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Una strada, due velocità

01-02 2004

Nel dicembre scorso, con la conclusione del vertice di Bruxelles e la mancata approvazione della Costituzione, la costruzione dell’unità europea ha subito una brusca battuta d’arresto. Forse la più grave della sua storia recente, almeno dai tempi di Maastricht. Si è verificato un evento – o un non evento – che segna in modo gravemente negativo tutto il processo di integrazione. È il caso di prenderne atto, e di valutarne rigorosamente tutte le implicazioni, poiché soltanto un’adeguata dose di realismo può indicare le opportunità di uscire dall’impasse. Nello stesso tempo tuttavia dobbiamo sapere che si tratta di un processo che non tollera soste prolungate: non c’è la possibilità del surplace, o si va avanti o si torna indietro. È una condizione in cui l’Europa si è trovata spesso, nei passaggi successivi che hanno portato all’Unione, alla moneta unica, a un esperimento sovrastatuale di cui conosciamo tutte le debolezze strutturali ma di cui non è il caso di dimenticare le grandi opportunità. In questo articolo intendiamo mettere a fuoco dove sono le prospettive di avanzamento e dove si vedono rischi di arretramento. I problemi posti dall’allargamento Che le difficoltà sarebbero venute al pettine era largamente prevedibile. Tutta la storia dell’integrazione europea è una storia di accelerazioni e rallentamenti e, dopo il «grande balzo in avanti» rappresentato dall’euro, ci si poteva realisticamente aspettare che qualcuno avrebbe messo il piede sul freno. Si sapeva che dopo l’integrazione delle economie, dopo l’embrione politico rappresentato dal Parlamento di Strasburgo, dopo il mercato unico, dopo Schengen, dopo la moneta, dopo la Banca centrale, dopo le ampie cessioni di sovranità nazionale, dopo tutto ciò che di unificante era stato prodotto sul piano dei funzionamenti, l’Europa era attesa da un gradino successivo ancora più difficile: da un salto politico, rispetto al quale erano immaginabili resistenze, ripensamenti, colpi di freno. L’Unione europea non è un organismo coerente e compatto. Alcuni Paesi non partecipano compiutamente all’integrazione; un membro importante come il Regno Unito vede ancora l’euro come una prospettiva solo eventuale e di lungo periodo; in politica estera la guerra in Iraq ha esposto una significativa e dolorosa spaccatura fra chi era favorevole e chi contrario all’iniziativa americana. Ma l’ultima crisi è stata messa in evidenza soprattutto dai problemi posti dall’allargamento a Est, cioè ai Paesi che con la guerra fredda erano rimasti nell’orbita di influenza sovietica. Una scelta di grandissimo rilievo non soltanto politico e istituzionale, ma addirittura «storico», quella di aprire le porte dell’Unione: e per ciò stesso, per la sua portata, per il numero dei Paesi entranti, per l’asimmetria di reddito e di produttività fra la vecchia Europa e la nuova, una scelta controversa. L’allargamento era ed è da considerare come un obbligo di natura politica, oltre che per certi aspetti morale, dell’Europa «fortunata», ricca, invecchiata, che era rimasta al di qua della cortina di ferro, nei confronti dell’Europa «sfortunata», riemersa dopo decenni alla libertà democratica. Non era lecito lasciare Paesi appena usciti da un’esperienza illiberale e senza profonde radici nel terreno della democrazia al marasma politico ed economico che poteva seguire alla caduta dei regimi filosovietici. Occorreva consegnare a queste comunità nazionali una prospettiva per il futuro, un obiettivo di medio-lungo termine, una speranza in grado di dare un senso ad una transizione che si presentava difficile su tutti i piani. Difficile prima di tutto sul piano economico. Sono economie, quelle dell’Est europeo, con bassa produttività e bassi salari, uscite da decenni di scarsi investimenti, poco innovative, tecnologicamente arretrate, dotate di infrastrutture decrepite, prive di istituzioni in grado di regolare il mercato interno ed evidentemente troppo deboli per poter competere sui mercati