LA STAMPA
LA STAMPA, 05.07.1998, SPORT
E’ MEGLIO PER TUTTI QUESTO KO
L'eliminazione è un bene per tutti, creda. Maldini è riuscito nel capolavoro involontario di ottenere contemporaneamente il minimo e il massimo. Se avesse ottenuto qualcosa di più, cioè la semifinale, o addirittura la finalissima, c'è da rabbrividire al pensiero di come avrebbe potuto inorgoglire. E c'è naturalmente da rabbrividire al pensiero delle ulteriori sofferenze che gli azzurri ci avrebbero inflitto. Così, invece, potremo sottoporre Cesarone a impeachment, processarlo, e alla fine condannarlo severamente (intanto si potrebbe rasarlo a zero, per punizione estetica e popolare). Tutto questo in modo da dimenticare la drammatica impotenza mostrata dalla nazionale contro i francesi, che non era troppo diversa dall'impotenza esibita nelle qualificazioni e negli ottavi. E che non era molto differente dall'impotenza dimostrata quattro anni fa contro nella finale contro il Brasile, la più brutta partita del secolo. Cambiano i cittì e i moduli, ma il comportamento della squadra cambia poco. Ogni giocata sembra affidarsi a un miracolo, e non sempre i miracoli avvengono, anche se diversi azzurri sono credenti devotissimi e Cesare non di rado invoca l'intervento divino, magari in termini inurbani. Maldini ha giocato il calcio più vecchio dell'universo perché non sapeva fare altro. Ha impersonato l'antidoto filosofico a Sacchi e ai suoi teoremi. Adesso dovremo trovare una mediazione fra il calcio platonico delle idee e il realismo arcaico. Buona fortuna al prossimo.
LA STAMPA, 06.07.1998
I TRE GOL DELLA LIBERTA’
In genere è consigliabile lasciare gli eventi sportivi nei loro confini, senza farli diventare una metafora geopolitica o un'allegoria storica. Allorché la nazionale di Bearzot nel 1982 vinse il Mundial in Spagna, con Sandro Pertini festante in tribuna, Alberto Ronchey intravide nelle feste di piazza e nell'orgoglio pubblico un embrione di nazionalismo italiano. Nella realtà, la vittoria al Santiago Bernabeu preludeva al quadriennio craxiano, quando la nave certamente andava, ma era un catorcio, e la rotta portava nei mari dell'indebitamento e di Tangentopoli. Tuttavia, malgrado ogni cautela possibile, come si fa a ignorare la potenziale portata simbolica della vittoria di Lione della Croazia sulla Germania? La nazionale croata rappresenta una nazione di poco più di quattro milioni e mezzo di abitanti, uscita così com'è dalla disintegrazione della Jugoslavia, grazie anche al riconoscimento tedesco, alla protezione di una potenza di oltre ottanta milioni di abitanti. La simbologia della partita di sabato scorso è così suggestiva da indurre a prendere la parola non solo il vincitore Tudjman, ma anche lo sconfitto Kohl. Il presidente della repubblica croata ha parlato naturalmente di un risultato «storico», esattamente come il centrocampista Boban, che ha definito quella sulla Germania una vittoria della libertà, deprecando i tempi in cui «in campo era proibito anche parlare croato»: e intanto la piazza principale di Zagabria (settecentomila abitanti) si riempiva di gente impazzita di gioia che si tuffava nelle fontane, perché tutto il mondo è paese. Dal canto suo, il cancelliere Kohl ha sentito il bisogno elettorale di spiegare che la colpa è stata dell'arbitro, e nulla può essere rimproverato ai giocatori e al tecnico. Una mano santa e democristiana si è stesa quindi su Berti Vogts e sulla sua «banda di pensionati» (la definizione è della stampa tedesca, listata a lutto). E allora diciamolo, qual è il simbolo rappresentato dalla Croazia calcistica, guardiamo in faccia qual è la paura che