio ipermoderno, i sacchiani puri, quelli delle formule, del pressing, delle "ripartenze" e della palla inattiva, che spesso danno l' idea di considerare il pallone, proprio lui, la vecchia "sfera", come una necessità fastidiosa, perché introduce la casualità, l' irregolarità potenziale della rotondità nella perfezione degli schemi studiati a tavolino e dimostrati alla lavagna. E dalla parte opposta i reazionari, la vecchia scuola ringalluzzita da certi giganteschi catenacci e dal gioco speculativo visto agli ultimi Europei. Ma si direbbe che da noi gli allenatori siano quasi tutti propensi al gioco del Terzo millennio, alla turbo-zona, perché consente di considerare i giocatori come semplici pedine, e quindi di porre in rilievo l' insostituibile funzione dello stratega in panchina. Ciò che invece manca a questo avvio di competizione è una grande contrapposizione simbolica, come apparve nella stagione scorsa quella fra l' Avvocato e il Divin Codino, ceduto inopinatamente dalla Juve alla corte berlusconiana. Adesso bisogna andare per spigolature, per particolari. Oscar Washington Tabarez riuscirà a emulare i successi di Fabio Capello anche proponendo un dispendiosissimo quattro-tre-tre? E quanto ci metterà il gran tifoso Agnelli a sparare una battuta delle sue ai danni di Boksic, fuoriclasse potenziale ma buonista se non strafalcionista in zona gol? Sembra già di sentirlo: "Una classe immensa. Sa sbagliare le palle gol molto, molto meglio di come le sbagliava Van Basten". Ma l' Inter? Otto stranieri (anzi, sette, viste le questioni di cuore del nigeriano Kanu), nello spogliatoio ci vorrà una scuola interpreti, e un cero acceso alla speranza che Djorkaeff mantenga le promesse. Mentre a Parma si comincia già a discutere della compatibilità fra Zola e Chiesa. L' ALLENATORE ISLAMICO E a Firenze... Alt. A Firenze non si scherza. Perché c' è come allenatore Claudio Ranieri, definito per il suo pragmatismo dalla critica "allenatore non islamico", c' è Batistuta, centravanti in continuo irrefrenabile progresso (nella partita vinta contro il Milan a fine agosto per la Supercoppa ha fatto uno scherzo terribile a Franco Baresi, superandolo con un feroce pallonetto e segnando un gol crudelissimo: ma sono cose da fare, ai poveri vecchi? Oltretutto l' infame, pardon, Cecchi Gori, sorrise). Infine, per tutti coloro che non tollerano il pallone, oppure per i pentiti, quelli che non ne possono più del pressing e della difesa a cinque, sono sempre consigliabili in tv i programmi del disimpegno calcistico, che smitizzano, alleggeriscono, sfottono, consolano: cioè quelli della Banda Fazio (Quelli che il calcio) e della Gialappa' s Band (Mai dire gol). Calcio, televisione, televisione, calcio: ormai è un circolo vizioso, una spirale perversa, una concatenazione pensata da menti raffinatissime. Tanto è vero che quando sono scoppiate le polemiche per il trasloco di Michele Santoro dalla Rai a Mediaset si è fatto notare che non è detto che il tribuno della plebe Santoro possa ripetere su Italia 1 i successi populisti di Raitre. Qualche anno fa, sostengono i più cinici, c' era un' agorà che aveva un impatto pubblico ben più forte delle piazze di Tempo reale: era il Processo di Biscardi, tribuno della tribuna. E ora chi sa più dov' è finito Aldo il Rosso? Chiedere sommessamente un parere a Walter Veltroni: è censurabile politicamente sostenere che se abbiamo potuto vivere senza Biscardi riusciremo a tollerare anche l' eventuale collasso di audience di Santoro? Perché se non è politically correct, se non si può dire nulla, se siamo davvero al "regime" dell' Ulivo, tanto vale lasciar perdere e consolarsi di questa cattiva ventura con la Ventura.
