LA STAMPA
LA STAMPA, 20.07.1998
L’ULIVO E LA SINISTRA ITALIANA
L'Ulivo è un albero che appare nei momenti di crisi. Fu fatto crescere artificialmente per battere Berlusconi; poi fu accantonato, e trattato come la sigla esteriore di un'alleanza fra partiti. Naturalmente questa ricostruzione è sintetica sino alla forzatura. Ma se oggi l'Ulivo si rimaterializza nel dibattito politico della sinistra, se Bassolino ha ipotizzato una costituente ulivista, se Veltroni sembrava non aspettare altra esca per agitare il rilancio del centrosinistra come partito o «quasi-partito», in prospettiva forse non ci sarà la grande crisi, ma c'è sicuramente una serie di crisi, piccole e meno piccole. La crisi maggiore è ovviamente quella sulla giustizia, emersa in tutta la sua acutezza dopo le ripetute condanne penali di Berlusconi. Ed è una crisi che investe in pieno il centrosinistra: dall'altra parte infatti, il Polo agisce come una pacchetto di mischia, senza nessuna incertezza; l'Ulivo invece è una baraonda di posizioni, con una lussureggiante varietà di garantisti e non garantisti, di sostenitori delle procure e di fautori del primato della politica e del realismo (fra i quali è certamente Massimo D'Alema). È su questo sfondo che alla Camera il presidente del consiglio Prodi ha attaccato vigorosamente Berlusconi in tema di giustizia. Per sottolineare, con una distinzione implicita fra le segreterie dei partiti e l'opinione pubblica ulivista, che il centrosinistra sarà diviso, ma l'Ulivo è unito; che i partiti della maggioranza avranno idee differenziate sulla magistratura e sui giudici, ma l'Ulivo mantiene verso il capo di Forza Italia il rifiuto metafisico dei primordi ed esprime un sostegno pieno all'ordine giudiziario. La premessa costitutiva di questo atteggiamento è la convinzione che esista effettivamente, ancorché sia poco visibile, una realtà non immaginaria chiamata Ulivo, diversa dai partiti dell'alleanza di centrosinistra e che a essi si sovrappone, nonché capace all'occorrenza di esprimere posizioni proprie, tendenzialmente più vicine ai sentimenti del «popolo», o meglio dell'opinione pubblica, di centrosinistra. Le altre crisi minori avvengono più o meno tutte nella casa dei Ds, e investono inevitabilmente la figura di D'Alema. Non potrebbe essere altrimenti. Al di là del successo elettorale del 1996, e il merito di avere sostenuto lo sforzo per l'euro, il segretario del maggiore partito italiano ha tentato diverse operazioni tutte potenzialmente «storiche», senza riuscire a incassarne una. L'insuccesso che brucia di più è certamente quello della Bicamerale, perché probabilmente rimanda la modernizzazione costituzionale oltre il millennio. Ma difficilmente qualcuno accuserà D'Alema di avere sbagliato i calcoli, con la Bicamerale, e di avere danneggiato così il proprio partito o la propria alleanza. Sotto il profilo più esplicitamente politico, cioè dove le conseguenze possono essere più stringenti, l'errore di D'Alema, o almeno la scelta che gli potrà essere contestata dagli avversari interni, è di avere deliberatamente snobbato l'Ulivo, dopo averlo usato come strumento elettorale, per infilarsi nella vicenda deludente della «Cosa 2» e del partito socialdemocratico. Senza dubbio il processo che ha portato alla nascita dei Democratici di sinistra è stato asfittico. Non solo: mentre il compito primario consisteva nel consolidare il centrosinistra, fissando stabilmente la sua fisionomia, e la presenza nell'alleanza di quella quota di cattolici e di moderati che hanno