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La Repubblica, 15/05/2006
Il romanzo bianconero
UN GOLLETTO di Alessandro Del Piero mette l' ultimo sigillo sulla malinconica partita di Bari, in cui la Juventus ha battuto la Reggina, vittima designata, vincendo il suo ventinovesimo scudetto. La malinconia deriva dalla convinzione generale secondo cui la società bianconera subirà un castigo tremendo dalle autorità sportive, per cui il campionato vinto si trasformerà in una retrocessione in serie B, o peggio in C. Quasi una vendetta del destino: con il potere spregiudicato per quanto dialettale della Triade che si rovescia nell' impotenza assoluta, per la perfetta mortificazione dei tifosi, i venti milioni di juventini in Italia e nel mondo. A occhio non vale neppure la pena di sdegnarsi, né di nutrire speranze. Si sa come sono i tifosi: il loro maggiore godimento è (a) vincere; (b) recriminare aspramente di fronte alle sconfitte. Sotto questo profilo, sia detto senza ironia, la situazione è dunque eccellente, dato che le possibilità di bombardare il quartier generale appaiono promettenti. Con il caso Moggi, la Cupola che si sostituisce al governo del calcio, la Vecchia Signora dei campionati si trasforma in una laida maîtresse. Quale migliore occasione per commiserarsi, deprecare e infine maledire? Subito dopo sarà bene ricorrere agli unguenti misericordiosi della memoria. Perché il calcio è una "cosa" a due dimensioni: il presente e il passato. Il futuro non esiste se non come attesa di una semifinale o di un derby. Per il tifoso integralista, si vince sul campo; e la giustizia sportiva non può ribaltare il verdetto ottenuto con il gioco: quindi, tanto peggio per i fatti, soprattutto quelli penali, appuntamento nel rifugio nella memoria. L' unica dimensione intoccabile, almeno per ora e almeno per certi anni più lontani. Perché i tifosi hanno cominciato a fare il tifo per la Juve per ragioni essenzialmente mitologiche: e la memoria dice che nei primi anni Sessanta la mitologia era simboleggiata dalle figure del Gigante buono e dello Gnomo cattivo, ossia il centravanti John Charles e il perfido numero dieci Omar Sivori. Lo sanno tutti che il calcio vive di immagini, di sintesi storico-tattiche, di prodigi geo-tecnici che si aggrappano ai neuroni e all' anima. Il colosso gallese Charles che se ne va in porta trascinandosi dietro il modesto difensore avversario che gli si era ingenuamente attaccato al possente girovita; il gigante buono che prende a ceffoni Sivori, spirito demoniaco, effusione diabolica, perché si calmi, lasci stare l' arbitro, e non si faccia espellere: sennò, altri schiaffi, e gli schiaffi di Charles non si discutono neppure, si prendono e zitti. Funziona, la memoria, funziona. è un esorcismo, è un linimento. Sivori, el Cabezon un "oriundo" che sarebbe capace di giocare con gli occhiali neri, per nascondere le occhiaie del poker notturno, e che in campo pensa soltanto a umiliare l' avversario, con il tunnel efferato, o come quella volta che sul cinque a zero, dopo che l' arbitro aveva fischiato un rigore per la Juve, aveva consolato il portiere avversario suggerendogli: te la metto lì; e poi invece l' aveva messa là, con l' altro che lo inseguiva per ammazzarlo. Anche lui un simbolo, Sivori, dell' odio cordialissimo che il mondo juventino nutriva nei confronti dell' Inter di Helenio Herrera, soprattutto lui, il detestatissimo e vincente Acca Acca, "il Mago", che intanto incamerava campionati e Coppe dei campioni mentre la povera Juventus non vinceva più un' ostrega: sicché quando in una desolata partita al Comunale di Torino, il populista Cabezon, incazzatissimo contro Herrera con cui ingaggiava polemiche vibranti, si avvicinò alla panchina interista e tirò una pallonata all' indirizzo della testa scolpitissima del Mago, venne giù lo stadio per l' ovazione (e chissenefrega se l' Inter espugna facilmente il Comunale, Parigi val bene una messa). Per capire fino in fondo la juventinità, si deve considerare non soltanto l' idea del "potere bianconero", quella combinazione di carisma agnelliano, ricchezza calcistica e infine di ramificato, a quanto pare, controllo dei campionati; bisogna avere sperimentato anche la micragna degli anni Sessanta, allorché una Juve miserrima era allenata da Acca Acca 2, ovvero "il Ginnasiarca", come lo chiamava Gianni