dell’Occidente. A quasi quindici anni dalla caduta del Muro, questi Paesi sono oggi, a fatica, a metà del guado. Lo si osserva perfino nei Länder della Germania orientale, che pure hanno avuto il beneficio di massicci trasferimenti sul piano del Welfare, delle infrastrutture e degli investimenti produttivi. La Repubblica federale oggi mostra un sistema economico-sociale chiaramente dualistico, sia in termini di reddito sia di occupazione, tanto che le migrazioni interne non si sono per nulla arrestate. Noi italiani dovremmo sapere bene come sia difficile «correggere» il dualismo, soprattutto quando, al di là degli aspetti economici, ha messo radici nella cultura, negli atteggiamenti e nelle mentalità. Quindi è pensabile che ci vorranno anni, e inevitabilmente alcuni sacrifici della parte più ricca del continente, per integrare effettivamente le economie dei Paesi orientali nel sistema economico dell’Unione europea. Per ora, dopo gli sforzi della convergenza finanziaria, è vero che i mercati dell’Est risultano attraenti per i produttori occidentali, anche se al momento il reddito medio dei consumatori è ancora troppo basso per alimentare una domanda consistente. Occorre dunque considerare che la nuova Europa è un’area di integrazioni ma anche di squilibri assai forti rispetto al passato, certamente più sensibili ad esempio rispetto al momento in cui la Comunità vide l’ingresso di Paesi come Spagna, Portogallo e Grecia, per i quali l’integrazione con l’Europa rappresentò un fattore di sostegno e di crescita, un forte acceleratore dello sviluppo. Nel caso dei Paesi orientali i rischi di un contraccolpo sono maggiori. È vero, del resto, che i bassi salari dei lavoratori orientali hanno attirato i capitali di numerosi industriali dell’Ovest. Ma affinché salari, redditi e consumi raggiungano un livello comparabile a quello occidentale la strada è ancora lunga, e almeno a breve e medio termine l’allargamento può suscitare significative perplessità sul fatto che costituisca un buon affare per le economie euro-occidentali. Ciò che accade sul terreno economico ha marcate ripercussioni sul piano sociale. Non è affatto semplice decifrare che cosa stia accadendo nelle società dell’Est. A un primo sguardo, i gruppi sociali che sembrano sbrigarsela meglio sembrano essere le vecchie nomenklature di partito, dal momento che i quadri di partito si sono riciclati al nuovo ordine assai più agevolmente di altri gruppi. Ma nonostante le difficoltà di osservazione, è intuitivo che le aspettative di consumo e di benessere legate al mercato non hanno potuto essere soddisfatte per la grande maggioranza della popolazione. Anzi, è ormai palese che gli strati più bassi delle società centro-orientali godono oggi di un livello di vita, se non inferiore, certamente più precario di quanto non avvenisse prima della grande svolta. In generale, le disuguaglianze sociali, già notevoli nel socialismo reale, sembrano essersi accentuate, con conseguenze non del tutto prevedibili sul piano della stabilizzazione della democrazia e del consenso per le nuove istituzioni. Il settore del sommerso e dei traffici illegali ha goduto di un boom eccezionale, come avviene allorché entrano in crisi gli apparati di governo e di amministrazione dello Stato: il mercato infatti richiede un’adeguata produzione normativa, l’acquisizione di regole condivise e la presenza di autorità capaci di farle rispettare; mentre nessuna di queste condizioni era presente allora e in larga misura non è presente neppure oggi. Inoltre, le tensioni e i conflitti etnico- religiosi, che i regimi comunisti erano riusciti a comprimere ma non certo a superare, sono riaffiorati in modo più o meno virulento in varie regioni. Abbiamo assistito a ciò che è successo nei Balcani, in Cecenia, nelle repubbliche caucasiche, ma anche alle tensioni nelle regioni baltiche. Il venir meno di un potere sovranazionale (quello sovietico era certamente tale) e l’assenza di prospettive di un ordine democratico di convivenza fra etnie, nazionalità e culture diverse (quali potrebbe