gli articoli PANORAMA/

REAZIONARI E ROSSI, CHE MALE C’ E’ ?

03.10.1996
IDEA DELLA SETTIMANA
POLEMICHE - IL DIBATTITO SUL POSSIBILE RUOLO DELLA SINISTRA

Allorché Francis Fukuyama annunciò la "fine della storia", il frastuono planetario della caduta del Muro era da poco alle spalle, e gli scenari di Fukuyama sembravano fatti apposta per attizzare polemiche e sedute di autocoscienza ideologica. Il capitalismo aveva vinto, ma si poteva assolutizzarne hegelianamente il successo come fase suprema della storia? Malgrado i dubbi, la sinistra dei paesi avanzati avrebbe dovuto sentire l’ ululare di sirene d’ allarme. Fine della storia o no, si annunciava l’ avvento di un mondo indifferenziato in cui veniva a mancare un modello alternativo. Fukuyama era un sintomo; la perdita dell’ utopia era la malattia. Fra i retrovirus c’ era la crisi della socialdemocrazia e della sua principale istituzionalizzazione, lo Stato sociale. Se avessero avuto la forza di guardare oltre il conflitto politico immediato, le sinistre avrebbero percepito la bruciante necessità di inventare un "nuovo paradigma". Solo che mentre si avvertiva distintamente la discontinuità, della nuova cassetta degli attrezzi non c’ era traccia. Il lutto per la liquidazione del socialismo reale rendeva la sinistra orfana dell’ eco romantica associata al progetto socialista, e sulla sua carne si accaniva la lama di François Furet, che metteva allo scoperto tutte le complicità storicamente connesse al comunismo. La sinistra soprattutto europea si è trovata di fronte a una tumultuosa insorgenza di problemi: l’offensiva liberista radicale di Margaret Thatcher, l’ impatto demografico sulle strutture del welfare, la globalizzazione dei mercati. Si è interrotto il ciclo keynesiano del finanziamento in deficit della crescita economica. Società abituate a elevati debiti pubblici o ad alti tassi di inflazione si sono trovate nella necessità di aggiustare affannosamente i conti. E allora: c’ è una formula "di sinistra", migliore o più augurabile di quella di destra, per attuare il raggiustamento? Oppure il compito residuale della sinistra è solo quello di competere con la destra proponendo ricette più volenterose, incorporando a tastoni nei propri programmi un contenuto imprecisato di socialità? Dagli anni Ottanta in poi, l’ attacco della destra era stato dirompente. Dietro la magia reaganiana della "curva di Laffer" (riduzione delle tasse uguale crescita tendenziale), si era sviluppata una trasformazione radicale delle piattaforme conservatrici. Il movimento neoconservatore puntava esplicitamente a una mobilitazione dei ceti borghesi, scontando a muso duro il rischio di esclusioni sociali determinate dall’ acuirsi della povertà nelle fasce più basse. Nella sua versione oltranzista, la sfida neoconservatrice avrebbe assunto infine la fisionomia del Contratto con l’ America del repubblicano Newt Gingrich, sostenitore di una sorta di secessione di maggioranza delle classi privilegiate. La "società dei due terzi", che l’ ideologo della Spd Peter Glotz aveva cercato di esorcizzare collocandola al centro dell’ elaborazione politico-culturale della socialdemocrazia tedesca, veniva brutalmente rovesciata: è sui due terzi dei privilegiati che si disputa il consenso; chi, volente o nolente, resta fuori deve più che altro essere controllato socialmente. Ma oltre alla sfida neoconservatrice si cominciava ad avvertire anche il sovraccarico determinato da un passaggio d’ epoca che faceva sorgere interrogativi nuovi. Ben prima che l’ economista di Chicago Jeremy Rifkin lanciasse il suo grido d’ allarme sulla "fine del lavoro", due autori in particolare avevano lanciato il tema del confronto fra i capitalismi, che poneva alla sinistra dilemmi inediti. Ronald Dore, studioso della London school of economics, aveva pubblicato un saggio, presentato in Italia dall’ economista di sinistra Michele Salvati, sulla specificità dell’ apparato produttivo giapponese, in cui veniva descritta "l’ anomalia" di una struttura economica basata su criteri inaccettabili per le economie ruggenti dell’ Occidente: in quanto essa è caratterizzata da strutture "corporate", a bassissima intensità di conflitto, preoccupate di raggiungere livelli di efficienza in tutta l’ articolazione dell’ apparato produttivo e non solo su un astratto calcolo di convenienza contabile. E un economista francese di estrazione cattolica, Michel Albert, aveva posto a confronto i "due capitalismi", quello anglosassone e quello "renano": l’ uno concentrato sulla massima competitività e sulla performance di brevissimo termine; l’ altro, esemplificato dal Modell Deutschland, costituito da un fittissimo intreccio di soggetti privati, banche, sindacati, istituzioni pubbliche, e vincolato a una concezione sociale