incute questa nazionale riuscita inopinatamente ad arrivare alle semifinali nella sua prima partecipazione al Mondiale. Sarà una simbologia irrazionale e una paura irrealistica, ma la piccola repubblica croata ha il profilo adatto per rappresentare l'outsider che attacca il gigante obeso dell'Europa dell'euro. A guardarli, i croati in campo, danno tutti l'idea di essere matti e pirati, gente disinibita, furba e sgherra. Il duro Stanic, il versatile Boban, il corsaro Suker che sogghigna con una vena di pazzia dopo avere appena mancato un gol fenomenale sembrano tutti tipi pronti ad aggredire senza esitazioni gli europei dell'Unione. Loro sono nazionalisti, affamati di successo, pronti alla competizione, mentre in confronto Germania e partner appaiono molli e oberati dalle loro pensioni e dai loro pensionati, appesantiti loro società invecchiate tristemente come la squadra di Klinsmann e Matthäus. L'auspicio irresistibile è che dove hanno drammaticamente fallito Bierhoff e Kohl, riescano Chirac (o il coabitante Jospin) e Deschamps, complice anche il fattore campo ed eventualmente l'arbitro. Altrimenti la simbologia diventerà irresistibile: la grande balena attaccata dai pesci piranha, l'Europa immolata sull'altare crudele della globalizzazione, l'asse franco-tedesco spezzato dalla furia degli ultimi arrivati, il satellite che distrugge il pianeta. Per la pace di tutti, per non toglierci il sonno, per esorcizzare i simboli, è meglio che Zidane e Djorkaeff, Thuram, Desailly e tutti gli europei acquisiti sotto le insegne dei Blu di Francia, si diano da fare, nel nome di un cosmopolitismo illuminista, o nel segno di Maastricht.
LA STAMPA, 08.07.1998
L’INCUBO DELLA GUERRA INFINITA
Ciò che colpisce, nella sentenza su Silvio Berlusconi, non è soltanto il caso del capo dell'opposizione condannato a due anni e nove mesi di reclusione. Questo è l'aspetto più clamoroso, che mette allo scoperto tutta l'oggettiva fragilità della eterna transizione politica italiana, e insieme il potenziale di conflitto ancora inesploso che essa incorpora. Ma alla fine di un lungo iter processuale, l'altro aspetto che deve essere sottolineato è anche l'inevitabilità del procedimento giudiziario, la sua concatenazione irrimediabile, una specie di automatismo fatale. Presa nel suo significato letterale, la sentenza dice che un imputato si è reso responsabile di corruzione. Ma considerare la decisione del tribunale milanese come la semplice conclusione di un atto giudiziario sarebbe una prova di astrazione suprema. Silvio Berlusconi infatti è entrato sul terreno politico portandosi dietro il peso dei suoi affari: erano scomparsi i suoi referenti politici, e quindi il suo impero mediatico rischiava i colpi di un attacco politico. Con una invenzione straordinaria, è riuscito a sconvolgere la politica italiana, e nello stesso tempo anche a risolvere il problema patrimoniale. Ma proprio il trapianto del Cavaliere dall'azienda nella politica ha fatto crescere il problema giudiziario. Da quel lontano 21 novembre 1994 in cui la procura di Milano gli spedì l'invito a comparire, questione politica e questione giudiziaria si sono intrecciate senza scampo. Berlusconi ha aumentato via via i toni delle sue polemiche contro le «toghe rosse», fino alle dichiarazioni furenti di ieri in cui minaccia un'opposizione senza quartiere al «regime». Bisogna osservare che sulla politica aveva nutrito anche molte illusioni. In primo luogo, l'illusione che la politica stessa fosse una protezione sufficiente per resistere a un'offensiva giudiziaria. Cioè che fosse possibile trattare, con le buone, o con le cattive, con il