scelto di schierarsi contro il Polo, la soluzione di D'Alema è sembrata privilegiare il sacro egoismo di partito. Soluzione tanto meno preveggente, almeno a giudizio degli ulivisti, in quanto nel frattempo sono ripartite le grandi manovre neocentriste di Cossiga, che hanno come scopo di minare il confine bipolare e non nascondono di voler ricondurre in una nuova alleanza i Popolari e i laici moderati. Il realismo di D'Alema quindi può apparire come un'operazione senza respiro, che blocca i Ds in posizione marginale, e non lo abilita né per numeri né per idee a candidarsi direttamente alla guida del paese, e che anzi, nella prospettiva più apocalittica, potrebbe consegnare i Ds a una funzione di eterna minoranza. Ieri, agli «stati generali» della sinistra a Napoli, D'Alema non si è sottratto alle sollecitazioni di Bassolino e di Veltroni. Ha dedicato qualche frase all'Ulivo, e si è detto perfettamente d'accordo sulla necessità di restituire profilo politico alla coalizione. Ma lo ha fatto senza riuscire a nascondere del tutto il suo scetticismo. Il senso delle sue parole era essenzialmente: credo a tal punto nell'Ulivo da invitarlo caldamente a farsi vivo. È possibile che il segretario, con il suo realismo scettico, abbia ragione per il presente. Ma se si pensa che il passaggio continuamente rinviato alla «fase 2» del governo ha bisogno di un programma politicamente impegnativo; e, guardando più in là, che per competere politicamente con la destra (quella destra di cui D'Alema sottolinea continuamente che è «maggioranza nel paese») occorre ormai qualcosa in più di un cartello elettorale, forse si può pensare che a Napoli è ricominciato un dibattito su cui si misurerà nei prossimi mesi e anni il potenziale politico della sinistra italiana.
LA STAMPA, 24.07.1998
LA RISORSA ESTREMA DELLE RIFORME
Buona parte della classe politica sta guardando al referendum sull'abrogazione della quota proporzionale nella legge elettorale come a un inciampo fastidioso. L'altra parte lo considera una minaccia pericolosa. Il governo lo guarda come l'unica mina su cui potrebbe saltare. Il fastidio e la minaccia vengono intensificati dalla sorpresa, cioè dal fatto che fino non troppe settimane fa sembrava che la raccolta delle firme, cominciata in sordina, dimostrasse un interesse molto tiepido dei cittadini. Ora invece con il referendum si dovrà fare i conti. Questa nuova avventura referendaria vede per protagonisti uomini politici dalle speranze deluse, come Mario Segni e Achille Occhetto, outsider della politica come Luigi Abete, liberali spregiudicati e non facilmente omologabili alle logiche di partito come Antonio Martino, con l'aggiunta del personaggio più ingombrante della realtà politica italiana, Antonio Di Pietro. A guardarla con occhio scettico, si tratta di una iniziativa anacronistica. Con i personaggi sbagliati, con i tempi sfasati. Eppure, anche se si dovrà aspettare il vaglio della Corte costituzionale, appare chiaro sin d'ora che il referendum sulla proporzionale è un elemento di dinamismo, in quanto è destinato a riaprire giochi politici che sembravano saldamente chiusi. Il progetto riformista si è arenato nelle secche della Bicamerale, dopo avere dato forma a un progetto di basso profilo. Nell'opinione pubblica si è diffuso un senso di rassegnazione, l'idea che per ciò che riguarda le riforme del sistema politico e istituzionale si fosse raggiunto il massimo, che coincide col minimo, possibile: dopo di che, i partiti si sono riappropriati dello scettro che con i