La Repubblica
La Repubblica, 09/09/2009
MIKE BONGIIORNO L’EPOPEA DELL’ITALIANO MEDIO CHE INVENTO’ LA NOSTRA TELEVISIONE
TUTTO conoscevamo di lui, tranne la «versione di Mike», come suona il titolo della sua autobiografia. Perché la vita di Mike Bongiorno, scomparso ieri a Montecarlo a 85 anni, è stata davvero un' epopea. Enon soltanto sul piccolo schermo, in bianco e nero e a colori. Per dire: staffetta partigiana con gli alleati per amore di libertà e competenza linguistica anglosassone, nonché insieme emblema del moderatismo e della maggioranza silenziosa, gaffeur sublime e inventore dell' immaginario televisivo, infilzato per sempre, come in una collezione entomologica ottocentesca, alla «fenomenologia» che gli dedicò Umberto Eco, indicato semiologicamente come un' apoteosi della mediocrità, Mike, conosciuto dal popolo anche come «Mai» oppure «Maibongiorno», ha avuto un' esistenza che ha accompagnato la seconda metà del Novecento contrappuntandone i momenti fondativi della cultura di massa. Non sembri un' iperbole retorica: pochi sanno delle disavventure che durante la guerra stavano per condurlo, da una cella a San Vittore attigua a quella di Indro Montanelli, davanti a un plotone di esecuzione della Gestapo (lo salvarono soltanto i documenti americani, che tuttavia non furono sufficienti per evitargli la deportazione per sette mesi a Mauthausen). E sono ancora meno numerosi coloro che conoscono l' avventurosa vicenda politica di suo padre, che fu candidato sindaco a New York contro Fiorello La Guardia e Generoso Pope, al tempo in cui, nell' età del "Padrino", il voto degli italiani emigrati sotto la Statua della Libertà era davvero una risorsa politicamente strategica. Per la storia, il Bongiorno Senior si ritirò dalla contesa quando apparve evidente che La Guardia era imbattibile. Mentre non occorrerebbe neppure accennare che Mike Bongiornoè stato la figura che ha posato la prima pietra del sistema televisivo nel nostro paese, che ne ha per molti aspetti codificato i valori e gli stili imponendoa un' intera società una modalità dello stare e dell' osservarsi in pubblico. In quegli anni Cinquanta che preludevano al miracolo economico, Lascia o raddoppia? accese di luce azzurrina le serate degli italiani. Era un programma americano, anche se la Rai comprò il format francese, ricalcato dall' edizione d' oltreoceano ma che costava meno. Sciocchezze, formalismi contrattuali per un' Italia che cercava un po' a tentoni la propria via alla modernizzazione. Mike, il "presentatore", con i suoi occhiali da secchione e la sua pettinatura da alieno televisivo, portò nelle case di tutti personaggi seminali, come il dandy Gianluigi Marianini, oppure l' eroe del controfagotto Lando Degoli, l' esperto di musica che aveva tradotto nel dialetto carpigiano la Divina Commedia, per non parlare della vallettae urvelina Edy Campagnoli, che avrebbe sposato il portiere Lorenzo Buffon perché va da sé che nihil sub sole novi. Bastarono quelle serate per trasformare Mike e i suoi programmi in uno schema pubblico perfetto. Non erano soltanto i telequiz, ma anche le undici edizioni del Festival di Sanremo, quando effettivamente Sanremo era Sanremo e mobilitava un' audience totale, oppure il concorso di Miss Italia, la riedizione di una specie di Festival della canzone napoletana, e perfino Qua la zampa, dedicata a cani, gatti e animali domestici vari. Gaffeur, si è detto, anche se è uno dei segreti meglio custoditi della civiltà contemporanea se i suoi errori e i fraintendimenti fossero involontari o esplicitamente voluti, con un professionismo eccelso e senza scrupoli, quindi ricercati fra le righe del copione con la determinazione dell' animale televisivo senza tabù. Nessuno è in grado di giurare che un suo celebre lapsus su Papa Montini, ridotto inopinatamente a un comico "Paolovi", fosse l' esito di un' incomprensione o la cinica quanto apparentemente stupefatta sottolineatura di un errore di lettura del testo. E circolano numerose leggende sulla veridicità di una delle sue gag più fragorose, che comunque è diventata quasi un luogo comune fra gli aneddoti nazionali: cioè l' inevitabile, immarcescibile, irripetibile e sempre ripetuto "Ahi ahi ahi signora Longari, lei mi è caduta sull' uccello!" (fra l' altro, era una domanda ornitologica o un quiz in cabina relativo all' artista Paolo Uccello?). Nel caso, come pare, manchino testimonianze tv risolutive, o si abbia il sospetto di tagli galeotti, occorrerebbe controllare di riflesso l' espressione successiva sul volto dell' altra grande valletta dei suoi telequiz, ossia un altro emblema del monopolio politico e televisivo, la venerata Sabina Ciuffini. È una testimonianza, comunque, che mostra come una verità televisiva seppure inventata, diventa sempre più vera del vero. Il trionfo del verosimile sul reale. E la prova provata che la popolarità di Rischiatutto aveva