offrire l’Unione europea), producono il rischio di anarchia e frammentazione e possono scatenare conflitti e tensioni ingovernabili. Infine, sul terreno più propriamente politico, se per democrazia intendiamo un sistema fondato su partiti che si contendono i consensi in libere elezioni, non si può negare che nei Paesi dell’Est europeo si siano affermati dei regimi democratici. Sulla loro solidità, tuttavia, sul loro impianto, sulla loro maturità, sulle condizioni di fondo che Robert Dahl individua per designare un sistema liberaldemocratico non soltanto nominale, è lecito nutrire dubbi: teniamo presente che la democrazia è per questi Paesi un’esperienza recente e che le regole democratiche non si appoggiano sul terreno solido di un costume politico, sia delle élite sia della popolazione, sedimentato nel tempo. In conclusione, all’allargamento non c’era alternativa. Si è trattato di una decisione praticamente obbligata. Certo, si poteva anche evitarla. Con il rischio, però, di aprire ai confini dell’Unione una fase di disordine politico e di confusione sociale. Senza la prospettiva dell’integrazione in un’Europa libera e democratica, la dinamica avrebbe condotto a esiti imprevedibili nel dettaglio, ma potenzialmente catastrofici nella sostanza. I risultati delle recenti elezioni serbe, con il premio del voto a pulsioni nazionalistiche e l’elezione «provocatoria » di Slobodan Milosevic, sono un segnale sufficientemente allarmante di cosa potrebbe succedere a Est qualora si allontanasse nel tempo la prospettiva dell’ingresso in Europa. Come avevano ben capito Spinelli, Rossi e Colorni, confinati dal fascismo a Ventotene, come era successo con Germania e Italia nel dopoguerra, e successivamente con Spagna, Portogallo e Grecia, per i Paesi che escono da regimi non liberali, la via verso la democrazia – e la pace – passa necessariamente attraverso la prospettiva dell’unificazione europea. Non è una legge logica o politica, ma è una delle poche condizioni empiriche in grado di assicurare ordine, stabilità, sviluppo. Contraddizione e sfida L’allargamento, tuttavia, era destinato a generare a sua volta due conseguenze. Più precisamente, una contraddizione e una sfida. La contraddizione è nota da tempo: l’accresciuta eterogeneità interna (economica, sociale e politica) rende sempre più ardua la convergenza tra gli Stati membri e quindi il raggiungimento dell’unanimità nelle decisioni europee. Se il meccanismo decisionale, essenzialmente fondato sull’unanimità, appariva già in serie difficoltà nell’Europa a quindici, minaccia di diventare del tutto paralizzante in un’Europa a venticinque. La sfida è simmetrica alla contraddizione, ma contiene un elemento politicamente irriducibile: l’allargamento infatti impone il passaggio a un meccanismo decisionale fondato sul voto a maggioranza, almeno se non si vuole creare una situazione di paralisi decisionale al livello degli organi dell’Unione, soprattutto al livello del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri. Presentato in questi termini, il binomio di contraddizione e sfida incorporava un’assai più marcata caratterizzazione politica dell’Unione, e dunque resistenze e ostracismi potevano essere messi nel preventivo di una trattativa onerosa. Ma non c’era soltanto questo aspetto a rendere complesso il quadro. Al di là dei problemi posti dall’allargamento, infatti, si era venuta a creare con la serie dei trattati istitutivi o di revisione e di adesione delle istituzioni comunitarie (Parigi, Roma, Maastricht, Amsterdam, Nizza) una situazione piuttosto farraginosa e comunque confusa nell’ambito del diritto comunitario. Per semplicità, per trasparenza, per sfuggire al continuo sospetto di opacità e all’accusa ormai stereotipata del «deficit democratico» imputato all’Unione, si imponeva di fatto una riscrittura e una unificazione delle norme contenute nei trattati. Infine, vi era l’esigenza di dare una collocazione alla Carta dei Diritti fondamentali, proclamata a Nizza nel settembre del 2000, ma ancora priva di un chiaro valore