referendum sulla preferenza unica e sulla proporzionale era temporaneamente passato al popolo. Che adesso quasi settecentomila italiani abbiano deciso di firmare per il nuovo referendum, superando con uno slancio inaspettato le debolezze organizzative e le non grandi aspettative con cui l'iniziativa è stata accolta, dimostra che dentro la nostra società circola ancora una volontà se non altro ostinata. Si potrà giudicare ingenuo affidare ancora speranze di cambiamento a una modificazione delle regole: l'esperienza ha mostrato che la capacità di ricatto di alcune parti politiche è insensibile alle leggi elettorali; il Parlamento prolifera di gruppi e sigle politiche; la struttura bipolare è resa incerta dalla persistenza della Lega, dall'irriducibilità di Rifondazione comunista, dall'artificialità dei Poli, dai rigurgiti neocentristi. Insomma, dalla ventata referendaria a oggi si sono visti esiti deludenti o comunque contraddittori. Allora che cos'è il referendum Segni-Di Pietro, un saldo di fine stagione? Sarebbe così se il sistema politico avesse saputo completare la riforma costituzionale, e se nello stesso tempo avesse riformulato una legge lettorale coerente con lo schema bipolare. Come si è visto, il ridisegno delle istituzioni era di qualità mediocre, la storica scelta semipresidenzialista era avvenuta per un incidente di percorso, e la formula elettorale sottostante, basata sul doppio turno di coalizione, era probabilmente peggiorativa del Mattarellum. Dunque è la cattiva prestazione dei partiti e degli schieramenti a ridare legittimità allo strumento referendario. Il quale oggi rappresenta la risorsa estrema per riavviare dal basso il processo riformatore: non tanto attraverso la via del compromesso fra le parti ma come possibile shock politico a cui la classe politica sarà obbligata a offrire una risposta. C'è comunque una differenza consistente rispetto ai primi anni Novanta. Allora i referendum erano, o apparivano, il nuovo contro il vecchio, la società civile coalizzata contro una società politica che subiva senza reagire. Oggi, proprio perché rappresenta un inciampo o una minaccia, il referendum verrà giocato anche dai partiti, cioè diventerà oggetto di lotta politica. Prima i partiti proveranno a sterilizzarlo; se non ci riusciranno, ne faranno l'oggetto di una competizione dalle prospettive imprevedibili. A questi aspetti va aggiunto la forte personalizzazione che il referendum incorpora. Il ruolo di Di Pietro rischia infatti di tramutare la consultazione referendaria in un plebiscito fra opposti: fra garantismo e giustizialismo, fra partitocrazia e populismo, fra politica e antipolitica. Sarebbe un errore disastroso configurare il referendum come un giudizio di Dio su Di Pietro, rappresentante della giustizia di popolo, su Berlusconi, in quanto nemico delle procure, o su D'Alema, per la sua inclinazione partitocratica. Conviene guardare al referendum esattamente per quello che è, vale a dire l'ultima carta di un processo riformatore che rischia di sfumare oltre i confini del millennio. L'ultimo chance di terminare la razionalizzazione del sistema politico. Senza sagomarlo sulle figure e sui problemi dei protagonisti politici. Senza farne una guerra di religione. E magari chiedendo ai partiti, grandi e piccoli, uno sforzo di fantasia: affinché non facciano battaglie sante contro il referendum, che nessuno capirebbe, e perché non lo usino come arma politica l'un contro l'altro, aprendo conflitti che i cittadini sarebbero grati di vedersi risparmiare.