Brera, il quale cercava di supplire alla carenza di classe dell' organico con una sua invenzione tattica, un modulo che lui definiva "el movimiento". Cioè, visto che siete scamorze, buttiamola sul casino totale. Un, dos, tres, movimiento! Vinsero anche un campionato, movimentisticamente, nel 1967, ma soltanto perché il generoso portiere dell' Inter Giuliano Sarti, riuscì a inventarsi una provvidenziale papera su un tiro piuttosto prevedibile del centravanti del Mantova, il solido Di Giacomo, proprio all' ultima giornata. Eppure ogni volta che don Heriberto, cavaliere dalla trista figura, annunciava luttuosamente la formazione, era una sofferenza. La "Giuventus", come la chiamava lui facendo scendere un brivido lungo la schiena dell' Avvocato, avrebbe giocato in attacco con il seguente assetto: «Sacco, Del Sol, De Paoli, Chinesinho, Sssigoni». Naturalmente "Sssigoni" era Gianfranco Zigoni, estroso fromboliere che non frombolava molto spesso, Sacco avrebbe dovuto emulare Rivera, ma non l' emulava, De Paoli era un centravanti vecchia maniera proveniente dal Brescia, Del Sol era il grande cursore del Real Madrid (con tanti campioni che c' erano al Real, «Amancio, Del Sol, Di Stéfano, Puskas, Gento», ci si era dovuti accontentare del cursore). E Cinesinho era un buon regista con forse qualche anno di troppo rispetto a quanto dichiarato ottimisticamente sulla carta d' identità. Cambiò un po' il clima allorché fu prelevato dal Varese per 640 milioni, fottendolo proprio all' Inter, Pietruzzu Anastasi, di cui sempre Brera asseriva «nei rientri sembra Leonidas», cioè il fantastico centravanti nero del Brasile annata 1938. Per la verità, almeno nei primi anni Anastasi segnava anche parecchio, scattava come un centometrista, e tirava anche delle stangate mica male (come si vide con il meraviglioso gol in girata nella seconda finale degli europei del 1968, contro la Jugoslavia, che agli juventini, settentrionali e soprattutto meridionali, che lo idolatravano, fece dimenticare una fila di fantasmi schierati al centro dell' attacco con i nomi di Siciliano, Miranda, l' ancora inesploso Combin, il nero Nenè: che pure, quest' ultimo, sapeva giocare ma si dà il caso non da centravanti). Dopo di che, acceso un lumino alla memoria, opportunamente ricordati i difensori Bercellino, Castano e Salvadore, celebrato il santino dell' ala destra Magnusson, che a norma di regolamento giocava solo nelle coppe, per riaffiorare dalle secche della mediocrità occorse che a occuparsi della Juve fosse Italo Allodi, che non aveva meno potere di Moggi, ma che deteneva tutt' altra eleganza e aplomb. Da allora in poi, l' elenco del sacrario comprende gente molto contemporanea come Zoff, Bettega, Furino, Morini Tardelli, Cabrini. Più tardi appartengono all' iconografia bianconera una serie di figure la cui memoria è stata fissata con precisione da entomologo dall' Avvocato: il "bello di notte" Zibì Boniek, il «coniglio bagnato» Robi Baggio (così zoologicamente identificato nelle prime partite del Mondiale americano nel 1994), per poi divenire un «Raffaello» rispetto al "Pinturicchio" Del Piero, consegnato così a una categoria artistica inferiore: e per fortuna i calciatori non sono grandi intenditori di storia dell' arte. Ma poi, nei momenti sconsolati che verranno, magari soffrendo come a suo tempo il Milan o il Bologna o la Fiorentina in certi campionati minori, in trasferte contro, mettiamo, l' Albinoleffe (absit iniuria), i tifosi juventini, per uscire da una prevedibile mutriosa desolazione psicologica, dovranno estrarre dall' album degli anni Ottanta la figurina Panini di Michel Platini. Per poter dire, risparmiateci la Triade, lasciateci piangere le nostre tragedie, a cominciare dalla notte dell' Heysel: ma al momento buono si dà un' occhiata al volto e alla maglia zebrata di Platini, e un po' di consolazione ne verrà. Il biliardista ironico, che in una certa epoca fece discutere i Bar sport su chi era più forte, lui o Maradona: uno che era capace, lo sanno tutti, di spedire il pallone nell' angolino su punizione: con una fucilata, o con una vellutata, ma anche di guardare l' arbitro, seduto per terra dopo il fallo grossolano di un difensore truculento, e di scoppiare in una risata. Perché il calcio è anche questo: i Moggi passano, com' è passato Attila, ma alla fine, qualcosa di Platini resta.