giuridico. Con questi problemi sullo sfondo si era giunti alla Dichiarazione di Laeken, che dava mandato a una Convenzione di elaborare una bozza di Costituzione da sottoporre poi all’approvazione di una Conferenza intergovernativa. Com’è noto, la Convenzione si è aperta il 28 febbraio 2002 e si è conclusa il 18 luglio 2003 con la consegna della bozza di Costituzione ai governi degli Stati membri dell’Unione da parte del presidente Valéry Giscard d’Estaing. Oggi sappiamo qual è stato il suo destino, almeno nell’immediato. La Conferenza intergovernativa, presieduta dal capo del governo italiano, non ha approvato la bozza di Costituzione. Il macigno che ha bloccato la strada è stato, com’era del tutto prevedibile, il meccanismo del voto a maggioranza. Va detto che il voto a maggioranza è il vero punto di svolta tra una semplice confederazione di Stati pienamente sovrani e una forma di unione dotata di qualche tratto di sovranazionalità. Fintanto che domina il principio dell’unanimità, ogni Stato, da solo, è in grado di bloccare qualsiasi decisione unitaria; l’unione non esiste: o, meglio, esiste solo nel caso, del tutto improbabile, di concordia universale. L’unione si dà, invece, quando è possibile dividersi in maggioranza e minoranza senza che per questo venga meno il vincolo che unisce. Si capisce quindi come gli Stati siano particolarmente riluttanti a trasferire materie decisionali dalla sfera che richiede l’unanimità all’area delle questioni che, invece, possono essere deliberate a maggioranza. Tanto è vero che essi sono indotti a conservare gelosamente le loro prerogative soprattutto nei campi della politica estera, militare e fiscale. Scontando l’opposizione degli Stati, la Convenzione era stata assai cauta (per gli europeisti più convinti, eccessivamente cauta) nell’allargare la gamma delle questioni da decidere a maggioranza. Tuttavia le difficoltà sono sorte, più che sul quantum delle materie, sulle modalità del calcolo della maggioranza. La proposta di adottare una doppia maggioranza (variamente «qualificata») degli Stati e della popolazione ha incontrato l’opposizione dei governi di Spagna e Polonia ai quali il trattato di Nizza del 2001 riconosceva un peso equivalente a quello dei Paesi maggiori (soprattutto della Germania che, dopo la riunificazione, può contare su una popolazione di oltre 80 milioni di abitanti). Dietro i governi spagnolo e polacco si intravedevano peraltro, da un lato, il governo di Sua Maestà britannica (da sempre riluttante a un’unione con più evidenti tratti sovranazionali) e, dall’altro, l’ombra dell’amministrazione americana nella quale in questa fase domina la componente neoconservatrice: vale a dire una corrente politica prevedibilmente fredda, se non ostile, al rafforzamento dell’Europa come entità efficacemente autonoma sulla scena internazionale. Questo complesso equilibrio è stato gestito con scherzosa levità da una figura politica e istituzionale, Silvio Berlusconi, la cui credibilità internazionale non è mai apparsa particolarmente elevata, ma che in questa occasione ha toccato un punto indecifrabile, alternando impegnative dichiarazioni di europeismo con una sostanziale sfiducia verso un’entità percepita da lui, e da ampi settori della sua coalizione politica, come una concentrazione di burocrazie, di regole, di pastoie, di codicilli e commi (per qualche suo alleato, l’Unione europea è «Forcolandia»; e al di fuori del folklore, la rappresentanza italiana era reduce dal colpo assestato al Patto di stabilità e di sviluppo con il sostegno euroscettico offerto da Giulio Tremonti alla posizione «defezionista» di Francia e Germania). Questioni di stabilità Il 2003 è stato un anno più che problematico per un’ampia gamma di «istituti su cui si era tentato di edificare la pace e la cooperazione internazionale dopo due guerre terribili». La diagnosi di Tommaso Padoa-Schioppa, che sul «Corriere della Sera» del 2 gennaio non ha esitato a riprendere l’espressione «annus horribilis», derivava dalla presa d’atto di una serie di fallimenti globali: «rottura