LA STAMPA, 06.08.1998
NE’ GUERRA NE’ SECESSIONE
La rivendicazione da parte dei «Lupi grigi di Torino» dell'invio del pacco bomba a Giuliano Pisapia è uno di quei segnali indecifrabili che segnano tutti gli itinerari terroristici. Per adesso l'unica cosa che si può dire con un minimo di certezza è che l'«emergenza squatter» ha cambiato radicalmente di segno. Fino a qualche giorno fa, prima della comparsa degli ordigni esplosivi, appariva come una storia di autoesclusione metropolitana. Oggi invece il gioco è cambiato: siamo di fronte a qualcosa che innesca un cortocircuito mediatico. È presto per maturare convinzioni serie. Non si sa da dove vengano effettivamente le bombe, chi le abbia confezionate e spedite, se avevano uno scopo più che dimostrativo, se esiste un'ala o una rete insurrezionale dei centri sociali. Si capisce solo che la scelta dei destinatari si iscrive in una «strategia della suggestione»: chiunque l'abbia ideata e messa in pratica ha individuato alcune figure che hanno avuto un ruolo simbolicamente forte, come il magistrato Laudi e il giornalista Genco, o altre che hanno cercato di tenere attiva una mediazione con il mondo dei centri sociali, come il consigliere regionale verde Cavaliere e il presidente della Commissione giustizia della Camera, Pisapia. Prima dei pacchi bomba, si era capito che l'emergenza-squatter non era un caso soltanto torinese. Il suicidio di Edoardo Massari e di Maria Soledad Rosas erano diventati in diverse città italiane l'oggetto di una mitologizzazione antisistema. Erano apparsi disegni e scritte sui muri in cui queste due morti venivano equiparate a un assassinio e a un martirio. Si erano create insomma molte delle condizioni necessarie per dilatare una tragica storia locale alla dimensione di un mito antagonista serpeggiante nelle aree metropolitane del nostro Paese. Per quanto rudimentali, le bombe hanno fatto rumore come se fossero esplose davvero. Di fronte alla rivendicazione, c'è anche la dissociazione di due centri sociali torinesi, che parlano di «provocazioni». In attesa di qualche spiraglio sulle responsabilità effettive, per adesso non serve a nulla immaginare complotti dei servizi, così come è prematuro giurare che in certi ambienti della marginalità sociale qualcuno abbia deciso di saltare il fosso (passando a una strategia non dissimile da quella di Unabomber, il terrorista americano autore di attentati in chiave antitecnologica). Tuttavia, come si è detto, certo è che oggi muta sensibilmente il profilo degli squatter. Erano stati descritti come protagonisti di una deliberata esclusione dalla vita sociale e istituzionale delle città, come clandestini delle metropoli, riottosi a qualsiasi forma di integrazione, e oggi li ritroviamo al centro di un processo modellato sugli schemi della comunicazione. Ciò non è privo di implicazioni. Intanto ci dice che non è appropriato illustrare i centri sociali e i circuiti antagonisti come un mondo segnato esclusivamente dalla subalternità culturale. Anche prescindendo dai pacchi bomba, la realtà degli squatter comunica. Comunica la sua marginalità, ma comunica anche la sua specificità culturale, la sua separatezza ma anche le sue mitologie, i suoi consumi, la sua musica, i suoi riti di gruppo e il suo modello di aggregazione. Proprio per queste ragioni, era sociologicamente sbagliato considerare gli squatter come un'espressione del disagio sociale classico. Non si trattava di marginalità subita, di gruppi spinti al di là della convivenza urbana dalle forze del mercato e precipitati nell'esclusione senza capacità di recupero. E dunque non c'era alcuna possibilità di trattare gli squatter nel modo in cui le istituzioni trattano le sacche urbane di emarginazione. Non servivano a niente i sussidi e i servizi sociali, cioè tutto ciò che tenta di recuperare alla vita collettiva ciò che si è disintegrato sotto pressioni irresistibili. Nello stesso tempo, detto e ribadito che tutti hanno il diritto sovrano di consegnarsi alla marginalità più estrema, a patto di non ledere le regole di legalità a cui si attiene la maggioranza dei cittadini, va anche sottolineato che la realtà degli squatter non può essere affrontata esclusivamente in termini di repressione. Puntare solo sull'attività di polizia probabilmente non otterrebbe altro risultato se non quello di accentuare di riflesso l'orgoglio della separatezza, la qualità «ideologica» dell'autoesclusione, la mitologia dell'antagonismo verso una società ostile. Occorre piuttosto tenere aperti dei flussi di comunicazione, anche parziali e precari. In modo che la scelta della separatezza, della marginalità definitiva, non diventi una scelta di contrapposizione completamente deregolata e potenzialmente violenta, sul piano individuale o collettivo, come trasgressione o come rivolta. Adesso sappiamo che alcune entità sociali hanno operato una loro secessione. Bisogna evitare che nel nome di quella secessione dichiarino una qualche guerra o guerriglia, magari condotta approfittando degli strumenti della comunicazione e della loro manipolabilità. Perché con le nuove marginalità è obbligatorio convivere: e per una convivenza appena decente è bene evitare che vengano creati nemici assoluti. Meglio una realistica diplomazia che la dichiarazione di una guerra che nessuno sa come sarebbe praticata e dove condurrebbe.
