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Un esercito perso nella nebbia

01-02 2009

Nel lungo inverno che stiamo attraversando, qualche volta le nevicate e le nebbie sembrano quelle d’antan. Scherzi dell’effetto serra e quindi del riscaldamento globale, declassato rapidamente, per la verità e a furor di scienza, al rango di cambiamento climatico. In questo «aer denso», il profilo stesso delle cose risulta ammorbidito, sfumato al punto che le immagini non risultano del tutto chiare. Ogni cosa, perfino il calendario, lascia pensare che abbiamo girato la boa che stazionava sul limitare del 2009 e ci siamo inoltrati nell’anno nuovo: ma allora perché si ha una sensazione di déjà-vu, come se avessimo visto da tempo, e anche archiviato, tutto ciò che ci sta intorno? Per quale ragione molti di noi hanno la sensazione di vivere un’esperienza già vissuta in altre epoche della Repubblica? Eppure il governo di destra è, e si dice, «decisionista». Ha in mente, e in programma, riforme decisive. La giustizia, il federalismo. Forse il presidenzialismo. Ecco, il solo aspetto della realtà contemporanea su cui il governo presieduto dall’onorevole Berlusconi non sembra avere le idee chiarissime è la crisi economica che il Paese, anzi, il mondo, sta sperimentando. È come se si stesse cercando di neutralizzare con le parole le asperità reali, e di smussare gli spigoli e le scabrosità. Diciamolo con un’immagine: là in fondo, sulla linea dell’orizzonte, sfilano muti, nel bianco e nero dei film del passato, reperti umani dall’aspetto indefinibile: sono i precari licenziati, o semplicemente non riassunti al termine del contratto, per ora le uniche vere vittime della recessione. Di qua, sulla torre di vedetta del governo, la crisi economica viene ancora considerata come un caso percettivo e mediatico. Una dissonanza cognitiva. Sono le cattive profezie «autorealizzantisi», le inquietudini «ingiustificate » del ceto medio e dell’impiego pubblico, il pessimismo che alimenta se stesso. Dovesse aggravarsi, la crisi, è probabile che il capo del governo troverebbe adeguate espressioni di collera, contro il sabotaggio psicologico, e quindi concreto, perché ciò che è mentale è reale, di cui gli italiani sono il bersaglio. Per ora, il capo del governo risponde alla recessione con le retoriche che gli sono abituali, soltanto più moderate, più guardinghe, più prudenti. Coraggio, dev’essere nata una nuova variante dell’andreottismo. Il governo è mediocre, nei contenuti e nello stile. Questo è il primo punto. Vediamo appena più in particolare. Nonostante le celebrate facoltà predittive del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nei mesi scorsi è stata approvata una legge finanziaria triennale, che gli economisti definiscono «pro ciclica», ossia orientata in modo tale da approfondire le conseguenze della crisi. Il cosiddetto «Lodo Alfano», il provvedimento varato per sottrarre preventivamente alla giustizia le quattro principali cariche dello Stato, ha tutta l’apparenza di un vulnus deplorevole al criterio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini (si spera, ma non si giura, che la Corte costituzionale provveda secondo buonsenso). La crisi dell’Alitalia è stata risolta partendo da Air France per tornare a Air France, solo con l’aggravio di un costo per il bilancio pubblico fra i tre e i quattro miliardi di euro, settemila disoccupati in più, e un balletto deplorevole per costringere il Mercato a subire i desiderata dello Stato, cioè per passare dalla Francia alla Germania. Sul piano sociale, si è vista la trovata tecnologicamente avanzata della social card, con i poveri pensionati costretti alle code davanti agli sportelli delle Poste, magari per ritirare una card scarica. Sul terreno internazionale, al di là di gaffe lessicali molto da caffè di provincia, si è assistito a un grottesco equilibrismo tra il filoamericanismo di facciata e l’evidente scelta filorussa nella crisi della Georgia. Continuare l’elenco sarebbe un esercizio pedissequo. Sia consentito soltanto di mettere brevemente a fuoco l’«ideologia» del governo Berlusconi, esemplificata dai provvedimenti adottati dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini: giusti o sbagliati che fossero, rimangiati o no, del tutto o parzialmente ritirati, ciò che li qualificava era l’ineffabile alone da anni Cinquanta, un bianco e nero di ritratti a memoria e di oleografie nostalgiche, il profumo di un’Italia ordinata e assopita: il grembiule, il voto in condotta, la maestra. Nostalgie odorose, fragranze, profumi di premodernità. Appena fuori, naturalmente, lo spaccio continua. Continua anche il consenso, anche se le quote asseverate dai sondaggi sembrano piuttosto bizzarre. Si tratterà forse del «consenso senza fiducia» identificato da Ilvo Diamanti, ma che per il momento appare inscalfibile come una parete di zaffiro, su cui le deboli unghie dell’opposizione non lasciano neppure segni. Assomiglia però molto al consenso del pentapartito, del Caf, dell’eternità democristiana, del