dell’Onu, a New York, sulla questione irachena; rottura, a Cancun, dei negoziati sulla riforma del commercio internazionale; rottura, a Bruxelles, della conferenza sulla Costituzione europea; lacerazione di un piano di pace in Medio Oriente; violazioni continue (in Afghanistan, Guantanamo, Cecenia, Iraq) della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra. E, poco prima: abbandono del trattato di non proliferazione nucleare; revoca della firma posta al Protocollo di Kyoto sull’effetto serra». Dentro questo orizzonte, l’affaire europea sembra da un lato ridimensionarsi a questione locale; dall’altro ingigantirsi a problema planetario. A questo punto, comunque, prendiamo atto che il processo di unificazione non solo è bloccato, ma rischia di fare vistosi passi indietro. Come si è accennato, un’avvisaglia preoccupante la si era avuta con le mancate sanzioni a Francia e Germania per la violazione del Patto di stabilità. Il Patto di stabilità, sui celebri parametri di Maastricht, era stato voluto in vista dell’adozione dell’euro (soprattutto dalla Germania) per evitare che Paesi considerati poco finanziariamente responsabili, come l’Italia, potessero continuare nella loro ormai tradizionale prassi lassista e quindi di trasferire indirettamente sui propri partner il peso dei propri debiti e delle proprie inefficienze pubbliche e private. Con il Patto di stabilità, gli Stati si impegnavano a contenere il deficit spending nei limiti del 3 per cento del prodotto interno lordo. Negli ultimi due anni l’Italia è rimasta acrobaticamente al di sotto di questa fatidica soglia. Francia, Germania e Portogallo, invece, evidentemente privi del talento creativo che si esercita sui conti pubblici italiani, hanno ripetutamente, sia pure non di molto, sfondato il tetto del disavanzo. Che il Patto di stabilità sia un’eccentricità, se non proprio un’assurdità, dal punto di vista dei principi fondamentali di politica economica è una convinzione di molti, piuttosto solidamente fondata (lo stesso presidente della Commissione europea, Romano Prodi, ebbe a parlare di patto «stupido»). Che in determinate circostanze possa essere un freno alla ripresa e quindi alla crescita è altrettanto convincente. Ma, che lo si voglia o no, è la sola via percorribile se si vuole avere una moneta unica senza uno Stato e quindi senza un’istanza sovranazionale che abbia il compito di formulare e condurre una politica economica per tutta l’Unione e che risponda dei suoi atti di fronte al Consiglio e al Parlamento europei. Dovrebbero essere gelosi custodi del Patto di stabilità proprio coloro che esitano ad affidare agli organi europei nuovi poteri nel campo della politica economica. Come, ad esempio, il governo spagnolo. Si può infatti capire la «stizza» di Aznar di fronte al lassismo con il quale il duo Berlusconi- Tremonti ha affiancato e assecondato la «prepotenza» franco-tedesca. Per ora l’euro non ha sofferto della minaccia alla sua stabilità che viene dalle impunite violazioni del Patto. Anzi, si è rivalutato in misura perfino preoccupante nei confronti del dollaro. Il futuro del sistema monetario mondiale si giocherà molto nella partita trilaterale tra euro, dollaro e yen. In parte, la svalutazione del dollaro è senz’altro dovuta a ragioni di mercato, alle strategie degli investitori internazionali che hanno spostato capitali dall’area del dollaro all’area dell’euro. In parte dipende dall’atteggiamento della Federal Reserve che non vede male una svalutazione del dollaro in una fase in cui sembra opportuno favorire le esportazioni e frenare le importazioni per facilitare la ripresa in atto dell’economia statunitense. Ma queste sono tutte ragioni che operano nel breve termine. La domanda di fondo è se nel medio-lungo termine l’euro sarà in grado o no di spartirsi con il dollaro il ruolo (e i vantaggi) di moneta nella quale vengono regolati gli scambi internazionali e di moneta di riserva. Finora il dollaro ha operato incontrastato come moneta di riserva e di scambio (e gli Stati Uniti hanno tratto innegabile vantaggio