LA STAMPA, 05.09.1998
UNA CRISI A BASSA INTENSITA’
A volere una formula, la situazione politica è ancora riassumibile come una crisi a bassa intensità. Il centrosinistra infatti è attraversato da conflitti che coinvolgono più o meno tutti i partiti, ma nello stesso tempo è ragionevolmente improbabile che si verifichi un evento davvero traumatico. Si ha piuttosto l'impressione che tutta l'area che ruota attorno al governo, compresa ovviamente Rifondazione comunista e compresa meno ovviamente l'Udr, debba trovare un riequilibrio; e che il raggiungimento di questo equilibrio dipenda non tanto dalle intenzioni esplicite dei partiti e dei leader, quanto dalla loro adattabilità alle circostanze. Ciò significa che i movimenti di questi giorni sono per lo più inerziali, e che in giro c'è poca politica. Tranne che per Rifondazione comunista, che è in gioco come partito, non sono in discussione né orientamenti politico-ideologici cruciali né scelte di lungo periodo. Si tratta più che altro di assestamenti, nei quali contano interessi parziali, ma in cui le variazioni negli addendi non stravolgono il bilancio complessivo. Ci si aspettava che qualcuno prendesse l'iniziativa di dare uno scrollone, e si capiva che questo qualcuno non poteva essere Bertinotti: il segretario di Rifondazione si trova in una condizione con pochi sbocchi, con il partito alle soglie di una spaccatura brutale, con la poco brillante prospettiva di essere considerato il distruttore del centrosinistra, l'autore di un regalo storico alla destra, e tutto questo senza citare le serpeggianti minacce di ribaltino con l'Udr. Invece erano attese iniziative dalle parti di Massimo D'Alema. Perché era da troppo tempo all'angolo, e aveva bisogno di recuperare un ruolo qualificante, togliendosi di dosso i bruciori delle sconfitte. Ma ieri, con la riunione del coordinamento nazionale dell'Ulivo, anche D'Alema ha scelto il profilo moderato. Niente invenzioni troppo movimentiste. Si ricuce, si riprende a tessere. Dopo avere accennato a qualche avance verso Cossiga, D'Alema si è premurato di chiarire che sulla Finanziaria i voti dell'Udr sono benvenuti ma vanno considerati «aggiuntivi» e non «sostitutivi» rispetto a Rifondazione comunista. Il poco che D'Alema ha mandato a dire non è del tutto insignificante. Tradotto in chiaro, significa: malgrado un certo successo come entità parlamentare, l'Udr per ora è un contenitore virtuale; non ci sono in vista collassi del Polo che consentano nell'elettorato la reincarnazione neocentrista pilotata da Cossiga a svantaggio di Fini e Berlusconi; tanto vale che l'Udr si affianchi alla maggioranza, bilanciando simmetricamente Rifondazione e conferendo al centrosinistra quasi la dimensione di «governo nazionale». E con la gradevole prospettiva di consentire a D'Alema di poter giostrare con maggiore libertà, fare l'ambasciatore viaggiante su un arco politicamente molto esteso, di poter trattare senza pregiudizi sull'occupazione e l'economia con Bertinotti, e con l'opposizione alcuni temi come la riforma della giustizia. Qualche tessera ha già cominciato timidamente a sistemarsi. Prodi rilancia l'Ulivo proiettandolo verso le elezioni europee, e nello stesso tempo si prende perfino la briga di avanzare qualche inatteso messaggio distensivo all'opposizione. Il problema, adesso, è come si passa dalla crisi serpeggiante a una nuova stabilizzazione. Il percorso è complicato, incontrerà inciampi e difficoltà, ma non ha alternative razionali. L'area della maggioranza tende a estendersi, stemperando così le possibilità di condizionamento dei singoli partiti. Nello stesso tempo riprende vigore l'ipotesi del «patto sociale» proposto da Ciampi (che ieri ha trovato l'approvazione anche di