potere giudiziario. Allorché cercò la prima prova di forza, con l'emanazione del decreto Biondi, trascurò il fatto che in quel momento l'opinione pubblica e settori consistenti dei partiti offrivano un sostegno travolgente a Mani pulite. Più tardi, l'illusione fu che si potesse risolvere il problema giudiziario attraverso un patto con il più importante interlocutore politico, Massimo D'Alema. La sede del patto era naturalmente la Commissione bicamerale; il suo contenuto un accordo costituzionale che ridefinisse la giustizia in termini così garantisti da implicare una certo grado di revanche sulla magistratura; il lato illusorio era la speranza che un caso personale potesse essere risolto con una riforma «di sistema». E quando mai: in un sistema politico senza più o senza ancora grandi padrini, la magistratura è straordinariamente più libera, meno soggetta ai condizionamenti che derivavano per esempio dagli equilibri della Prima Repubblica. Oltretutto, la ricerca dell'accordo «costituente» sulla giustizia rendeva evidente l'errore di atteggiamento di Berlusconi: l'errore di non avere semplicemente individuato e denunciato l'ostilità di una certa procura, ma di perseguire obiettivi generali di ridimensionamento della magistratura. Un risultato comunque l'ha ottenuto, Berlusconi; anzi, più d'uno. Ha diffuso ampiamente nell'opinione pubblica l'idea che «l'accanimento giudiziario» nei suoi confronti sia qualcosa di democraticamente e civilmente intollerabile. Inoltre è riuscito a spostare sulle proprie posizioni tutto il Polo. È sufficiente leggere le dichiarazioni di Gianfranco Fini («una sentenza politica degna di un tribunale speciale»), per rendersi conto del cambiamento avvenuto nel centrodestra, e in un partito dalla storica pulsione giustizialista. Il fatto è però che questo risultato complica ancora di più la situazione. Perché trasforma la «questione Berlusconi» in un conflitto politico a vastissimo raggio. Ci si immagina infatti che a sinistra ben pochi abbiano intenzione di mettersi di traverso rispetto al pool e al tribunale di Milano. Qualcuno tacerà, qualcun altro dirà che nessuno può essere «legibus solutus» e che occorre avere fiducia nella giustizia. Il che agli occhi di Berlusconi equivale a una complicità di fatto con la magistratura. Se la lotta politica si intensificasse, c'è poi da scommettere che l'arma impropria dell'aggressione al Berlusconi «pregiudicato» verrebbe usata allegramente, così come in passato è stata cullata a lungo la speranza di poter battere la destra non attraverso un duro e legittimo confronto politico, bensì per la scorciatoia giudiziaria. Quindi la sentenza di Milano aggrava sia il rapporto fra le parti politiche sia quello fra politica e giustizia. Ma è interlocutoria: non è sufficiente né per provocare una risposta dura della politica, né per indebolire o liquidare definitivamente un leader politico e il suo partito. Continuerà l'attrito, si presume, e continuerà rumorosamente. Berlusconi si appellerà alla lettera della legge, secondo cui nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio, e proseguirà la sua lotta contro le procure. Si entra in uno stallo percorso da fibrillazioni spaventose, in una micidiale guerra di posizione: e nessuno ha la chiave per sbloccare il meccanismo. Tutti coloro che ci hanno provato in passato, da Amato e Conso in poi, si sono scottati le dita, e oggi non si vedono aspiranti martiri. Ma se questo oggi appare il principale problema politico italiano, la soluzione non può essere lasciata ai congegni giudiziari: alla politica si risponde, e non può essere altrimenti, con la politica.