La Repubblica, 23/05/2006, DIARIO DI REPUBBLICA
FOOTBALL Quando la domenica l’ Italia sognava
L' oggetto è sferico, di cuoio marrone: tutti lo conoscono come "il pallone numero 5". Va trattato con cura, ripulito dal fango, nutrito con il grasso di foca, protetto gelosamente dai vicini vendicativi e dalle guardie comunali, gli efferati custodi di ogni divieto. Per i bambini degli anni Cinquanta, che lo prendono a calci su campetti spelacchiati, è un simbolo, un tesoro, la cosa più preziosa. In quel lungo momento storicamente quasi immobile, nel tempo in bianco e nero della memoria, il pallone e le sue traiettorie rappresentano la sintesi di sentimenti ancora molto semplici, vissuti con una partecipazione essenziale. Mentre si imparano infatti parole meravigliosamente esotiche come tackle, dribbling, offside, si comincia a mettere timidamente piede sulle gradinate dei piccoli stadi di provincia, in una specie di apprendistato tecnico-sentimentale guidato dai padri. Ancora quasi emoziona, il ricordo di quelle domeniche in cui si celebra la festa laica del calcio: i biglietti strappati all' ingresso, la rete metallica intorno al terreno di gioco, i giocatori schierati al centro del campo per il virile, britannico saluto al pubblico sugli spalti, come avrebbe detto con la sua secca solennità un Nicolò Carosio. Li senti gridare, gli "atleti", anche se il regolamento vieta di chiamare il passaggio. Si sente anche l' eco sonora del pallone colpito con forza, o la scia lieve di quando è accarezzato dal piede. E il lessico di ognuno di arricchisce di una terminologia affascinante, fatta di colpi di piatto, collo, interno: il tiro di esterno lo effettuano soprattutto i brasiliani, tipi estrosi che si manifestano per la prima volta alla coscienza collettiva nei Mondiali del 1958: visti nella finale contro la Svezia sui rudimentali schermi televisivi di allora, «tre giocolier di cioccolata, nel verde regno del caffè: sono Vavà, Didì, Pelè». Anche il refrain del Quartetto Cetra contribuiva a rendere favoloso l' ineffabile tocco carioca a quella cosa rotonda, "il cuoio", che il resto del mondo generalmente maltrattava. Sicché davvero il pallone numero 5 era un possibile punto di contatto fra continenti remoti: fra mentalità, tecniche, stili. Ce n' è voluto per distruggere quell' incanto. Sono stati necessari scandali, scommesse, squalifiche, bilanci falsi, e infine il colpo mortale della Cupola. Eppure nemmeno la scoperta della mafiosità intrinseca al campionato, neppure i tornei (forse) taroccati riescono a far dimenticare un sentimento di passione pura, magari a cominciare da un' angosciosa partita con l' Irlanda del Nord, "immaginata" grazie alla radiocronaca (sarà stata una qualificazione fallita per la Coppa Rimet). Così come niente riesce a far dimenticare splendori e miserie della Nazionale: il naufragio della spedizione cilena nel 1962, in un' edizione del Mondiale che tuttora ripropone all' infinito la finta a gamba secca di Garrincha e rivelò al posto dell' infortunato Pelè la nuova stella nera, il razzente Amarildo. Oppure le catastrofi coreane, a partire da quella di Middlesbrough nel 1966, quindi il fin troppo visto 4-3 sulla Germania, in Messico, quattro anni dopo. E il trionfo contro i tedeschi al Santiago Bernabeu di Madrid, l' 11 luglio 1982, dopo un avvio di Mundial decisamente mortificante. Ma nella dimensione arbitraria della memoria i successi di squadra, fenomeni collettivi, lasciano sempre il campo all' immagine dell' individuo, del fuoriclasse a tu per tu con la "sfera". Perché il ricordo è spesso gratuito, selettivo, tecnicamente fazioso. Si potrebbero lasciare nell' oblio intere stagioni calcistiche a patto di riportare alla mente il talento capriccioso di Omar Sivori, che una volta scese in campo con la maglia della Nazionale, contro la squadra materasso