Gianni Agnelli), cioè una riedizione del modulo neocorporativo della concertazione. Prodi ha parlato della prossima Finanziaria come di una legge «di rilancio» e «attenta all'equità», mandando così segnali a sinistra. Alla fine il puzzle domestico, per quanto irritante appaia la difficoltà della soluzione a tentoni, potrebbe effettivamente comporsi. C'è da chiedersi invece come sia possibile da un lato governare efficacemente (soprattutto in un momento mondiale che richiede credibilità politica e incisività operativa), all'interno di un'alleanza sempre più larga e fondamentalmente compromissoria. Oppure, su un altro piano, come si può perseguire l'obiettivo leggero della semplificazione e della flessibilità attraverso il macchinoso e pesante sistema della triangolazione fra governo, imprese e sindacati. Ma tant'è: se è vero che ha perso spinta propulsiva, l'Ulivo non ha perso affatto in estensione. Tende di nuovo a diventare un'alleanza-sistema, rappresentando e compensando al proprio interno il conflitto politico. Può essere proprio questo, il prezzo intrinseco della stabilità. D'altronde, dato che probabilmente la maggioranza può trovare il mezzo per neutralizzare Bertinotti, non si vede chi e dove sia qualcuno che abbia interesse a rompere. Eventualmente le tentazioni sono a entrare. E se il centrosinistra diventa «lungo», vuole dire che il suo sarà il tempo in cui si tratta tutto, di continuo: ma sempre sotto il segno del necessario e dell'inevitabile.
LA STAMPA, 17.09.1998
L’AMBIGUITA’ COME STRATEGIA
Quante volte era echeggiato nelle ultime settimane l'aut aut bertinottiano «svolta o rottura»? Su questa alternativa era appesa, almeno figurativamente, la legge finanziaria, e dunque la sorte del governo e della maggioranza. Ma in conclusione del vertice di ieri, la politica ha compiuto un altro dei suoi minimalisti miracoli in grigio, quelli che stingono le differenze, limano gli opposti, smussano gli angoli senza fornire soluzioni. Fatto sta che Bertinotti dice che non c'è svolta, e gli altri, D'Alema in testa, rispondono che non c'è neanche rottura. Sicuramente non c'è il clima di dramma politico che si verificò un anno fa, quando il leader di Rifondazione portò la crisi (quasi) sino in fondo. E a differenza di allora i protagonisti di questa fase sono tutti attori dimezzati, nessuno dei quali è in grado di tenere una scelta in modo radicale. Prodi e i partiti dell'Ulivo infatti non hanno più nel proprio arsenale il deterrente credibile delle elezioni anticipate; nello stesso tempo non appare praticabile nemmeno l'idea del ribaltino, cioè la sostituzione di Rifondazione comunista con l'Udr di Cossiga, con i rischi conseguenti di rimescolamento politico generale. Dal canto suo, Bertinotti non appare nelle condizioni di poter portare il conflitto all'estremo, pena una lacerazione già serpeggiante nel suo partito. Quindi il negoziato in corso avviene sotto il segno della necessità, delle vie obbligate. È necessario per la maggioranza trovare un accordo con Bertinotti, è necessario per quest'ultimo trovare modo di accordarsi con Prodi e D'Alema senza dimostrare di avere ceduto. E l'unico modo per fare scelte a senso unico senza dare l'impressione di avere perso la dignità consiste nel restare nell'ambiguità. Dal punto di vista degli equilibri politici, si tratta della soluzione più comoda, dato che permette di scivolare in avanti senza traumi, da un accordicchio all'altro, da una mezza rottura a una mezza ricucitura. Restare nell'ambiguità consente innanzitutto al governo di durare; e in secondo luogo concede a Bertinotti la possibilità di «tenere aperto il problema» e perciò di riproporre continuamente la sua presenza politica reclamando innovazioni