LA STAMPA, 16.07.1998
IL GRANDE AZZARDO DEL CAVALIERE
In Silvio Berlusconi c'è una determinazione straordinaria. Basti pensare che buona parte della classe politica italiana, partiti storici come la Dc e il Psi, leader di razza ed esponenti importanti della vita pubblica sono stati spazzati via dall'offensiva giudiziaria. Sotto le inchieste di Mani pulite buona parte del sistema politico si è afflosciata, quasi con rassegnazione, senza nemmeno resistere.. Invece il Cavaliere è sempre lì. Una volta bastava un avviso di garanzia per liquidare un ministro. Lui, pluricondannato, ha fatto diventare le sentenze ai suoi danni la trincea del Polo. Non solo: ieri ha nuovamente attaccato il «disegno politico-giudiziario» di alcune procure, e questa non è una novità; ma ha aggiunto che se gli fosse tolta la libertà personale «sarebbe il loro ultimo errore perché la mia parte politica sarebbe largamente vincente nel paese». Può essere la naturale iattanza di un combattente: già da qualche giorno infatti Berlusconi diffonde sondaggi trionfali sui consensi del Polo e di Forza Italia. Ma può essere anche qualcos'altro. E cioè una scommessa politica, spregiudicata come tutte le scommesse del capo di Forza Italia: la scommessa secondo cui in questo momento si è coagulato un fronte garantista, antigiustizialista, pronto a trasformarsi in un fronte politico. Berlusconi non sta scommettendo a vuoto. Con il passare del tempo è riuscito a imporre l'idea di essere un perseguitato politico. È riuscito anche a trasferire sulle sue posizioni tutto il Polo, dai postdemocristiani al partito di Fini. Anzi, proprio la posizione di An, un partito che non annovera nel proprio passato ispirazioni particolarmente garantiste, e che è stato uno dei più colossali beneficiari dell'opera della Procura di Milano, proprio la posizione di An rivela che la linea di Berlusconi ha avuto successo. In sostanza, il Cavaliere è riuscito nell'impresa di trasformare la propria posizione personale nella questione cruciale della politica italiana. Talmente cruciale che in questo momento, di fronte al dilemma della Commissione parlamentare (d'inchiesta o di indagine, come si discute adesso), tutto il resto sfuma tristemente sullo sfondo. Ormai, ciò che conta è il conflitto terribilmente reale, ma anche terribilmente mediatico, giocato nei tribunali ma anche nell'immaginario, ad un tempo concreto e astratto, fra Berlusconi e la magistratura. La magistratura nel suo insieme: non è possibile infatti distinguere la Procura di Milano o di Palermo dal resto dell'ordine giudiziario. La scommessa di Berlusconi implica necessariamente che il regolamento dei conti avvenga con tutta la magistratura, in quanto istituzione complessiva. Il calcolo non è affatto illogico. Il leader di Forza Italia mette nel conto che il clima è cambiato vistosamente dai tempi di Tangentopoli. Oggi settori consistenti dell'establishment vedono nelle disgrazie giudiziarie berlusconiane qualcosa che li colpisce per interposta persona; e nell'opinione pubblica sembra diffondersi insofferenza per «l'accanimento» del pool di Milano. Ma la razionalità di questo calcolo e della scommessa conseguente forse trascura un particolare. Certo, è probabile che la scorta di indignazione sia esaurita. Tuttavia le velleità di ritorno al passato stanno assumendo una tonalità francamente eccessiva. Cossiga che chiede l'amnistia, i molti che fanno atto di contrizione rispetto al destino di Craxi, il coro dei complici, se non altro, del grande intreccio politico-affaristico chiamato Tangentopoli, che rivendica un ruolo e un avvenire. C'è qualcosa di troppo. Certo, è possibile che la storia del sistema italiano sia ancora tutta da fare, da analizzare con equilibrio e senza demonizzazioni. Ma la consueta genialità strategica di Berlusconi, la capacità di convincere l'opinione pubblica di essere una vittima, l'abilità strepitosa nel vellicare l'anticomunismo del proprio elettorato anche in assenza dei comunisti, si portano dietro anche il fardello di una parata di revenant da fare impressione, insieme a una ventata di restaurazione che lascia disarmati. Per lo spirito provocatorio di Cossiga, gli «straccioni» dell'Udr, il plotone di semi-leader e mezze figure recentemente riemerse nelle sale romane, costituiscono una rivendicazione della politica in quanto tale. Per il Cavaliere, questa specie di esercito della santa fede, di lazzari che vogliono tornare, potrebbe essere al contrario una delle peggiori compagnie possibili. Perché la scommessa di convincere la «gente» di essere condannato ingiustamente può avere successo, malgrado la sua carica anti-istituzionale; ma se in questo modo si legittima il ritorno del passato - di quel passato, così ben noto - anche nella strategia di Berlusconi potrebbe aprirsi una crepa.