da questa posizione del dollaro, riuscendo in tal modo a compensare i loro formidabili deficit della bilancia commerciale). In ultima istanza, sarà il grado di fiducia che dollaro, yen ed euro saranno in grado di riscuotere a determinare il loro peso reciproco come monete di riserva e di scambio e non c’è dubbio che la fiducia nella moneta rispecchia la fiducia nell’autorità che la batte, cioè gli Stati Uniti, il Giappone e l’Unione europea. Nei confronti di quest’ultima, come si fa ad avere fiducia nella moneta di una labile aggregazione di Stati, ognuno dei quali persegue il proprio interesse nazionale a breve termine e dove sono deboli le istituzioni che dovrebbero perseguire l’interesse comune europeo? Da questo punto di vista, se le violazioni del Patto di stabilità continueranno, se continueranno a restare impunite e, soprattutto, se ad essere coinvolti nelle violazioni saranno Stati membri meno potenti e affidabili economicamente di Francia e Germania, oppure se non saranno vinte le resistenze ad affidare all’Unione maggiori poteri di politica economica (e quindi anche fiscale), è assai probabile che alla lunga il dollaro mantenga la sua posizione e l’euro entri in una crisi che potrebbe addirittura far ritenere il processo di unificazione monetaria non irreversibile. Sotto questa luce, la posizione assunta dal governo italiano nei confronti dell’euro richiede esplicitamente un discorso a parte. Il presidente del Consiglio si è lasciato andare nel suo messaggio natalizio ad affermazioni di una gravità che è poco giudicare preoccupante: l’euro sarebbe responsabile dell’aumento dei prezzi e, soprattutto, l’ingresso dell’Italia nel gruppo di Paesi che hanno adottato la moneta europea sarebbe la conseguenza di un atto voluto dal precedente governo dell’Ulivo e di cui l’attuale governo non porta responsabilità. Detto altrimenti, se allora fosse stato al governo il centrodestra, l’Italia avrebbe seguito l’esempio di chi ha preferito restare al di fuori della moneta unica. Dal che si deduce che neppure su una decisione di portata storica decisiva, come l’adozione della moneta unica, è oggi possibile in Italia un consenso bipartisan. Finora, soltanto la Lega di Bossi aveva esplicitamente dichiarato il proprio antieuropeismo, oltre a qualche ministro esponente della maggioranza; adesso è stato anche lo stesso Silvio Berlusconi, e, per di più, nel corso del suo mandato di presidente del Consiglio europeo a schierarsi nel campo degli euroscettici. Quale sia il senso di questa strategia è difficile dire. È vero che dietro le intimazioni più vocali della Casa delle libertà, sulla tonalità del «contare di più in Europa», si era sempre avvertito un sentimento antieuropeista, che avrebbe ritenuto più consono all’Italia un ruolo corsaro, da repubblica marinara, con una quota in più di inflazione, e con la possibilità di riallineare il cambio lungo il classico ciclo inflazione/svalutazione. Ma a parte l’adeguatezza di una simile visione alle condizioni e alle prospettive di un’economia avanzata, non è mai sembrato che Berlusconi intendesse poi prendere effettivamente una esplicita e formale posizione di autoesclusione dal circuito europeo. In realtà, si ha la sensazione che il capo del centrodestra cerchi di indirizzare contro l’Europa (e contro l’opposizione) i sentimenti di frustrazione che derivano dall’aumento dei prezzi e dalla riduzione del potere d’acquisto di stipendi e salari. Facendosi portatore di un’interpretazione politicamente strumentale delle difficoltà economiche di una buona parte della popolazione, ha dato il via a un’operazione mediatica volta a individuare nell’Europa il capro espiatorio dei guai del Paese e delle sfortune dei «ceti medi impoveriti». Sarebbe il caso di chiedersi come sarebbero ridotti la lira e i conti pubblici del nostro Paese se la prospettiva di entrare nel club dell’euro non avesse indotto a comportamenti virtuosi lo Stato, i sindacati, gli imprenditori e, in generale, i cittadini italiani. Il debito sarebbe ulteriormente cresciuto, la lira