clamorose di politica economica e incalzando il riformismo del governo da posizioni esplicitamente classiste. Anche se è un buon esempio di fantasia della politica, il copione dell'ambiguità ha anche effetti molto negativi. Rende insignificanti agli occhi dell'opinione pubblica i contenuti della politica governativa. Fa svanire nell'indifferenza pubblica una finanziaria che ha il timido aspetto di un convalescente dopo sei anni di terapie dolorose. Mortifica le aperture a sostegno dello sviluppo e dell'occupazione. Toglie visibilità le misure sociali ipotizzate a favore dei ceti più svantaggiati. Inoltre la strategia dell'ambiguità, l'unica empiricamente praticabile fra centrosinistra e Rifondazione, mantiene il Paese in una specie di condizione sospesa. Getta sul governo un alone di imprecisione, che si riflette anche sul suo livello di consenso e di popolarità. Introduce incertezza quando occorrerebbero certezze programmatiche e credibilità operativa. Fa perdere di vista la prospettiva imponendo i ritmi del breve e del brevissimo periodo. Ma, come diventa sempre più chiaro, non ha alternative. A tutti è permesso sognare un altro mondo, dove non esistono né aut aut né compromessi continuamente rinnovati. Ma fuori dai sogni bisogna fare i conti con problemi come «o svolta o rottura», e con soluzioni in cui la svolta è una svoltina e la rottura si minaccia ma non si fa.
LA STAMPA, 24.09.1998, SOCIETA' E CULTURA
LA TERZA VIA LASTRICATA DI SPINE
Come si stronca un guru? Per saperlo basta leggere il giudizio che l'Economist ha dedicato al libro di Anthony Giddens The Third Way, mandato nelle librerie inglesi dall'editrice Polity Press a metà settembre. Va da sé che espressioni come «terza via» sembrano fatte apposta per attirarsi le stroncature, anche in tempi di centrosinistra «mondiale». Ma Giddens non è un intellettuale qualsiasi: dopo una lunga militanza accademica a Cambridge, che lo ha imposto come uno dei migliori sociologi contemporanei, è diventato il direttore della London School of Economics, e uno degli ispiratori principali di Tony Blair e del New Labour. L'Economist non ha avuto dubbi: «Questo libro è tremendamente, magistralmente e per certi aspetti disturbantemente vacuo». Il fatto è, scrive la bibbia liberista, che la terza via fra socialdemocrazia e neoliberismo non è solo una chiacchiera da salotto per intellettuali, è diventata anche la dottrina filosofica semiufficiale del partito laborista, e ha fatto da sfondo al «curious political seminar» newyorkese con Clinton, Blair e Prodi. E quindi va presa sul serio, magari per registrare che la terza via di Giddens è lastricata di genericità: cosicché alla fine di 170 pagine di aria fritta, fumosità, «appelli convenzionali alla virtù civica», rimane solo un criterio accertabile: «in base a questo libro, la terza via è qualunque cosa faccia il New Labour». Propaganda, insomma. Che cos'è, malizia politica, faziosità anti-blairista, taccagneria conservatrice verso l'aerea generosità intellettuale del teorizzatore del «realismo utopico»? Certo, lo sberleffo dell'Economist è distruttivo. Ma per capire qualcosa in più su questa polemica, conviene fare un passo indietro. Praticamente tutto ciò che è contenuto in The Third Way trova la sua matrice in un altro libro di Giddens, Oltre la destra e la sinistra, uscito nel 1994 e presentato in Italia un anno fa dal Mulino. Un saggio in cui, secondo il manifesto, il sociologo inglese compie una vera e propria elaborazione del lutto per la "morte" del socialismo in tutte le sue versioni». Oltre la destra e la sinistra nasceva dalla consapevolezza secondo cui nel mondo attuale «il conservatorismo fattosi radicale si oppone al socialismo divenuto conservatore». Preso