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L’INCUBO DELLA GUERRA INFINITA

08.07.1998

Ciò che colpisce, nella sentenza su Silvio Berlusconi, non è soltanto il caso del capo dell’opposizione condannato a due anni e nove mesi di reclusione. Questo è l’aspetto più clamoroso, che mette allo scoperto tutta l’oggettiva fragilità della eterna transizione politica italiana, e insieme il potenziale di conflitto ancora inesploso che essa incorpora. Ma alla fine di un lungo iter processuale, l’altro aspetto che deve essere sottolineato è anche l’inevitabilità del procedimento giudiziario, la sua concatenazione irrimediabile, una specie di automatismo fatale. Presa nel suo significato letterale, la sentenza dice che un imputato si è reso responsabile di corruzione. Ma considerare la decisione del tribunale milanese come la semplice conclusione di un atto giudiziario sarebbe una prova di astrazione suprema. Silvio Berlusconi infatti è entrato sul terreno politico portandosi dietro il peso dei suoi affari: erano scomparsi i suoi referenti politici, e quindi il suo impero mediatico rischiava i colpi di un attacco politico. Con una invenzione straordinaria, è riuscito a sconvolgere la politica italiana, e nello stesso tempo anche a risolvere il problema patrimoniale. Ma proprio il trapianto del Cavaliere dall’azienda nella politica ha fatto crescere il problema giudiziario. Da quel lontano 21 novembre 1994 in cui la procura di Milano gli spedì l’invito a comparire, questione politica e questione giudiziaria si sono intrecciate senza scampo. Berlusconi ha aumentato via via i toni delle sue polemiche contro le «toghe rosse», fino alle dichiarazioni furenti di ieri in cui minaccia un’opposizione senza quartiere al «regime». Bisogna osservare che sulla politica aveva nutrito anche molte illusioni. In primo luogo, l’illusione che la politica stessa fosse una protezione sufficiente per resistere a un’offensiva giudiziaria. Cioè che fosse possibile trattare, con le buone, o con le cattive, con il potere giudiziario. Allorché cercò la prima prova di forza, con l’emanazione del decreto Biondi, trascurò il fatto che in quel momento l’opinione pubblica e settori consistenti dei partiti offrivano un sostegno travolgente a Mani pulite. Più tardi, l’illusione fu che si potesse risolvere il problema giudiziario attraverso un patto con il più importante interlocutore politico, Massimo D’Alema. La sede del patto era naturalmente la Commissione bicamerale; il suo contenuto un accordo costituzionale che ridefinisse la giustizia in termini così garantisti da implicare una certo grado di revanche sulla magistratura; il lato illusorio era la speranza che un caso personale potesse essere risolto con una riforma «di sistema». E quando mai: in un sistema politico senza più o senza ancora grandi padrini, la magistratura è straordinariamente più libera, meno soggetta ai condizionamenti che derivavano per esempio dagli equilibri della Prima Repubblica. Oltretutto, la ricerca dell’accordo «costituente» sulla giustizia rendeva evidente l’errore di atteggiamento di Berlusconi: l’errore di non avere semplicemente individuato e denunciato l’ostilità di una certa procura, ma di perseguire obiettivi generali di ridimensionamento della magistratura. Un risultato comunque l’ha ottenuto, Berlusconi; anzi, più d’uno. Ha diffuso ampiamente nell’opinione pubblica l’idea che «l’accanimento giudiziario» nei suoi confronti sia qualcosa di democraticamente e civilmente intollerabile. Inoltre è riuscito a spostare sulle proprie posizioni tutto il Polo. È sufficiente leggere le dichiarazioni di Gianfranco Fini («una sentenza politica degna di un tribunale speciale»), per rendersi conto del cambiamento avvenuto nel centrodestra, e in un partito dalla storica pulsione giustizialista. Il fatto è però che questo risultato complica ancora di più la situazione. Perché trasforma la «questione Berlusconi» in un conflitto politico a vastissimo raggio. Ci si immagina infatti che a sinistra ben pochi abbiano intenzione di mettersi di traverso rispetto al pool e al tribunale di Milano. Qualcuno tacerà, qualcun altro dirà che nessuno può essere «legibus solutus» e che occorre avere fiducia nella giustizia. Il che agli occhi di Berlusconi equivale a una complicità di fatto con la magistratura. Se la lotta politica si intensificasse, c’è poi da scommettere che l’arma impropria dell’aggressione al Berlusconi «pregiudicato» verrebbe usata allegramente, così come in passato è stata cullata a lungo la speranza di poter battere la destra non attraverso un duro e legittimo confronto politico, bensì per la scorciatoia giudiziaria. Quindi la sentenza di Milano aggrava sia il rapporto fra le parti politiche sia quello fra politica e giustizia. Ma è interlocutoria: non è sufficiente né per provocare una risposta dura della politica, né per indebolire o liquidare definitivamente un leader politico e il suo partito. Continuerà l’attrito, si presume, e continuerà rumorosamente. Berlusconi si appellerà alla lettera della legge, secondo cui nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio, e proseguirà la sua lotta contro le procure. Si entra in uno stallo percorso da fibrillazioni spaventose, in una micidiale guerra di posizione: e nessuno ha la chiave per sbloccare il meccanismo. Tutti coloro che ci hanno provato in passato, da Amato e Conso in poi, si sono scottati le dita, e oggi non si vedono aspiranti martiri. Ma se questo oggi appare il principale problema politico italiano, la soluzione non può essere lasciata ai congegni giudiziari: alla politica si risponde, e non può essere altrimenti, con la politica.

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