una sua forza quasi dantesca, ossia la possibilità di modellare lessico e memoria dei contemporanei e dei posteri. Ciò che è invece appare sicura è la dimensione politica di Mike, la sua interpretazione costante della "moral majority". Che si trattasse di aprire una serata con il suo classico "Allegria!", non importa se in coincidenza con una tragedia nazionale, oppure il voluto provincialismo al Festival di Sanremo del 1966, quando non mancò di strabuzzare gli occhi e di interpretare una parte comicamente reazionaria di fronte ai "complessi" italiani e inglesi che portavano il beat sui teleschermi domestici, il "signor Mike" interpretava come una copia carbone l' italiano medio quarantenne e democristiano. Forse l' alter ego settentrionale e apparentemente un po' ottuso di Alberto Sordi. Per dire, era l' epoca in cui un funzionario della Rai, all' Auditorium di Napoli, poteva urlare «Portatemi via quei quattro finocchi», evidentemente turbato dai falsetti dell' Equipe 84. Mentre a sua volta Mike Bongiorno si limitò a tradurre gli Yardbirds in "Gallinacci", riducendo così una rivoluzione estetica mondiale in una faccenda da cortile: ma facendo sentire a tutta quell' Italia che si preparava a evitare il Sessantotto la propria complicità morale, estetica, musicale e allegramente misoneista. Sarebbe un esercizio fin troppo facile tracciare l' albero genealogico che ha in Mike Bongiorno il capostipite e che "per li rami" annovera Pippo Baudo, Corrado, Enzo Tortora, Nuccio Costa, Daniele Piombi, fino a Carlo Conti e Gerry Scotti. Meno ovvioè esaminare il format della sua vita professionale, che ha visto tre livelli di presenza televisiva. Prima, ovviamente, c' è l' era quasi biblica della Rai,e coni quiz storici come Campanile sera, La Fiera dei sogni, Scommettiamo, Flash. Poi, agli inizi degli anni Ottanta, il passaggio di fase con le televisioni della Fininvest di Silvio Berlusconi («Lei quanto guadagna con la Rai, Mike? Ventisei milioni? Qui c' è un assegno da seicento»). Della lunga esperienza con le tv berlusconiane rimangono l' apertura americana alle sponsorizzazioni e i 14 anni, dal 1989 al 2003, della Ruota della Fortuna, con oltre tremila puntate, sino a una rottura mai del tutto chiarita. E infine il terzo livello, che non si è realizzato ma che era stato preparato nei dettagli, vale a dire la scommessa con Sky e Rosario Fiorello, il revival satellitare di Rischiatutto. Al di là della sua vita frenetica, dei tre matrimoni, della formidabile e divertente confusione con cui ogni volta trattava le elezioni italiane e americane, del suo ruolo di testimonial pubblicitario, di scalatore, di subacqueo («Un sub eccezionale?», gli chiede un giornalista secondo le leggende; «Ma no», si schermisce lui, «un sub normale»): oltre ai suoi ruoli di attore con Totò, di collezionista di Telegatti, di moralizzatore scandalizzato verso concorrenti che portavano i bigliettini in cabina, Mike Bongiorno resta negli annali della cronaca nazionale,e quindi di una storia minore,a cui manca poco per diventare storia maggiore, come il costruttore di generi televisivi che si stagliano ormai come altrettanti format del nostro catalogo mentale. In certi momenti della sua carriera, e soprattutto qui in ultimo, ha saputo perfino prendersi gioco di se stesso. Singolare forse, per un uomo che dai tempi dei tempi sembrava impermeabile a qualsiasi forma di ironia. Ma non del tutto imprevedibile per un protagonista che in fondo doveva sapere, per averla creata, che la televisione, è tutto, è nulla, è fatalmente un grande anche se talvolta involontario romanzo popolare.
La Repubblica, 07/09/2009, R2
IL PROFILO DEL MINISTRO
Non bastavano i turchi. Gente levantina, che avrà avuto il suo interesse nel dire che Silvio Berlusconi se l' era sognata, quella famosa mediazione con Putin sul gasdotto. Ma adesso ci si mettono anche gli svedesi e Javier Solana, che se la sono presa con Franco Frattini, smentendo con sarcasmo un suo formidabile intervento contro l' antisemitismo. Fermi tutti: voi conoscete Frattini e la sua bravura nel mettersi di profilo per mostrare il suo pregevole naso. Potete immaginare che un uomo con quel profilo, se annuncia un discorso di quel calibro alla riunione delle diplomazie europee racconti delle bubbole? No, evidentemente. Sono Solana e il ministro degli esteri svedese Carl Bildt a non essersi accorti del poderoso discorso di Frattini (riguardava una storiaccia pubblicata da un quotidiano svedese, che accusava i militari israeliani di prelevare organi dai palestinesi uccisi). Forse gli abbioccati ministri europei anziché antisemitismo hanno capito gasdotto. O forse sono rimasti ipnotizzati dal profilo frattinesco, e hanno perso il filo. In ogni caso, vorremmo rivolgere un invito a Frattini. Smentisca, se vuole. Ma smentisca lo svedese e Solana, non l' esecrabile informazione di questa «povera Italia».