Israele, con l' unico chiarissimo scopo di infliggere umilianti tunnel ai derelitti avversari: irridendoli, facendoli cozzare l' un contro l' altro come in una comica di Chaplin, mentre la palla veniva sottratta dalla suola arguta, da una originale e petulante finta del sinistro del Cabezon. Questo, in sostanza, hanno provato a fregarci, Moggi e compagnia: la profonda verità - una verità innanzitutto ma non solo balistica - che c' era e ancora c' è nella violenza impressionante del tiro a volo di Gigi Riva; nel tocco talentuoso di Gianni Rivera, l' abatino che «quando tocca la palla, a San Siro fioriscono anche gli ombrelli». Più tardi, nel dribbling di Robi Baggio, una danza nel karma, alla ricerca di vite e palleggi precedenti. Perché di fronte al pallone, che nel frattempo è diventato a esagoni, a spicchi zebrati, e infine multicolore e "glam", e magari confezionato da piccoli schiavi, non contano nulla gli infingimenti, le astuzie diplomatiche, la politica. C' è, tanto per esemplificare, la verità inoppugnabile del lancio "da 40 metri" in cui è specializzato Luisito Suarez. Per tutta l' eternità il regista spagnolo eseguirà lanci infallibilmente di quella misura, una specie di esatta poesia materiale in quattro decametri. Così come il pallidissimo "Pablito" Rossi, genio opportunista, infilerà per tre volte il "magno Brasile" (come lo chiamava Gianni Brera) in ogni replay storico, uccellando la zona classica ma distratta dei brasiliani, e ogni volta punendo con la pesantezza dei gol la sufficienza dei loro difensori. E a proposito di replay nessuno dubita che anche Diego Armando Maradona sarà costretto a furor di popolo, e per sempre, a replicare il suo gol contro l' Inghilterra (Messico, anno 1986), sessanta metri corsi in dodici secondi, con sei albionici stecchiti in dribbling e il tiro finale che è una linea tracciata con melodrammatica forza del destino nella geometria dell' assoluto. L' uomo davanti al pallone riesce a inventare configurazioni classiche, codificate da intere generazioni che le hanno perfezionate. Il "doppio passo" attribuito honoris causa all' ala bolognese Amedeo Biavati, sorta di gesto barocco che d' un tratto recupera una sua linearità fulminea. La "foglia morta" di Mariolino Corso, cioè il calcio piazzato tirato con una parabola mollemente perfida. E poi la "rabona" di Maradona, intreccio di gambe per fare di sinistro il cross che il manuale del calcio pretenderebbe di destro. La "ruleta" di Zinedine Zidane, un giro di valzer frenetico, alla Nureyev, con gli avversari che assistono alla sparizione e alla ridislocazione della palla e del danzatore. E così via, fino al "sombrero", pallonetto irridente sopra la testa dell' avversario, e addirittura al "cucchiaio", esercizio illusionistico perfettamente irresponsabile, con cui Francesco Totti mette a sedere l' Olanda, ai calci di rigore, dopo una partita drammatica. Nonché all' ultima meraviglia tecnica, l' assist che Ronaldinho confeziona mandando la palla in profondità da una parte mentre guarda ostentatamente dall' altra, per ingannare tutti. Con la scoperta della Cupola, con le prevedibili retrocessioni e gli sconvolgimenti nei campionati, sembra avverarsi infine l' incubo che aveva avvelenato le giornate di una volta: personificato, l' incubo, dal vigile urbano che sequestra il pallone o dal vicino sadico che lo buca per dispetto o stupida vendetta. Si sa che, allora come oggi, il pallone sgonfiato è una mezza tragedia, individuale e di gruppo: anche se adesso, vaccinati dalla maturità, sappiamo che la corruttela può distorcere tutto, fuorché sottrarci l' immagine di qualcuno, Sivori, Maradona, Robi Baggio, alle prese con un pallone; ma allora anche di un bimbetto qualsiasi, in uno spiazzo in periferia, pronto a colpire di collo interno, vedendolo quasi più grande di lui, un pallone numero 5.