LA STAMPA, 16.07.1998, TUTTOLIBRI
CHAMPS ELISEES: I FUOCHI FATUI DI UNA FOLLA POSTMODERNA
Parigi è sempre Parigi, e la Francia è pur sempre la patria di Voltaire e dei Lumi. E allora, assistere allo spettacolo dei seicentomila che hanno affollato gli Champs Elisées per vedere gli eroi della «vittoria in blu» al Mondiale produceva un effetto spiazzante: proprio come un rigore. A cui si aggiunge la concatenazione con il 14 luglio: un giorno Zidane e compagni, per la festa contemporanea del calcio; il giorno dopo la festa storica per la Rivoluzione. È naturale che una quantità così imponente di folla e di possibili simboli induca a riflessioni in cui il brivido sull'epidermide risveglia pulsioni nel profondo. Ed ecco allora l'epinicio mediatico sulla vincente Francia multietnica, la Francia che si riscopre nazione, la Francia come «una certa idea della Francia»: il 3 a 0 contro il Brasile fa scattare il cortocircuito tra la filosofia e il gioco, fra la politica e la storia, fra lo show e l'ideologia. Meraviglioso, se fosse tutto vero. Ma è vero solo in parte. L'ideologia della vittoria pluri-razziale appiccica etichette di tolleranza e di civiltà virtuali a un problema sociale difficilmente riducibile a virtù civica egemone, la coscienza nazionale recuperata per via calcistica è un velo fragile rispetto alle dinamiche della devolution europea, l'identità francese stinge nell'incertezza sullo sfondo delle spinte «globali». E allora, che ci stanno a fare le migliaia che inneggiano e festeggiano? Esattamente ciò che è stato descritto, fanno da coro al simbolo nazionale ritrovato, espongono un'identità solidale, repubblicana, filosoficamente salda. Ma fanno, anzi sono, anche qualcosa in più. Qualcosa che si sovrappone a tutto questo e lo dissolve: sono un grande spettacolo postmoderno, che un interruttore piccolo e semplice, il trionfo su Ronaldo, ha acceso nel vuoto. Questo flash incongruo illumina Parigi, e rivela il bisogno di comunità, di emozioni collettive, di identificazioni intense. Oggi a Parigi per Zidane, ieri a Londra per Lady Diana, domani chissà dove e per chi: dovunque possa scattare una'identificazione. Solo che questa identificazione è un fuoco fatuo. Il londinese Nick Hornby, in Febbre a 90', sostiene che la condizione naturale del tifoso è «un'amara delusione». Risulta irresistibile dilatare questo pensiero, e sfidare la conclusione che la delusione è la condizione del mondo. Si esulta, per un giorno, quando la fortuna fa ribollire nella coscienza pubblica il tricolore, la Repubblica, la nazione, la Storia. Subito dopo, di quel falò sentimentale restano tracce inerti disperse nella realtà frammentaria. Di fronte alla quale, agitare le bandiere, sgolarsi per la nazione, o fare il tifo per una filosofia apparirebbe come il sintomo non tanto di una pazzia, quanto dell'idea peregrina di poter fare convivere stabilmente i sogni e la realtà. Dato che oggi la vita non è sogno, ai sogni è consentito di esistere, ma solo per un giorno.
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