La Repubblica, 31/08/2009, LETTERE, COMMENTI & IDEE
Dove è finita l’ informazione
ESPLOSO in questi mesi come una battaglia di verità, davanti alle contraddizioni e alle bugie del premier, lo scandalo Berlusconi diventa oggi un problema di libertà, come sottolineano tutti i grandi quotidiani europei, evidenziando ancor più il conformismo silente dei giornali italiani. Prima la denuncia giudiziaria delle 10 domande di "Repubblica", un caso unico al mondo: un leader che cita in giudizio le domande che gli vengono rivolte, per farle bloccare e cancellare, visto che non può rispondere. Poi l' intimidazione alla stampa europea, perché non si occupi dello scandalo. Quindi il tentativo di impedire la citazione in Italia degli articoli dei giornali stranieri, in modo che il nostro Paese resti all' oscuro di tutto. Ecco cosa sta avvenendo nei confronti della libertà di informazione nel nostro Paese. Atutto ciò, si aggiunge lo scandalo permanente, ma ogni giorno più grave, della poltiglia giornalistica che la Rai serve ai suoi telespettatori, per fare il paio con Mediaset, l' azienda televisiva di proprietà del premier. È uno scandalo che tutti conoscono e che troppi accettano come una malattia cronica e inguaribile della nostra democrazia. E invece l' escalation illiberale di questi giorni conferma che la battaglia di libertà si gioca soprattutto qui. La falsificazione dei fatti, la mortificante soppressione delle notizie ridotte a pasticcio incomprensibile, rendono impossibile il formarsi di una pubblica opinione informata e consapevole, dunque autonoma. Anzi, il degrado dei telegiornali fa il paio con il pestaggio mediatico dei giornali berlusconiani. Molto semplicemente, il congresso del pd, invece di contemplare il proprio ombelico, dovrebbe cominciare da viale Mazzini, sollevando questa battaglia di libertà come questione centrale, oggi, della democrazia italiana. In quest' ultima stagione del berlusconismo abbiamo contemplato l' apice del conflitto d' interessi, l' anomalia più grave (a questo punto la mostruosità) della politica italiana. Si è vista l' occupazione della Rai e specialmente dei vertici dei telegiornali, cioè ruoli pubblici trasformati in postazioni partigiane; e nello stesso tempo la blindatura militare dei media di proprietà diretta o indiretta del capo del governo. Berlusconi voleva un' anestesia della società italiana, in modo da poter comunicare ai cittadini esclusivamente le sue verità, i successi, le vittorie, le sue spettacolari "scese in campo" contro i problemi nazionali. L' immondizia a Napoli, il terremoto in Abruzzo, la continua minimizzazione della recessione. Una e una sola voce doveva essere udita, e gli strumenti a disposizione hanno fatto sì che fosse praticamente l' unica a essere diffusa e ascoltata. Ma evidentemente tutto questo non bastava. Non bastava una maggioranza parlamentare praticamente inscalfibile. Non bastava al capo del governo neppure il consenso continuamente sbandierato a suon di sondaggi. Nel momento in cui la libertà di informazione ha investito lo stile di vita di Berlusconi, e soprattutto il caotico intreccio di rozzi comportamenti privati in luoghi pubblici o semi-istituzionali, il capo della destra ha deciso che occorreva usare non uno bensì due strumenti: il silenziatore, per confondere e zittire l' opinione pubblica, e il bastone, per impedire l' esercizio di un' informazione libera. Negli ultimi mesi chiunque non sia particolarmente addentro alla politica ha potuto capire ben poco, in base al «sistema» dei telegiornali allineati, dello scandalo che si stava addensando sul premier. Un' informazione spezzettata, rimontata in modo incomprensibile, privata scientemente delle notizie essenziali, ha occultato gli elementi centrali della vicenda della prostituzione di regime. Allorché alla lunga lo scandalo ha bucato la cortina del silenzio, è scattata la seconda fase, quella dell' intimidazione. L' aggressione contro il direttore di Avvenire, Dino Boffo, risulta a questo punto esemplare: il giornale di famiglia, riportato rapidamente a una funzione di assalto, fa partire il suo siluro; nello stesso tempo l' informazione televisiva, con una farragine di servizi senza capo né coda, rende sostanzialmente incomprensibile il caso. Come in una specie di teoria di Clausewitz rivisitata e volgare, il killeraggio giornalistico, cioè una forma di guerra totale, priva di qualsiasi inibizione, si rivela un proseguimento della politica con altri mezzi. In grado anche di fronteggiare le ripercussioni diplomatiche con la segreteria di Stato vaticana e con la Cei. La strategia rischia di essere efficace, peccato che configuri un drammatico problema di sistema. Ossia una ferita gravissimaa uno dei fondamenti della democrazia reale (non dell' astratta democrazia liberale descritta dai nostri flebili maestri quotidiani). Purtroppo non si sa nemmeno a quali riserve di democrazia ci si possa appellare. Ci sono ancoraggi, istituzioni, risorse di etica e di libertà a cui fare riferimento? Oppure il peggio è già avvenuto, e i principi essenziali della nostra democrazia sono già stati frantumati? Basta una scorsa alla più accreditata informazione straniera per rendersi conto del penoso provincialismo con cui questo problema viene trattato qui in Italia, della speciosità delle argomentazioni, del servilismo della destra (un esponente della maggioranza ha dichiarato ai tg che la rinuncia di Berlusconi a partecipare alla Perdonanza, dopo l' attacco del Giornale a Boffo, «disgustoso» per il presidente della Cei Angelo Bagnasco, era un atto «di straordinario valore cristiano»). Oltretutto, risulta insopportabile l' idea che nel nostro futuro, cioè nella nostra politica, nella nostra cultura, nella nostra idea di un paese, ci sia un blocco costituito dall' informazione di potere, un consenso organizzato mediaticamente nella società, e al di fuori di questo perimetro pochi e rischiosi luoghi di dissenso. Questa non è una democrazia. È un regime che non vuole più nemmeno esibire una tolleranza di facciata. Quando tutti se ne renderanno conto sarà sempre troppo tardi.