La Repubblica, 30/06/2006, SPORT
Azzurro qualunque
"Azzurro tenebra" era il titolo del romanzo che Arpino dedicò alla spedizione al rovinoso Mondiale tedesco del 74, fuori al primo turno incanagliti e inchinagliati. Tornati in Germania una generazione dopo, siamo qui che, tenebroso o no, aspettiamo un colore, un sapore, un rigore (vabbè, quello è arrivato) e un eroe. E invece siamo all' azzurro spento. Strano per una squadra in cui i protagonisti non dovrebbero mancare, per tipi abituati a stare sulle copertine con le veline, per una pattuglia di patiti del taglio inventivo (quello dei capelli, non quello in profondità). Finora non si è visto un Robibaggio, un Paolorossi, un Gigirriva. è la squadra dei Barzagli e degli Zaccardo più che dei Totti e dei Toni. Neanche una squadra operaia, sembra un' équipe di interinali. Aspettiamo il match con l' Ucraina, che un trascinatore ce l' ha e si chiama Shevchenko, attaccante che viene dalla terra delle badanti e dovrà essere ben badato. Per ora, nel cielo velato della patria, abbiamo visto un azzurro gregario, un azzurro mesto, un azzurro qualunque. Singolare sorte, dunque, per chi ha una seria cultura calcistica e politica progressista, fare il tifo per gli azzurri auspicando che almeno, bada come badi, non canni Cannavaro, il nostro caro leader, e con l' augurio politicamente inquietante che vinca il qualunquismo.
La Repubblica, 9/6/2008, R2
LA NORMALIZZAZIONE DELLA MAGLIA NUMERO 10
Ci sarà di certo una scuola di pensiero ispirata dal pragmatismo, scienza anglosassone, secondo cui i numeri sulla schiena dei calciatori non contano un bel niente. Conta lo schema, il modulo, il gioco, i gol, il risultato. Di conseguenza, che a indossare la maglia numero 10 della nazionale italiana di calcio sia un mediano, Daniele De Rossi, non deve sollevare scandalo alcuno. Agli Europei non c' è spazio per i sentimentalismi. Anni e annorum fa era diverso, ci si poteva accapigliare sulle innovazioni in campo. C' era chi faceva muovere caoticamente i giocatori sul terreno di gioco per supplire al deficit di classe della "Giuventus" (Heriberto Herrera con il «movimiento») e chi invece distribuiva i numeri a caso, per sconcertare almeno sulle prime le difese a uomo, urtando i tradizionalisti (Oronzo Pugliese). Movimento reale e movimento numerico-virtuale. Ma adesso si tratta di scegliere. Perché l' altra scuola dice che ogni numero contiene il proprio significato. Ogni cifra possiede un' anima e implica una caratteristica tecnica. Vero o no che l' 11 evocava guizzi di follia, talvolta fumi e veleni satanici? E che l' 8 consacrava i cursori, i portatori di mattoni, gli adepti di un' applicazione onesta e modesta? (il 2 la determinazione arcigna nel contrasto, il 9 la potenza spavalda del centravanti, e così via). Secondo la tesi numerologica, quindi, non è il caso di sfidare la perfezione platonica e pitagorica del mondo dei numeri e delle Idee, e così quella nozione astratta e iperuranica che in questo mondo imperfetto si realizza nell' entelechia della posizione in campo, nell' essenza concreta del gioco, nella tecnica espressa con la palla. Dunque, se intere generazioni si sono abituate a vedere nella sostanza mondana del numero 10 il tunnel satanista di Omar Sivori, il lancio da 40 metri di Luisito Suarez, e poi via via il tiro biliardista di Michel Platini, gli eccelsi gesti nevrotici di Diego Armando Maradona, il palleggio zen del «fanciullo ferito» (come scrisse pascolianamente il poeta "Nando" Acitelli) Roberto Baggio, le pennellate di «Pinturicchio», cioè Alessandro Del Piero, riesce difficile immaginare in quel ruolo il romanista De Rossi, che non ha né il codino né il tocco divino, e difficilmente il tiro a parabola e l' effetto a rientrare. Per carità, il centrocampista della Roma sa portare il tackle, possiede il dono della stangata da fuori, dà battaglia su ogni pallone, e all' occorrenza distribuisce gioco e verticalizza con la sapienza tattica di un vecchio mediano inglese. E dunque le storielle sui numeri possono essere valutate come sovrane ubbie, tic da babbioni. Ma siamo dalle parti della Mitteleuropa, in terre che hanno conosciuto la classe suprema di "Cartavelina" Sindelar, l' uomo che umiliò il nazismo con la sua sapienza di campione al tramonto (allora, negli anni Trenta, i tramonti erano infiniti e gloriosi). E allora si conceda un briciolo di dignità a queste romanticherie: così fuori moda, anzi più propriamente «altmodisch», e perciò capaci di ridare al calcio contemporaneo, con un dubbio sui numeri, la lieve suggestione della storia, e di una filosofia.