sarebbe stata ulteriormente svalutata e il Paese si sarebbe verosimilmente incamminato verso una sorte di tipo argentino. La defezione italiana sarebbe tutto sommato trascurabile se l’Italia fosse uno dei piccoli Paesi da poco arrivati sulla scena dell’Unione: ma è invece un Paese «grande» e fa parte del nucleo dei sei Paesi fondatori dell’Europa comunitaria. Si sa che Berlusconi ama richiamarsi a De Gasperi, come modello politico da seguire. Negli anni Cinquanta, tuttavia, il leader democristiano aveva interpretato in modo molto diverso il ruolo dell’Italia nel processo di costruzione europea. Nell’affiancarsi a Schuman e Adenauer nella fondazione della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), De Gasperi aveva capito che l’Europa non poteva nascere sotto l’egemonia franco-tedesca e che la presenza dell’Italia nel nucleo di avanguardia rappresentava una garanzia della natura effettivamente paneuropea del processo di unificazione. Sicuramente Germania e Francia sono indispensabili, oggi ancor più che allora, per ogni progetto europeo, ma, da sole, rischiano di dividere anziché unificare. Con il contributo dell’Italia, l’asse Parigi-Bonn, o in seguito Parigi-Berlino, «europeizza » l’intero processo, diventando il polo di attrazione nei confronti degli altri Stati. Questo è il ruolo più importante al quale può aspirare l’Italia. A quali velocità Di fronte all’esplodere di una doppia crisi – violazione del Patto di stabilità e mancata approvazione da parte della Conferenza intergovernativa del trattato istitutivo della Costituzione dell’Unione – alcuni capi di Stato (capeggiati dal presidente francese Jacques Chirac) hanno avanzato l’ipotesi di un’Europa a due (o più) velocità, o, come anche si dice, «a geometria variabile». Non è certo un’ipotesi nuova. È un’idea che riaffiora inevitabilmente ogni qual volta il processo di unificazione sembra arrestarsi. È emersa per esempio nella prima metà degli anni Novanta, allorché sembrava che le preoccupazioni tedesche sull’adozione della moneta unica potessero indurre la Repubblica federale a preferire la creazione di un nocciolo duro dell’Europa comunitaria, composto da Paesi fortemente omogenei, solidi sul piano finanziario, affidabili nell’esercizio della sovranità contabile quanto convinti della necessità improrogabile di assicurare all’Europa un’integrazione più forte. Oggi quell’ipotesi è sostenuta anche da Romano Prodi e da gran parte dei membri della Commissione europea. Potrà sembrare paradossale che un’asimmetria economica, istituzionale e politica possa diventare il perno di un’unione più forte; e quindi sono comprensibili le ragioni di chi, Carlo Azeglio Ciampi, dall’alto della sua storia di europeista, insiste sulla necessità di non dividere ma di approvare rapidamente la Costituzione nel suo insieme. Ma al di là del paradosso l’idea delle due velocità costituisce un test funzionale per distinguere tra coloro che vogliono arrestare il processo e coloro che invece lo vogliono portare a compimento. Gli oppositori di questa ipotesi sostengono che in questo modo si produrrebbe una divisione anziché un’unificazione dell’Europa; i sostenitori, invece, replicano che un’Europa costretta a marciare col passo del partner più lento è destinata a fermarsi e quindi a restare divisa. Che a questa ipotesi si oppongano la Gran Bretagna di Tony Blair e l’Italia di Silvio Berlusconi non sorprende. (Forse sorprende un tantino di più che giudichi questa strada impraticabile una personalità come quella di Giuliano Amato: che con Giscard d’Estaing è stato uno dei padri della Costituzione europea, e quindi non cede facilmente all’idea di abbandonare il progetto di una carta costituzionale per tutta l’Europa; non è tipico del pensiero riformista fare leva sulle opportunità reali, senza attendere i tempi incertissimi del programma massimo?) Dal canto loro, i governi britannici, laburisti o conservatori, non hanno mai svolto un ruolo autenticamente propulsivo nel processo di unificazione europea. Solo Winston Churchill, quando ancora l’Europa