La Repubblica, 31/08/2009, R2
ULTIMO TANGO PER LA POLITICA
In Giappone il Partito liberaldemocratico, simbolo dell' eternità politica, ha ballato il valzer finale. Un tempo le uscite di scena giapponesi erano credibili quando si concludevano con alcuni "seppuku", o "harakiri" che dir si voglia, secondo il costume dei samurai. Per ora, dopo i primi dati che indicano una sconfitta catastrofica, si è avuta notizia soltanto di alcune dimissioni e di qualche ritiro a vita privata. Però quando si è in ballo si deve ballare. Come ha fatto la coppia di giapponesi che a Buenos Aires ha vinto il campionato mondiale di tango, infliggendo a sua volta una seria sconfitta agli argentini. Figurarsi, un duo nipponico che conquista il massimo alloro nel tango. Come se un ballerino latinoamericano volesse diventare un lottatore di sumo. Ma insomma, siamo all' avvento del tango globalizzato, e forse fra poco arriveranno i cinesi. Senza dire che c' è anche l' aspetto estetico ed etico: come disse il filosofo pessimista Enrique Santo Discepolo, «el tango es un pensamento triste che se baila». Bisogna dirlo ai dirigenti del Partito liberaldemocratico: anche la politica, giunta all' ultimo tango, può portare a «un pensamento triste». Forse, tuttavia, non è il caso di fare gesti irreparabili.
La Repubblica, 30/8/2009, LA DOMENICA DI REPUBBLICA
Quando ignoravamo cosa fosse la Nutella
I miei compagni di merende non erano minacciati dall' obesità. Nella nostra meravigliosa età sospesa, tra la fine degli anni Cinquanta e l' esordio dei Sessanta, ai tempi del "miracolo" e dell' Oscar delle monete alla lira, i bambini delle elementari e delle medie erano magri. Un paio di mostriciattoli fuori dai parametri, pesanti il doppio del normale, c' erano in tutte le classi, confinati nell' ultimo banco, derisi allegramente e sadicamente quando tentavano e fallivano la salita sulla pertica nell' ora di ginnastica, e ammirati dal medico alla visita annuale, quando ancora si faceva l' esame tubercolare e si controllava l' eventuale scoliosi (eravamo tutti storti, allora, quindi "ginnastica correttiva" al pomeriggio). Merendine niente. Non esisteva ancora il mercato, ma esisteva già il welfare, e la centrale del latte forniva tutte le mattine bottiglie da mezzo litro per ogni alunno. Con la cannuccia si forava il coperchio di stagnola, per poi ingurgitare un liquido denso, grasso e quasi tiepido: per gli schizzinosi, qualcosa di spaventoso. L' unico rimedio era buttarsi sulla merenda preparata dalla mamma. Il panino con la cioccolata "molle", un classico per tutti noi che ancora ignoravamo se era stata inventata o no la Nutella. Oppure farcito con tutti i salumi del mondo, in quegli anni in cui eravamo indistruttibili, e non ci spaventavano né i nitrati né i coloranti. Per venire corrotti dalla modernizzazione avremmo dovuto aspettare l' avvento delle brioscine e dei Ciocorì, cioè la prevalenza dell' artificiale. Cellophan fuori e prodotto industriale dentro. Ma per chi è cresciuto nell' epoca precedente l' industria, l' aspetto alimentare dell' infanzia consisteva in un cibo da adulti trasferito nel tempo della scuola, del gioco, dell' intervallo di mezza mattina fra le ore di lezione. Su richiesta, il "droghiere", cioè il grasso e flemmatico proprietario del negozio di alimentari sotto casa, preparava merende alla mortadella o al prosciutto, spalmava di cioccolata il pane tagliato a metà, qualche volta lo riempiva di tonno sgocciolante. C' era insomma un rito in cui si realizzava una cerimonia quotidiana e pratica, in quel tempo della carta oleata, che precedevai primi supermercati self service, i gelati confezionati dalla grande industria (come il Mottarello, «gelato da passeggio igienico e gustoso»), i prodotti scintillanti e crepitanti, ma in fondo spersonalizzati e anonimi del mondo nuovo. Poi il mondo di ieri si sarebbe arreso, ma per tutti noi la liturgia della merenda sarebbe stata abbandonata e consegnata alle generazioni successive. Generazioni artificiali, figlie dell' urbanizzazione, di Carosello e della civiltà pubblicitaria di massa. Ma si era già capito che il passaggio dalla "merenda" alla "merendina" costituiva un transito anche culturale. Il diminutivo segnalava la serialità, la produzione tayloristica, un' anticipazione apparentemente innocua, e in realtà micidiale, del McWorld, il mondo dove tutto è pianificato, calcolato, riempito degli additivi giusti e dei grassi idrogenati sbagliati. Con la merendina, il tempo dell' innocenza era finito.