La Repubblica, 24/8/2008, LA DOMENICA DI REPUBBLICA
LA SOLITUDINE DEI NUMERI DIECI
A quattro anni dall' ultima partita giocata e alla vigilia del nuovo campionato di Serie A, Roberto Baggio rompe un lungo silenzio, spiega perché non vuole un "dopo" nel mondo del calcio e racconta la sua "seconda vita": i figli, gli amici, i viaggi, la caccia. «Non ho tempo per annoiarmi, anche se un po' di noia l' avevo messa in conto» dice l' ex numero 10 di Nazionale, Fiorentina, Juve, Milan, Inter e di tante altre squadre. «Ho un solo rimpianto», ammette, «quel tiro al volo contro la Francia ai Mondiali del ' 98». ALLE PAGINE 31, 32 E 33
La Repubblica, 24/8/2008, LA DOMENICA DI REPUBBLICA
La solitudine dei numeri dieci
Sia ben chiaro, il numero dieci è il dieci anche quando non indossa la maglia con il dieci. Il numero dieci si rivela perché una scintilla del divino ha deciso di innescarsi nel fisico di un giocatore, illuminandone la qualità e talvolta tutte le doti tecniche. Ecco perché numeri dieci non si diventa. Chi ha visto il satanico Omar Sivori infierire sui suoi marcatori, mortificandoli con la bassezza morale del tunnel (palla fra le gambe del difensore, e un' eco di pernacchia nell' aria), sa che questo gesto peccaminoso non dipendeva dal pensiero di una mente criminale: era l' ispirazione di un demone remoto, un "furor" tutt' altro che platonico scatenantesi nei muscoli e nel sistema nervoso di un genio, tale da indurlo a fuochi fatui e a gesti irridenti. Così come, non appena un' altra divinità liberava nell' aria la sua scintilla, Luisito Suarez scoccava il suo classico lancio da quaranta metri, non uno di più non uno di meno, in modo che il mulatto Jair Da Costa potesse scavallare indomito sulla destra. Il numero dieci è uno scarto dalla regola. Soltanto Edson Arantes do Nascimiento, detto Pelé, è la normalità assoluta dei gesti tecnici proiettata nell' empireo della perfezione totale. Il brasiliano possiede tutte le doti del fuoriclasse, dal tiro al palleggio, dal dribbling al colpo di testa e all' assist. Ma basta guardare il nano malefico ed esclusivamente mancino Diego Armando Maradona, e osservarne il modo in cui accarezza il pallone con il sinistro, per immaginarne di lì a poco le invenzioni sataniche, gli scatti furenti, la "rabona", per inventare un cross da una posizione impossibile per il suo destro e all' occorrenza un tiro senza possibilità di salvezza per il portiere avversario. Il dieci imprime il suo marchio su una squadra. Roberto Baggio lo ha lasciato su diverse compagini, ma piace ricordarlo già quasi anziano nel Bologna di Renzo Ulivieri, che lo amava e lo maltrattava: e lui - il Codino divino, il «fanciullo ferito» del poeta Nando Acitelli, il «coniglio bagnato» dell' Avvocato, il «nove e mezzo» di Platini che non gli riconosceva la pari dignità con il se stesso juventino, il salvatore e poi l' affossatore di Arrigo Sacchi al mondiale americano del 1994 - lo ricambiava con prodezze domenicali, gol inventati quasi ogni domenica con calci di punizione di eccezionale talento balistico e con i colpi di una classe mai del tutto vulnerata dalla fragilità fisica. Lo si era visto da ragazzo nella Fiorentina, prima di andare a conquistare gloria dappertutto, reduce da disastrosi infortuni alle ginocchia, folleggiare in campo con i suoi dribbling danzanti, distruggendo in contropiede la difesa del Milan e mostrando i colpi e le trovate distillate dal genio: colui che, mentre gli altri giocano a calcio, interpreta la partita e la condiziona chiamando a raccolta mentalmente tutte le energie dell' universo. Una pratica zen, una preghiera buddista, un mantra di risonanza cosmica in cui si intravede il suo karma di campione che lo porterà via via a reincarnarsi qua e là (per poi spendere gli ultimi spiccioli della sua classe infinita nel Brescia, sbalordendo la serie A con le sue invenzioni estreme, in un tramonto huizinghiano, un autunno del fuoriclasse in cui il piacere del gioco supera il dolore alle ginocchia e tutti gli altri acciacchi di chi, mentre vede i capelli ingrigirsi precocemente, sente le