PANORAMA, 29.08.1996, ATTUALITA' ITALIA
E PENSARE CHE IN PRINCIPIO ERA AMATO
La mazzata arrivò nel settembre del 1992, in contemporanea con la tempesta valutaria: fu la Grande manovra di Giuliano Amato, 93 mila miliardi per metà di tagli e per metà di maggiori entrate. Fino a quel momento per gli italiani stava andando di lusso, nel senso che il Paese era povero e indebitato ma i suoi abitanti sembravano ricchi. Poi vennero la svalutazione e il rigore. Ma più che la drammatica variazione del cambio fu la pesante politica economica del governo Amato a far sì che i cittadini vedessero svanire una quota consistente di reddito, sacrificato alla terapia d' urto contro lo choc finanziario. Di fronte a segnali così espliciti di avvio dell' era delle bibliche vacche magre, gli italiani cominciarono a guardarsi intorno. Si poteva già immaginare come sarebbe andata a finire. Nelle crisi economiche anche più acute, c' è chi ci perde ma c' è chi ci guadagna. Come è stato detto, "l' inflazione è la lotta di classe condotta con altri mezzi". Anche se i provvedimenti decisi da Amato e poi da Carlo Azeglio Ciampi incorporavano criteri di equità, ci sono ceti che sono più esposti di altri all' inasprimento delle condizioni economiche. La concertazione fra governo, sindacati e imprenditori ha consentito di non importare inflazione in seguito alla svalutazione, ma ha tenuto bloccati i salari del lavoro dipendente, inducendo una perdita secca vicina al 10 per cento in quattro anni. Mentre le imprese del Nord-est (ma non solo del Nord-est) cominciavano ad accumulare profitti grazie a un cambio da dumping e mentre il lavoro autonomo cominciava a usare la propria flessibilità per mantenere invariati gli standard di reddito, una parte della società italiana, in pratica lavoratori dipendenti e pensionati, ha dovuto rifare i conti di casa. Proprio perché l' Italia è un grande mercato, se una quota ampia della popolazione vede diminuire le risorse, gli effetti non sono settoriali, si distribuiscono su tutta l' economia. In questo momento siamo arrivati alla fase cruciale, in cui l' ultimo sforzo di risanamento avviene sulle spalle di un Paese impoverito, stanco, incerto, in preda all' ansia. L' estate 1996 è stata per molti aspetti un' esemplificazione perfetta, simbolicamente ed empiricamente, di come reagisce una società dai nervi scoperti. Vacanze brevi, ferie alla mordi e fuggi. In condizioni più o meno normali, vale a dire in assenza di traumi gravi, una società avanzata tende a non rinunciare ai comportamenti cui è abituata. Si ripiega su se stessa e cerca di fare le stesse cose di prima, cambiandone i modi e le forme. Non c' è una regola universale in questa "gestione di risorse decrescenti". Tanto più che assai spesso la percezione di questa caduta delle risorse è soprattutto psicologica, proiettata sul futuro. Si avverte un po' oscuramente che l'economia dell' America ruggente è lontana mentre i vicini paesi europei stanno tutti realizzando politiche restrittive: in queste condizioni sperare in rapide inversioni di tendenza è un' illusione. Non è tempo di miracoli. E allora ogni consumatore diventa lo specchio del sistema-Italia: escluso uno zoccolo duro di spesa incomprimibile, opera un ventaglio di piccole defezioni distribuendo i tagli su tutto il paniere dei suoi consumi, sperando in tal modo di non avvertire l' impoverimento. Ma così facendo il meccanismo si autoalimenta. Si consuma meno, si produce meno, si vende meno, si fattura meno. E' la recessione. Ma è anche la dimostrazione che non esistono formule magiche, che nessuno possiede la ricetta per innescare lo sviluppo, che anche la provincia italiana è ormai interdipendente con il mercato globale. In queste condizioni, pensare di curare la recessione con la secessione è più che altro un gioco di parole.
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