La Repubblica, 24/8/2009, R2
Bossi e gli ottomani
Fra le notizie d' estate va tenuta in considerazione quella che annuncia la nuova passione di Umberto Bossi: dopo l' ormai remoto Braveheart e l' impegno per la fiction sul Barbarossa, il leader del Carroccio si sta vivamente interessando alla vicenda di Marco d' Aviano. Chi era costui?, diranno coloro che non sono storici di professione. Era il carismatico frate, ascoltatissimo consigliere dell' imperatore Leopoldo d' Asburgo, che fu incaricato dal papa Innocenzo XI di riunire i sovrani europei contro la minaccia ottomana. Era una missione impossibile, per le gelosie fra i monarchi, ma il frate realizzò il miracolo, e i turchi furono sconfitti dall' esercito cristiano alle porte di Vienna nel 1683. E qui casca l' asino, politicamente parlando, perché da una parte abbiamo il Senatur che venera il salvatore dell' Europa dal tallone della Mezza luna, e dall' altra il premier Berlusconi con i suoi rapporti preferenziali con turchi e affini. C' è un problema geopolitico, che implica gasdotti, il rapporto con Erdogan, l' ingresso della Turchia nella Ue, e la relazione preferenziale con Gheddafi. Con chi stare, con il papa, gli Asburgo e il formidabile frate, o con il ritorno degli ottomani? C' è un' unica risposta, in questi casi: «Mamma, li turchi».
La Repubblica, 23/8/2009
Vertigini da sogno ad occhi aperti
E SE avessi vinto io? Sogno o son desto? È il caso di chiederselo. Scusate, ho il cuore che si diverte a produrre aritmie, fibrillazioni, extrasistoli. Respiro profondamente e mi dico: sarebbe comico, o tragico, avere un infarto adesso. CONTINUO a guardare la scheda del Superenalotto, controllo i numeri usciti, ma non ci sono più dubbi: ho vinto. Io, miserabile individuo inconsapevole, ho sbancato il più alto jackpot della storia. Centoquarantasette milioni di euro, una cifra assurda. Convoco la famiglia e lì per lì naturalmente nessuno ci crede. Ragazzi, dico irritato, pensatela come volete: ma ho vinto. Se vi comportate bene, con gentilezza, se avete compassione per il mio povero sistema nervosoe per il mio cuore matto, posso anche dire «abbiamo vinto». Adesso ci credete? Ci credono. Mia moglie si mette a piangere. Chissà se per la soddisfazione della vincita o per l' oppressione di tutto quel denaro. Centoquarantasette milioni di euro. Una fila di zeri impressionante. Roba da fare spavento. Terrore e tremore. Un' esperienza onirica, un abisso di paura, un vuoto nell' anima. Per precauzione mi butto sul divano del salotto, aspettando che il cuore riprenda un andamento quasi normale. Non so neanche come si fa a riscuoterli, quei soldi. In banca, probabilmente. O dal notaio, chissà. Intanto però ci vogliono precauzioni. La prima e più urgente consiste nell' assumere l' atteggiamento di quello che non ha vinto proprio un bel nientee non sa nemmeno di che cosa stanno parlando i telegiornali. D' accordo che ho giocato in trasferta, lontano da casa, ma la regola numero unoèe rimane: depistaggio. Mettere su un' espressione tra l' indifferente e il sofferente. Se qualcuno cita il Superenalotto, esibire un' aria di superiorità dolorosa: ma che cosa volete che m' interessi questo oppio dei popoli, una truffa collettiva che promette illusioni, una fiera delle vanità che porta soldi al governo, rito borbonico che genera soltanto frustrazioni. Per giocare avevo dovuto addirittura chiedere spiegazioni al gestore della ricevitoria, che mi aveva guardato come se fossi un alieno. L' ultimo essere umano, nella penisola e dintorni, che non conosce il meccanismo della superlotteria. Vero che in passato giocavo al Totocalcio. Ma la schedina settimanale implicava una conoscenza del campionato, e quindi si poteva nutrire la convinzione che l' eventuale «tredici» potesse dipendere dalla competenza calcisticae non dalla fortuna dei numeri. Infatti, mai compilato un «sistema». Impegnavo piccole somme, e poche colonne della schedina, per misurare la mia capacità nel pronostico. Mai andato oltre il dieci, perché per fortuna anche nel calcio esiste l' imponderabile. Mentre il Superenalottoè un gioco brutale: il jackpot aumenta di valore ogni settimana, a ogni estrazione fallita, e poi è solo una feroce questione di numeri. Lo schiaffo di una combinazione solitaria su sei o settecento milioni possibili. Se i tuoi sei numeri escono vuol dire che una divinità insensata ha deciso di scegliere proprio te, che durante un viaggio hai investito due euro. Domani, per sicurezza, occorrerà prepararsi uno schema di risposte plausibili: no, guardi, non gioco mai, figuriamoci. Quindi aria scettica, espressione disincantata, dissimulazione. Ma, sotto sotto, un pensiero che non vuole andarsene via: che me ne faccio di tutti questi soldi? Vedi la gente intervistata per televisione che dice: farei beneficenza, estinguerei i mutui per la casa dei figli, farei un viaggio. D' accordo ma queste sono bazzecole. Quisquilie. Pinzillacchere. Dopo queste spesucce infatti rimane il problema della paccata di milioni rimanenti. Devo trovare un consulente. Onesto. Un professionista.E se poi nonè onestoe mi fa sparire tutti i soldi? Eccola, la crisi di panico. Meglio spezzettare, dividere, diversificare. Lascia perdere la Borsa, ti ricordi le fregature della new economy? Il mattone, il mattone è sempre una sicurezza. Conviene comprare a Parigi, a Londra, a New York. E poi che ce ne facciamo di questi appartamenti globalizzati? Chi si occupa delle questioni fiscali? E come la mettiamo con la linea ereditaria? Ma per il momento occorre certificare l' esistenza del tagliando vincitore. Lo fotografo con il cellulare, domani farò autenticare la foto, intanto lo metto nella cassaforte domestica che non abbiamo mai usato. Con il timore che vengano i ladri a rubare la scheda. Fra paure assurde che finora non avevo mai provato. Perché la verità è una sola, semplice e terrificante: il Jackpot è un incubo. Chissà se da questo sogno cattivo mi risveglierò, se da un sogno assurdo ci risveglieremo mai.