articolazioni scricchiolare a ogni spunto). è stato, "Robi" Baggio, una delle ultime apparizioni di un calcio in cui la tecnica riusciva talvolta a superare la struttura muscolare e batteva la forza brutale dell' atletismo fabbricato dagli istruttori. Come Mariolino Corso, un dieci camuffato dal numero undici, il cui sinistro prensile umiliava in dribbling e con le "foglie morte" le difese degli anni Sessanta. Oppure come il piccoletto Zola, che assai più tardi avrebbe imparato il mestiere di fuoriclasse da Maradona e avrebbe esportato l' inventiva italiana a illuminare i brumosi terreni inglesi. A ripensarci, viene in mente che è destino di quasi tutti i numeri dieci, se si esclude Pelé, avere nel corredo genetico il gene dell' incompiutezza. Maradona e Corso erano monopodalici, in altri casi il gusto del dribbling e del gol non era confortato dal carattere o dallo spirito di sacrifico per la squadra. Già il dieci è spesso egoismo puro. E, nel caso di Baggio, l' egocentrismo, fatto di riservatezza e della capacità di porre barriere fra sé e il mondo, gli ha forse impedito di diventare ciò che poteva essere, vale a dire un giocatore in grado di sconvolgere il calcio mondiale. Difficile dire che cosa gli sia mancato: un rigore in America, un paio di ginocchia di ricambio, un' indole più estroversa, chissà. Ci si è dovuti accontentare dei riflessi in uno specchio spesso in frantumi: bagliori accecanti, inganni strepitosi, che adesso si possono ricomporre nella memoria, e nell' affetto che i ricordi sempre suscitano.
La Repubblica, 19/11/2008, R2
BOLOGNA La vita in città ai tempi di Vasco
Sette "epoche" per raccontare la lenta metamorfosi di Bologna. O sette romanzetti brevi per rendere epica, con una certa ironia, la vita dell' autore. Sia come sia, è l' ultimo libro di Enrico Brizzi La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco (che esce da Laterza, pagg. 182, euro 10). Brizzi è conosciuto per il clamoroso successo, a vent' anni, del romanzo generazionale e manierista Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Poi ha pubblicato una serie di libri in cui sta facendo il possibile e l' impossibile per mantenere il suo spazio nella narrativa italiana: l' ultima sua recentissima prova, L' inattesa piega degli eventi, uscito pochi mesi fa, è un ampio romanzo di storia ipotetica, basato sull' idea che Benito Mussolini, come Francisco Franco, sia morto nel suo letto, in un' Italia imbelle e placidamente fascista ben oltre il Ventennio. La prima caratterizzazione di questo nuovo libro è ambientale. Come tutte le città, infatti, ma forse più di diverse altre, Bologna è prima di tutto un paese. O meglio: una serie di paesi. Un paese di paesi. Ciascuno con una sua comunità e una sua identità, che persiste nonostante le modernizzazioni e le transizioni. Sicché il paese di Brizzi, un pezzettino del capoluogo emiliano fuori porta Saragozza, rappresenta al suo meglio la Bologna storica, dove in classe si canta Bella ciao, e dove i contestatori dell' egemonia comunista sono tipi originali, che «hanno fatto il 77»: già, perché allora «gli uomini si dividevano in tre classi d' età: quelli che avevano fatto la guerra, quelli che avevano fatto il 68 e quelli del 77, come se la maturità coincidesse fatalmente con l' aver partecipato a disordini su media o larga scala». Lo stesso panorama umano della Bologna fiore all' occhiello del Pci era ancora, al tornante del decennio Settanta, ben riconoscibile, senza bisogno di troppe sociologie: «Fra i quarantenni reduci del 68 si notava in città qualche socialista all' arrembaggio, poi si percepiva la presenza di un po' di repubblicani e d' un discreto numero di controrivoluzionari sparso nelle parrocchie, di cui facevano parte anche i miei nonni e i famosi fratelli Prodi, spesso evocati come esempio di onestà e devozione al lavoro nonostante fossero democristiani». Ecco, in quella Bologna ancora "felix", sempre in testa alle classifiche nazionali della ricchezza, con i «comunisti in Mercedes e la gente in giro fino a tardi», la parola chiave era «partecipazione». La formula era