dell’economia di mercato. Ce n’ era abbastanza, volendo, per capire che il dilemma della sinistra consisteva nell’ accettare e perseguire un modello di società scegliendolo fra alternative reali, non rifugiandosi in fughe ideologiche dalla realtà. Rivaleggiare con il modello anglosassone significava perdere l’anima. Helmut Kohl, capo di un partito centrista (Cdu), poteva adattare i propri programmi assimilando aspetti neoconservatori, finalizzandoli al traguardo del raggiungimento di Maastricht e sfidando robustamente il conflitto sociale. Ma per Tony Blair nel Regno Unito, o per Lionel Jospin in Francia, e anche per Massimo D’ Alema in Italia, accettare integralmente questa rincorsa avrebbe significato un’ abdicazione morale. Se alla sinistra non resta nulla se non l’ autocertificazione che la sua ristrutturazione dello Stato sociale è migliore di quella proposta dai partiti conservatori, la politica è solo una partita in cui due giocatori si disputano il potere. Forse questo simulacro di competizione democratica potrebbe funzionare se ci trovassimo in una situazione stazionaria. Ma il cambiamento è vertiginoso. La tecnologia distrugge posti di lavoro sostituendoli al ribasso: e secondo Rifkin negli Stati Uniti il computer "minaccia di fare sparire 90 milioni di posti di lavoro". La formula di Rifkin, per resistere alla "crisi epocale del lavoro", è riassumibile nel "lavorare meno lavorare tutti". Ma se la redistribuzione di quote di lavoro potrebbe essere un tampone, essa dice poco o nulla sulla frontiera simbolica che la sinistra è chiamata a presentare come strumento di mobilitazione pubblica. Anche perché, per esempio, di fronte agli squilibri della globalizzazione, elencati da Ralf Dahrendorf nel saggio Quadrare il cerchio, vanno in cortocircuito tutti i codici a cui la sinistra ha sempre fatto riferimento. Vale a dire: se il processo di mondializzazione economica (con la delocalizzazione degli apparati produttivi e l’ osmosi fra i mercati) erode il principio di nazionalità, è lo statuto stesso della sinistra a entrare in contraddizione. La perdita di qualche milione di posti di lavoro in Europa è uguagliata dalla nascita di qualche milione di posti di lavoro in Malaysia o in Indonesia? Non sono problemi soltanto della sinistra, dal momento che la reazione americana all’ economia globale si è espressa simmetricamente nel neoprotezionismo populista di Pat Buchanan, rivale sconfitto da Bob Dole nella corsa alla candidatura per le presidenziali. E anche Jacques Chirac, per vincere le prime elezioni postmitterrandiane, ha dovuto agitare un programma intriso di suggestioni nazionalpopuliste, difficilmente identificabili sul discrimine destra-sinistra. E allora, cercando di fronteggiare i marosi della società multietnica, le ondate demografiche che nelle società a crescita zero prosciugano le casse del welfare, assistendo alla desertificazione del lavoro dipendente, le sinistre si trovano davanti a una scelta di fondo fra due ipotesi strategiche. Possono scegliere l’ ipotesi clintoniana, che quattro anni fa sbancò la corsa alla Casa Bianca prospettando il sogno europeo di una società capace di temperare i conflitti entro il progetto di un’ architettura sociale, ma che oggi deve rinculare all’ inseguimento dell’ America moderata sponsorizzando lo smantellamento dell’ edificio del welfare. Secondo questa prospettiva, il destino della sinistra è di trovare volta per volta un punto di equilibrio tatticamente virtuoso fra le diverse componenti della società, portatrici di istanze settoriali. Certo, Clinton e il Partito democratico americano non sono riconoscibili come sinistra, ma resta il fatto che il clintonismo è un luogo di mediazione politicamente praticabile riferito a un amplissimo spettro di società: lobby movimentiste, avanguardie libertarie, settori radical, residui dell’organizzazione sindacale, ceti medi ancora influenzati da idee liberal, fasce di elettorato con insofferenza per la destra. L’ altra strada è, invece, l’ esito di una diagnosi ultimativa. Vale a dire: la sinistra ha perso il confronto con la modernità. E quindi, anziché procedere alla rincorsa di ciò che la destra sa fare molto meglio, tanto varrebbe pensare il "nuovo paradigma" puntando deliberatamente alla controtendenza. Si tratta di fare ancora una volta del sincretismo culturale, ma selezionando un complesso di soluzioni coerente, in grado di fare corpo. Quando D’ Alema dice che il centrosinistra produrrà in Italia un’ autentica "rivoluzione liberale", sostiene a un tempo un’ ovvietà e una subalternità. Di fronte all’ iperindividualismo canonizzato dalla destra, l’orizzonte ideologico della sinistra può trovare alcuni ancoraggi in un universo di pensiero finora esplorato solo a tentoni. Sullo sfondo