La Repubblica, 20/08/2009
La falsa verità del nonno superman
ANCORA una volta Silvio Berlusconi tenta il gioco di prestigio: con un colpo di magia prova a fare scomparire la realtà. O almeno a colorarla con la vernice dei sogni. Sogni italiani, sogni casalinghi, sogni isolani. Da Villa Certosa, circondato da figli e nipotini, si mostra in una serie di foto ritoccate che gli tolgono dieci anni, e rilascia agli italiani la sua versione. C' è una strategia ben precisa: ribattere il chiodo con sicurezza, in modo che l' Italia berlusconiana, e anche l' opinione pubblica più o meno neutrale, si rafforzi nell' idea che il premierè puro come un giglio. Naturalmente ciò che ha detto nell' intervista rilasciata a Chi, settimanale di proprietà, è stato studiato e calcolato con attenzione certosina. Il premier sostiene di non avere mai intrecciato «"relazioni" con minorenni» e di non avere mai «organizzato "festini"». Le sue cene, «simpatiche» erano «ineccepibili sul piano della moralità e dell' eleganza». Infine, spiega Berlusconi, «non ho mai invitato consapevolmente a casa mia persone poco serie». Si tratterebbe innanzitutto di capire che cosa significa quell' avverbio «consapevolmente». Vuol dire che «inconsapevolmente» persone poco serie sono state ospiti di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa? È un' ammissione involontaria? In ogni caso va messo agli atti che il premier insiste con la strategia delle verità distorte. Indifferente a tutto, alle registrazioni con le escort e alle conversazioni telefoniche con il procacciatore Giampaolo Tarantini, Berlusconi modella il proprio racconto accusando i suoi nemici di avere montato un castello di «calunnie». Questa sottrazione di realtà gli viene facile perché da quando è emerso lo scandalo della prostituzione di regime i media televisivi controllati politicamente hanno fatto il possibile per imboscarlo. Il Cavaliere può raccontare a cuor leggero che anche la Cei e il suo organo di stampa, Avvenire, sono caduti nella trappola allestita dai suoi avversari, e che l' intero mondo cattolico è stato ingannato da un cumulo di bugie e di notizie false ai suoi danni. Fin qui non c' è da stupirsi. Sono settimane che il premier si aggrappa ostinatamente alla sua versione, sicuro che la gente si convincerà che tutte le chiacchiere su di lui sono semplicemente gossip, pettegolezzo, calunnia, un caso di malevolenza politica organizzata. Ma forse per capire meglio la tattica berlusconiana è opportuno mettere a fuoco anche gli strumenti mediatici a cui è ricorso. Le foto famigliari pubblicate da Chi sono di impressionante chiarezza nelle intenzioni: si rilascia un' intervista a un settimanale popolare, per comunicare all' Italia del popolo e al Popolo della libertà che Berlusconi è un' immagine sacrale, un politico senza macchia. Le immagini con il nipotino di 22 mesi, o quella pensosa nello studio privato di Villa Certosa, intendono rappresentare il profilo di una figura esemplare e incorrotta, legatissimo alla famiglia nonostante le pratiche del divorzio da Veronica Lario, dopo «una vera storia d' amore» durata trent' anni. Il «Nonno Superman», come lo chiamano in modo impegnativo i nipoti, non esita a proporsi come una figura insieme ricchissima e popolare, una guest star del suo giornale, del suo impero economico, di un' estate da favola. Non ci sono tabù estetici nello stile di un protagonista che impone la sua presenza dichiarandola insostituibile. Lo si riscontra osservandolo accanto a una fontana dal curioso stile assiro-nuragico, ma ciò che colpisce è il contesto di contenuto e di immagini del giornale domestico. Basta girare qualche pagina, infatti, e la figura del premier cede il passo alle specialità di un settimanale di pettegolezzi: gli spettacolari tatuaggi del macho Fabrizio Corona, le confessioni dell' ex tronista Costantino Vitagliano, le carezze hot tra Federica Pellegrinie il suo fidanzato Luca Marin. Tutto questo potrebbe apparire una caduta nel trash, ma il giudizio sarebbe impreciso. Come sempre quando si trova in difficoltà, Berlusconi inventa la sua realtà virtuale, e cerca di uscire dalla trappola con un volteggio da acrobata. Inventa un mondo a colori che sorprende il pubblico, genera ammirazione, suscita solidarietà nei fan. Il berlusconismo non è semplicemente una patina di glamour su una modalità di vita. È una filosofia: una visione che mescola bugie, propaganda politica, interessi privati, fascino della ricchezza, costruzione dell' immagine, manipolazione delle opinioni. Con l' idea che in fondo, e in genere, Berlusconi siamo noi. O che dovremmo essere con lui. Che la società italiana deve accettare la mitologia creata da un capo benevolo e ferito dalla perfidia dei nemici. Di nuovo è «una storia italiana», come si intitolava l' epopea illustrata del berlusconismo. E anche questa volta smontare l' inganno non è facile, in un paese dominato dal conformismo e dalla sicurezza tracotante con cui i media padronali e di Stato si sono impegnati a occultare la realtà.
