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CHAMPS ELISEES: I FUOCHI FATUI DI UNA FOLLA POSTMODERNA

16.07.1998
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PARLIAMONE

Parigi è sempre Parigi, e la Francia è pur sempre la patria di Voltaire e dei Lumi. E allora, assistere allo spettacolo dei seicentomila che hanno affollato gli Champs Elisées per vedere gli eroi della «vittoria in blu» al Mondiale produceva un effetto spiazzante: proprio come un rigore. A cui si aggiunge la concatenazione con il 14 luglio: un giorno Zidane e compagni, per la festa contemporanea del calcio; il giorno dopo la festa storica per la Rivoluzione. È naturale che una quantità così imponente di folla e di possibili simboli induca a riflessioni in cui il brivido sull’epidermide risveglia pulsioni nel profondo. Ed ecco allora l’epinicio mediatico sulla vincente Francia multietnica, la Francia che si riscopre nazione, la Francia come «una certa idea della Francia»: il 3 a 0 contro il Brasile fa scattare il cortocircuito tra la filosofia e il gioco, fra la politica e la storia, fra lo show e l’ideologia. Meraviglioso, se fosse tutto vero. Ma è vero solo in parte. L’ideologia della vittoria pluri-razziale appiccica etichette di tolleranza e di civiltà virtuali a un problema sociale difficilmente riducibile a virtù civica egemone, la coscienza nazionale recuperata per via calcistica è un velo fragile rispetto alle dinamiche della devolution europea, l’identità francese stinge nell’incertezza sullo sfondo delle spinte «globali». E allora, che ci stanno a fare le migliaia che inneggiano e festeggiano? Esattamente ciò che è stato descritto, fanno da coro al simbolo nazionale ritrovato, espongono un’identità solidale, repubblicana, filosoficamente salda. Ma fanno, anzi sono, anche qualcosa in più. Qualcosa che si sovrappone a tutto questo e lo dissolve: sono un grande spettacolo postmoderno, che un interruttore piccolo e semplice, il trionfo su Ronaldo, ha acceso nel vuoto. Questo flash incongruo illumina Parigi, e rivela il bisogno di comunità, di emozioni collettive, di identificazioni intense. Oggi a Parigi per Zidane, ieri a Londra per Lady Diana, domani chissà dove e per chi: dovunque possa scattare una’identificazione. Solo che questa identificazione è un fuoco fatuo. Il londinese Nick Hornby, in Febbre a 90′, sostiene che la condizione naturale del tifoso è «un’amara delusione». Risulta irresistibile dilatare questo pensiero, e sfidare la conclusione che la delusione è la condizione del mondo. Si esulta, per un giorno, quando la fortuna fa ribollire nella coscienza pubblica il tricolore, la Repubblica, la nazione, la Storia. Subito dopo, di quel falò sentimentale restano tracce inerti disperse nella realtà frammentaria. Di fronte alla quale, agitare le bandiere, sgolarsi per la nazione, o fare il tifo per una filosofia apparirebbe come il sintomo non tanto di una pazzia, quanto dell’idea peregrina di poter fare convivere stabilmente i sogni e la realtà. Dato che oggi la vita non è sogno, ai sogni è consentito di esistere, ma solo per un giorno.

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