c’ è la critica "comunitaria" al liberalismo utilitarista dei filosofi americani (Michael Walzer, Alasdair MacIntyre, Michael Sandel), per i quali la persona e la collettività sono in interazione costante. Ma c’ è anche la riflessione formulata da Jacques Delors, che appare l’ ultimo significativo sforzo politico-istituzionale di congiungere mercato ed "efficienza sociale". C’ è lo sviluppo sostenibile predicato dagli ambientalisti non fondamentalisti, così come c’ è l’ impegno a produrre "capitale sociale", cioè il lento stratificarsi di fiducia, senso civico, istruzione, lealtà fra gli individui e le istituzioni. E magari la suggestione inevitabile della Centesimus Annus di Karol Wojtyla. Tutto questo implica una perdita e una semplificazione. La perdita consiste nell’ arretramento rispetto all’ idea che la sinistra possa guidare il progresso imprimendogli il proprio sigillo. La semplificazione invece è un riflesso della rinuncia a competere con la destra sul terreno della destra. In questo senso il caso italiano può essere effettivamente un bacino di sperimentazione. Perché dopo avere attraversato la fase "amazzonica" del partito di Achille Occhetto (a cui oggi si potrebbe affiancare l’ entusiasmo per il subcomandante Marcos e gli zapatisti del Chiapas, ovvero una rivoluzione fecondata con i telefonini satellitari), il centrosinistra in Italia è un ibrido in cui si sono innestate le venature socialdemocratiche di cui è portatore D’ Alema ma anche le tradizioni personalistiche e comunitarie del cattolicesimo politico. Da questo cocktail non esce una nuova via alla modernità: esce semmai un’ intenzione propriamente conservatrice, forse perfino reazionaria. Ma se la tragedia della sinistra contemporanea consiste nel non avere ancora metabolizzato gli effetti della Rivoluzione, non si può escludere che rispetto a un futuro dalle dimensioni vertiginose, anonime, sfuggenti, il ruolo della sinistra non debba essere quello di una consapevole e deliberata reazione. LA BIBLIOTECA DELLA CRISI Francis Fukuyama, La fine della storia (Rizzoli, 1992). Il compimento hegeliano della fenomenologia del capitalismo come definitivo assetto sociopolitico del pianeta, dopo il crollo del Muro. François Furet, Il passato di un’ illusione (Mondadori, 1995). L’ illusione è il comunismo, un’ ideologia fallimentare in cui la promessa di riscatto si è incarnata in una serie letale di esperienze totalitarie. Eric Hobsbawm, Il secolo breve (Rizzoli, 1995). L’ epicedio del ‘ 900, un secolo che comincia nel ‘ 14 con l’ esplosione della grande guerra, conflitto tecnologico di massa, e si conclude nell’ 89, con la morte dell’ utopia comunista. John Rawls, Una teoria della giustizia (Feltrinelli, 1982). Il manifesto del "contrattualismo", l’ ultima grande apologia del pensiero liberal. Jeremy Rifkin, La fine del lavoro (Baldini & Castoldi, 1995). Un’ apocalittica esposizione dell’ impatto della tecnologia sui livelli di occupazione del mondo sviluppato. Ronald Dore, Bisogna prendere il Giappone sul serio (Il Mulino, 1990). L’ impianto socioeconomico del Sol Levante a confronto con le società industriali occidentali: consenso contro conflitto, efficienza "produttiva" contro efficienza "allocativa". Michel Albert, Capitalismo contro capitalismo (Il Mulino, 1990). Il confronto fra il capitalismo anglosassone (iperfinanziarizzato, ultracompetitivo, basato sulla prestazione di breve periodo) e il capitalismo "renano", fondato sulla costruzione di ampi ceti medi, la partecipazione sindacale, i sistemi di sicurezza sociale. Amartya K. Sen, Scelta, benessere, equità (Il Mulino, 1986). Riflessioni di un celebre economista in cui la "triste scienza" sfuma classicamente verso la filosofia morale, con un’ esplicita intenzione antiutilitaristica. Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio (Laterza, 1995). Uno dei padri del pensiero liberale europeo illustra le tragedie della globalizzazione dell’ economia. Jacques Delors, Libro bianco su Crescita, competitività e occupazione. Il piano dell’ ex presidente della Commissione europea, socialista cattolico, per ricostruire le condizioni in cui mercato e concorrenza, competitività e flessibilità possano essere solidalmente funzionali all’ accrescimento dell’ occupazione. Robert Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane (Mondadori, 1994). Storia e geografia di come si forma in Italia il "capitale sociale" (civismo e fiducia) a partire dall’ età comunale: per capire le origini del dualismo fra Nord e Sud. Marco Revelli, Le due destre (Bollati Boringhieri, 1996). Un polemico saggio sul tramonto della sinistra, finita a interpretare il ruolo di una "destra" liberale subalterna a una destra plebiscitaria.

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