La Repubblica, 17/08/2009, R2
BOB DYLAN, UNO SCONOSCIUTO
D' accordo che Bob Dylan a Woodstock non c' era, ma la generazione che sta festeggiando il quarantennale dello storico raduno dovrebbe avvertire un brivido alla notizia giunta dal New Jersey. Una poliziotta infatti ha fermato «un vecchio eccentrico» che passeggiava svagatamente sotto la pioggia, senza documenti di riconoscimento. Svolte le debite procedure di identificazione, si è accertato che l' anziano, il quale stava osservando con fare (forse) sospetto una casa in vendita, era proprio l' autore di Blowin' in the Wind. E che ne potevo sapere io, ha risposto più o meno la ragazza, quando le hanno chiesto come mai non aveva riconosciuto quel mito della musica mondiale. In effetti, come darle torto? Dylan da anni stravolge le sue canzoni più famose, e sembra fare il possibile per perdere un certo numero di spettatori a ogni concerto. Anche la sua immagineè diventata praticamente irriconoscibile. Diventa tristemente profetico allora il titolo del film dedicatogli da Martin Scorsese, No Direction Home: il «vecchio eccentrico» vaga nella pioggia, apparentemente senza meta, e una generazione intera si può sentire sperduta con lui, senza guida, senza meta, dopo avere per decenni coltivato l' illusione di essere «forever young».
La Repubblica, 15/8/2009, LETTERE, COMMENTI & IDEE
la cultura della destra
DAL buen retiro di Ponte di Legno, Umberto Bossi rivendica il quindicesimo anniversario dell' estate della canottiera: cioè il «numero» stilistico con Silvio Berlusconi in Sardegna, agosto 1994. Stava finendo una breve e bruciante stagione: ancora pochi mesi e il primo governo di destra sarebbe caduto proprio per lo sgambetto da parte della Lega. Con il ribaltone, il senatur sarebbe diventato «Giuda», «il ladro di voti», mentre Berlusconi giurava sdegnato che non si sarebbe «mai più seduto a un tavolo con il signor Bossi». Oggi, rivendicare il look della canottiera significa dichiarare di nuovo il lato popolano della Lega, la prossimità con il lavoro. Il fiuto per identificare umori, paure e insofferenze del Nord. Più notevolmente, Bossi segnala che a dispetto di tutti la Lega è la vera titolare dell' egemonia culturale a destra; tanto che basta registrare la reazione automatica e scomposta di un ex An come il ministro della difesa La Russa («Parlare di gabbie salariali dipende dal sole agosto») per rendersi conto che Bossi provoca, ma si avvicina fastidiosamente alla realtà. Il Pdl infatti, a giudizio del capo del Carroccio, è ormai un vasto rassemblement privo di una cultura identificabile. La Lega invece appare ancora un soggetto tellurico, mai fermo, in fase di adattamento continuo alle pulsioni della società: per metàè movimentoe per metà istituzione; in parte è protesta e in parte proposta; è l' ideatrice di nuove istituzioni potenziali, con il federalismo, e nello stesso tempo la leva disgregatrice dell' unità italiana, con la scelta mai revocata della secessione. Sotto questa luce, Bossi è consapevole che il Carroccio deve continuamente rilanciare, perché la trasformazione federale è un processo faticosissimo, e va da sé che alla lunga le istituzioni non mobilitano. Le idee sul controllo dell' immigrazione hanno avuto un ruolo decisivo in campagna elettorale e nella penetrazione leghista sotto il Po, ma vanno attuate con i tempi e i negoziati della politica. Anche il pacchetto sicurezza di Roberto Maroni, quali che siano i risultati effettivamente prodotti, finirà nella stratificazione legislativa italiana e difficilmente potrà produrre consenso alla distanza se non verrà sovralimentato periodicamente da misure sempre più dure e punitive. E quindi il leader della Lega rialza la posta, come a poker. Gli strumenti politici di questo rilancio saranno pure approssimativi, ma servono a non far cadere la tensione. Sostenere che lo studio del dialetto deve essere obbligatorio, magari «con le canzoni e la musica popolare», o con le fiction della Rai, è una proposta stravagante sul piano culturale e insignificante sociologicamente per il melting pot del Nord, ma che genera attriti nel Pdl, oltre a richiamare identità e «valori» emotivamente intensi per i «popoli padani» e la gente di Pontida. In modo analogo, la ripresa delle gabbie salariali serve più che altro a ribadire le differenze di standard civile fra il Nord e il Sud: non ci sono al momento esplicite polemiche antimeridionali nella Lega, ma i dati sulle pensioni di invalidità diffusi dal ministero dell' economia, che mostrano un nettissimo differenziale delle invalidità a favore delle regioni del Mezzogiorno, fanno il gioco della mentalità leghista. Ed è rivelatrice l' indifferenza di Bossi per l' eventuale nascita del partito del Sud: che cosa rappresenterebbe, agli occhi della Padania, se non la conferma che il Mezzogiorno è prigioniero dei suoi patrone ostaggio delle sue clientele? Per i leghisti di ferro, il Sud significa spesa pubblica