dentro questo rovesciamento, Giddens elaborava il suo discorso filosofico-politico del «centro radicale»: ci accingiamo a vivere nell'era della «post-scarsità», nel regno dei valori «postmaterialisti» analizzato da Ronald Inglehart. In questa prospettiva, e «in un universo sociale in cui i possibili futuri non solo sono costantemente valutati rispetto al presente, ma contribuiscono attivamente a plasmarlo», le categorie politiche classiche appaiono insignificanti. Nel futuro universo sociale pensato da Giddens, e quindi in parte già oggi, la politica deve intervenire sugli squilibri di potere piuttosto che sulla distribuzione del reddito, e poi sul decentramento dei livelli di governo, sulla presenza di povertà; il welfare deve diventare «positivo» (incorporando il rischio anziché offrendo una tutela) e la dimensione ecologica acquista un rilievo cruciale. Ci dev'essere effettivamente un sortilegio nella London School of Economics, se è vero che un famoso ex direttore della scuola, Ralf Dahrendorf, ebbe a dire che essa «ha sempre vissuto sul rischioso crinale dove si incrociano l'ambizione di comprendere le cose e l'ambizione di cambiarle». Per Giddens, che per più di vent'anni è stato apprezzato anche come quadrato costruttore di manuali sociologici, questo sortilegio si è espresso con la maturazione di interessi non convenzionali (a cominciare dal saggio dedicato nel 1995 a La trasformazione dell'intimità), per finire pericolosamente in politica con «la terza via». Questo suo ultimo e controverso libro va preso innanzitutto per quello che è, non per come lo hanno salutato i critici più sbilanciati a sinistra: non una grande opera di teoria ma un prontuario divulgativo. All'incirca «tutto quello che avreste voluto sapere sulla terza via». Con tanto di riepiloghi, di elenchi, di box. Tutto questo per provare a dare struttura e sostanza ad argomenti ad un tempo pesantissimi e leggerissimi. Perché il mondo contemporaneo, dice Giddens, è dominato e permeato da cinque dilemmi: la globalizzazione, il nuovo individualismo, il binomio destra/sinistra, il ruolo della politica, il tema ecologico. Questi cinque dilemmi (che l'Economist naturalmente fa a pezzi: «perché cinque e non quattordici, o altri cinque dilemmi differenti?») interagiscono intensificando a dismisura il loro effetto: la globalizzazione attacca lo stato-nazione e plasma il nuovo individualismo, che mina la solidarietà meccanizzata del welfare, mentre si profilano aree di rischio, come quello ambientale, su cui l'individuo non può nulla, gli stati-nazione possono poco, e rispetto al quale la contrapposizione destra/sinistra finisce per rivelarsi irrilevante. Il programma della terza via, ridotto a un elenco, è una serie di formule che hanno il pregio di irritare qualsiasi mentalità conservatrice, o semplicemente abituata a ragionare in termini fattuali. Che cosa vuole dire «società civile attiva», «nuova economia mista», «nazione cosmopolita»? Sono termini politicamente significativi o solo buoni auspici, wishful thinking progressista, buonismo postmoderno? L'ironia dell'Economist ha fissato l'intollerabile leggerezza delle categorie interpretative di Giddens. Ma forse la critica in questo caso è stata troppo facile. L'errore del sociologo inglese, semmai, è stato quello di portare le sue dottrine analitiche al livello di un manifesto politico: mettendo insieme in tal modo l'apoditticità del pamphlet e la rarefazione del teorico. Con il risultato di sembrare, alla fine, sicurissimo di sé e irrimediabilmente generico: cioè senza accorgersi che unendo una virtù accademica a un vizio politico non si fa molta strada, neanche sulla terza via.
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