semplice: «Tu partecipavi, e il Partito (senza bisogno di sponsor, all' epoca) ci metteva l' organizzazione». Eppure può anche capitare, dopo il celebre 77, che dopo i boy scout, la solida organizzazione comunista, i «visi pallidi» borghesi al Liceo Galvani, la tenuta sociale e civile della comunità, in una fantomatica via delle Bombe, nei pressi del Meloncello, a due passi dalla «monumentale eleganza» dello stadio Dall' Ara, fissi la sua dimora un eccentrico, un deviante, un alieno, un figlio della notte: cioè Vasco Rossi, immediatamente riconosciuto come leader intellettuale e canoro che piace a tutta la sinistra, ai giovani come ai meno giovani, al padre di professione storico di Brizzi e ai suoi giovani assistenti, anche se ha tutto, fra coca e prigioni, per sembrare la negazione totale dello stile perbene di Bologna la Rossa: «Eh
», confida il Blasco anni dopo, «Se mi hanno messo dentro, evidentemente qualcosa di storto lo avevo fatto». In quella città, ai tempi di Bar Sport, può capitare di rincorrere Stefano Benni, l' «arciscrittore» che pedala lungo via Farini, «la chioma simile a zucchero filato», semplicemente per confessargli un pensiero devozionale: «Volevo dirle che secondo me, lei è il più grande scrittore italiano». Sono storie affettuose, che mettono insieme il successo dei mostri sacri come Gianni Morandi, e di Lucio Dalla, di cui si commenta affettuosamente l' eccentricità estetica e sessuale. Oppure raccontano la vita allegra, fra il quartiere Cirenaica e l' Appennino di Pavana, del cantautore colto, il «maestrone» Francesco Guccini, e anche le apparizioni di alcuni cantanti ormai cinquantenni, abbonati alla nazionale cantanti, «di cui non avresti saputo citare una singola hit». E naturalmente la Virtus e la Fortitudo nel basket, e il Bologna calcio riscattato finalmente dalle prodezze balistiche di Roberto Baggio. Un paese. Dove si esce in bici verso i colli e si incontra Renzo Imbeni, e lo si saluta: «Buongiorno sindaco». Allora il modenese Imbeni «sorrideva con una cordialità che contrastava con i baffi austeri da dirigente di partito e, prima di sparire alle mie spalla, staccava una mano dal manubrio per ricambiare il saluto». Nella città che sarebbe stata ferita a morte dall' attentato del 2 agosto, un alone progressista circondava il passato e un presente in cui risuonavano le cacofonie degli Skiantos e dei Gaznevada, e la sera potevi incontrare Pier Vittorio Tondelli, Freak Antoni, Bifo, ma pure il disegnatore Andrea Pazienza e «la ragazza più carina del caseggiato», Raffaella Bertolini, «che all' anagrafe di nome faceva Miriam», e in seguito, con il nome d' arte di Veronica Lario, sarebbe diventata la seconda moglie «di un milanese famoso senza bisogno di nomi d' arte». Bologna è il paese delle meraviglie in cui le Torri guardano la libreria Feltrinelli e il bar Roxy, e in cui si può dare un esame con Umberto Eco, «il maestro», presentando una tesina sull' universo semiologico degli 883. «Ognuno di noi era invitato ad analizzare un fenomeno culturale: poteva trattarsi del particolare epos di Corto Maltese, dello stile inconfondibile di una certa rivista o di una rassegna cinematografica (
) Diedi conto dello sbilanciatissimo, quasi imbarazzante, rapporto fra i due componenti della band, Max Pezzali e quel Mauro Repetto perennemente condannato a ballare sullo sfondo». Trenta e lode. I giorni felici, ai tempi di Jack Frusciante, quando Luca Carboni poteva guardarti di sbieco e chiedere, con la sua «celebre voce malinconica»: «Scusa ma tu sei Enrico Brizzi?», finiscono probabilmente con la caduta di Bologna nelle mani della destra, sotto il governo dell' «ex presidente dei macellai bolognesi», Giorgio Guazzaloca, quando il Partito commise il suo «suicidio». Alla fine il «paesone» ritrova una parte di se stesso, anche se Sergio Cofferati si ritira. Anche se non c' è più l' incanto delle epoche magiche, resta l' eco delle canzoni di Vasco, che ancora possono risuonare negli stadi o nella memoria, e forse fanno ancora un po' di eco «sotto i portici pieni di musica della nostra città femmina».