e amministrazione scadente, la furbizia verso le istituzioni, gli insegnanti che barano ai test di qualità come i loro alunni, una burocrazia familista e inefficiente, nonostante Raffaele Lombardo e Gianfranco Micciché giurino su impressionanti miglioramenti indotti dalla «rivoluzione autonomista» riconosciuti dall' Ocse e dal Fmi. Per Bossi devono essere tutte favole: ma in questo momento è complementare alla sua strategia un via libera silenzioso a tutti quegli strumenti para-istituzionali che evocano l' idea di un Sud assistito e sprecone: bene dunque la Banca del Sud, la nuova incredibile Cassa per il Mezzogiorno, il solito piano Marshall berlusconiano, questa volta per il Meridione. L' importanteè diffondere una visione frantumata dell' Italia, e in questa prospettiva tutto torna utile: le bandiere regionali, gli inni locali, gli albi regionali per gli insegnanti, la legge per celebrare i matrimoni in dialetto. Tutte proposte volte anche ad anticipare tatticamente eventuali manovre antileghiste interne alla maggioranza: ecco allora in parallelo la spregiudicatezza con cui ieri Bossi ha sbarrato la strada al rinnovo della candidatura di Roberto Formigoni al governo della Regione Lombardia nel 2010, lo scetticismo verso il kolossal dell' Expo milanese, e infine la dichiarazione politica apparentemente più gratuita e quindi retoricamente più importante, il «no» sprezzante a qualsiasi apertura all' Udc: un messaggio per far capire che sarebbe irrealistico pensare di neutralizzare il peso della Lega con l' aggancio di settori tradizionali di elettorato cattolico. La Lega, fa capire Bossi, è l' unica entità politica portatrice di una cultura e di un progetto. Cultura e progetto che possono non piacere anche a destra. Ma il maggiore partito alleato, il Pdl, è un carrozzone senza guida, e allora risulta comodo imporgli l' agenda. A sinistra, il Pd è occupato nelle sue faccende interne. Con le ronde e il reato di clandestinità, oltre che con le leggi delega sul federalismo, la prima stagione della legislatura porta impresso il marchio della Lega. Nei prossimi mesi si vedrà se c' è qualcuno capace di giocare non solo di rimessa con il Carroccio. Oppure se Bossi, in canottiera o in cravatta verde, continuerà ad agitare a suo piacimento la politica italiana, di governo e di opposizione.
La Repubblica, 10/08/2009, R2
IL DIALETTO DELL’ IMMIGRATO
Fra le misure sulla sicurezza, una delle migliori è quella del test di lingua e cultura italiana per gli extracomunitari che chiedono il permesso di soggiorno. Dove si terrà l' esame? Chi saranno gli esaminatori? Commissioni ad hoc? Quali le domande? Sarebbe divertente una scenetta questurina da anni Cinquanta, con un poliziotto che intima: «E adesso, caro il mio extracomunitario, prova a ripetere: "Minchia, signor tenente"». Oppure, come test risorgimentale, ecco la prova suprema di recitare a memoria la filastrocca nazionale «Garibaldi fu ferito, fu ferito in una gamba...» (i più arditi, quelli che vogliono la lode, tenteranno anche la variante «Garabalda fa farata»). Ma è vero o no che la Lega insiste per introdurre lo studio dei dialetti e delle culture locali? E allora che c' entra il test di italiano? Occorrono test regionali, valligiani, pedemontani, lacustri, alpini, lombardo-veneti. E bisogna produrre l' edizione definitiva del poema nazionale della Padania, che gli immigrati reciteranno a memoria: «Crapa pelada ' l fa i turtèi, e ' l ne dà minga ai so' fradèi. I so' fradèi i fa la fritàda, e i ne dà minga a Crapa pelada». Unica versione autorizzata, quella di Roberto Calderoli. Su, carino, ripeti con me: «Crapa pelada...».
La Repubblica, 03/08/2009, R2
IL MINISTRO SERENISSIMO
La Lega non demorde. Dopo le provocazioni "identitarie" sull' esame di dialetto e sulla territorialità degli insegnanti, valutate con diligente attenzione e parzialmente accolte dal ministro dell' Istruzione Mariastella Gelmini, adesso è intervenuto il ministro per le politiche agricole Luca Zaia. Il quale ha svolto una riflessione più articolata: si è premurato infatti di sottolineare che la scuola e i libri di testo non si occupano della storia locale. Per esempio, ha detto, sulla storia della Serenissima Repubblica di Venezia, e sui suoi interessanti meccanismi istituzionali, si trova nei libri scolastici al massimo una paginetta e via. Che dire? Il ministro ha ragione. La storia locale non si insegna. Ma occorre anche considerare che la scuola non si limita a non insegnare la storia locale. Per quanto può, non insegna nemmeno la storia globale. Non insegna la storia internazionale. Anzi, ormai non insegna più neanche la storia nazionale. E quindi quella del ministro è fin da adesso una battaglia di retroguardia. Inutile fare tante storie. E quanto alla vicenda della Repubblica di Venezia, il localista Zaia si metta allora il cuore in pace. Stia sereno. Anzi, stia Serenissimo.
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