era sepolta sotto le macerie della guerra, aveva parlato dell’urgenza di incamminarsi verso quelli che allora egli chiamava, non a caso, Stati Uniti d’Europa. Ma da allora in poi l’atteggiamento dei governi britannici è sempre stato freddo e cauto, anche se ormai è diffusa, sia nel mondo della cultura sia nella realtà della politica, la convinzione che il destino della Gran Bretagna non può essere disgiunto da quello del continente europeo. Sembra quasi che nei confronti dell’Europa la classe politica britannica abbia assunto implicitamente questa linea: non siamo favorevoli a fare passi in avanti consistenti e accelerati, ma se qualcuno vuole farli, e non riusciamo a impedirlo, saremo costretti a seguirlo. Così è stato con l’adesione alla Comunità; così, prima o poi, sarà anche per l’euro, a meno che la moneta unica – come forse qualcuno ancora si augura oltre Manica – non collassi prematuramente. Del resto, l’architettura istituzionale dell’Unione con le «cooperazioni rafforzate» e i diritti di opting out già prevede forme di aggregazione variabili tra gli Stati membri. Il dilemma è semplice, almeno nella sua enunciazione: è irrealistico pensare che un’Unione europea possa funzionare sulla base di accordi convergenti tra venticinque Stati sovrani. Se l’Europa si unificherà lo farà con gradualità in una duplice direzione: in primo luogo, prendendo le mosse da un nucleo ristretto di Paesi che si pongono al centro del processo ed esercitano la loro forza di attrazione verso cerchi concentrici via via più ampi; secondo, allargando gli ambiti delle materie sulle quali decidere a maggioranza. Del resto, è così che il processo è andato avanti finora, pragmaticamente, ma senza rinunciare alla possibilità di fare qualche passo avanti, per quanto piccolo. La via da percorrere sembra quindi essere quella delle cooperazioni rafforzate e dei diritti di opting out. La spaccatura che si è consumata intorno alla vicenda della guerra in Iraq è rivelatrice delle contraddizioni dell’Europa nella fase attuale. Chi ha spaccato l’Europa, chi ha impedito che si realizzasse una strategia comune europea nel Medio Oriente, nel conflitto israelo-palestinese, nei confronti del petrolio, del terrorismo e dell’intervento armato in Iraq? Gli Stati che si sono opposti all’intervento militare (Francia e Germania in testa), oppure quelli che si sono accodati alla politica di Bush (Gran Bretagna, Italia, Spagna, Polonia, ecc.)? Come in una coppia che divorzia, non si può mai dire con certezza di chi sia la colpa. La questione non si può ridurre a una guerra di accuse reciproche di filoamericanismo e di antiamericanismo. Non siamo più nell’epoca della guerra fredda. Non può essere accusato di filoamericanismo chi ritiene che il mondo occidentale abbia valori e interessi da difendere e responsabilità mondiali da assumere, come non può essere accusato di antiamericanismo chi ritiene che non si può seguire sempre e invariabilmente la strategia del governo degli Stati Uniti nella gestione delle relazioni internazionali. Il problema è di identificare gli interessi europei nel mondo di oggi e di domani e di identificare gli strumenti mediante i quali tali interessi possono essere perseguiti e difesi. Su come definire, interpretare e realizzare gli interessi europei si potrà realizzare consenso unanime solo in circostanze eccezionali, in presenza di una minaccia incombente e immediata. La norma nei rapporti tra gli Stati, così come tra gli esseri umani, non è la concordia unanime bensì il dissenso. Per questo c’è bisogno di modi per gestire il dissenso e la democrazia altro non è che il modo meno imperfetto che la civiltà occidentale ha sviluppato per gestire il dissenso senza ricorrere alla violenza. Concretamente, ciò significa rimettere in moto il processo di unificazione senza impedire ai Paesi disposti a trasferire quote di sovranità a un governo europeo di farlo e senza costringere i Paesi riluttanti (siano essi i governi e/o i popoli) a seguire il loro esempio.

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