blocco di potere democristiano e socialista arenatosi nell’ultima fase della «Repubblica dei partiti». Assomiglia poi moltissimo al consenso inerziale degli anni Ottanta, anche se non c’è traccia della crescita economica che allora faceva dire «la nave va». Sicché ci si potrebbe anche domandare per quale motivo la destra al governo non approfitti della crisi per mettere in pratica quelle riforme che ritiene necessarie per modernizzare il sistema italiano, per realizzare le infrastrutture, per colmare i ritardi nell’adeguamento del Welfare, per aggiustare il sistema della ricerca, per dare gli strumenti necessari alla crescita futura. La risposta è semplice, per la verità: le trasformazioni efficaci non si fanno, e neppure si progettano, a causa di un deficit culturale. Molto serio. Nelle epoche scorse, quando la destra poteva contare sull’ingenuità e la sconsideratezza degli elettori, Berlusconi aveva mantenuto una schietta impostazione neoliberista. Criticabile, se si vuole, ma distinguibile. Il Cavaliere citava in continuazione Ronald Reagan e Margaret Thatcher, e proponeva la mirabolante curva di Laffer, la formula secondo cui abbassando le aliquote aumentano la crescita e il gettito, tanto che vinse facilmente una tornata elettorale, nel 2001, grazie allo slogan liberista e supply side «meno tasse per tutti». Fece il possibile per modernizzare il Paese prendendolo per la coda, con il tentativo (o la ripicca sociale) di abolire l’articolo 18 e presentando la libertà di licenziamento nella veste della «libertà di assumere». Era una linea politica, quella liberista un tanto al braccio, che poteva essere proposta ragionevolmente in un periodo favorevole. Purtroppo Berlusconi e i suoi collaboratori principali si trovarono in un momento fastidiosamente negativo (anche se l’11 settembre e le Torri gemelle, sempre invocate a discolpa, non c’entravano niente); e, dopo avere dichiarato la bancarotta politica della legislatura con il siluramento di Tremonti, conclusero il mandato con il miracolo a rovescio della crescita zero (e con il debito pubblico in aumento, il deficit aumentato, l’avanzo primario quasi azzerato: risultati curiosi per gli uomini che avevano sempre assecondato Berlusconi negli illusionismi di «un nuovo, un grande, uno straordinario miracolo italiano»). Crescita zero, con gli economisti d’area che si sforzavano diligentemente di spiegare, e di argomentare, e di giustificare. Indicavano l’estero, l’andamento delle maggiori economie, il divario storico italiano. Tutto chiaro, no? Ah, però, che dolore, che sofferenza quello zero, per l’uomo del miracolo. Adesso si tratterebbe di dare ulteriori spiegazioni. Spiegare intanto per quale motivo il liberismo, «la nostra ricetta», si è rovesciato in un protezionismo dichiarato. Ah già, che ingenui: semplicemente non si doveva credergli. Bastava registrare la furibonda reazione della Casa delle libertà contro le liberalizzazioni varate da Pier Luigi Bersani sotto il governo Prodi (anzi, «le false liberalizzazioni») per avere il primo indubitabile indizio di quanto fosse precaria la cultura liberal-liberista della destra. Poi sarebbero tornati al governo, i neoliberisti presunti, e non avrebbero più nascosto un’impronta culturale nazionalcorporativa. Bastava leggere il gran finale metafisico del bestseller di Tremonti La paura e la speranza, con quell’elenco di parole maiuscole che il ministro ha sintetizzato varie volte, a cominciare dal Meeting di Comunione e liberazione a Rimini dell’estate scorsa, nello slogan «Dio, Patria e Famiglia», cioè il ritorno all’ordine; e si sarebbe capito che l’impianto intellettuale e filosofico del governo di destra, certificato dal suo guru principale, è di tipo espressamente conservatore. Domanda: a qualcuno non è piaciuta e non piacerà la definizione di «modernizzazione reazionaria» applicata come etichetta al programma del Popolo della libertà, perché in passato è stata usata per individuare il programma del nazismo, modernizzatore nella tecnica e nello stesso tempo arcaico nei valori? E allora chiamiamola semplicemente conservatrice: è la modernizzazione che promette di innovare i funzionamenti senza toccare le strutture, anzi, inserendo gli apparati in una gigantesca palla di cristallo con la neve che cade suggestivamente, in un trionfo del kitsch. Tanto più che se ci fosse davvero una cultura liberale nel nostro Paese, e non soltanto liberali sparsi qua e là, e talvolta dimentichi del loro ruolo, forse qualcuno si sarebbe premurato di segnalare che l’impianto sociale della visione di Tremonti, altro che economia sociale di mercato, è la riedizione di un tentativo di corporare gli interessi dividendoli soltanto funzionalmente. Sfortunatamente per tutti i liberali un po’ miopi presenti a destra, assomiglia, eh sì, dispiace dirlo, assomiglia al fascismo. No, questa non passa: il fascismo no. Tremonti non fa che citare i liberali riuniti intorno alla rivista «Ordo», cioè gli intellettuali che a Friburgo codificarono l’economia sociale di mercato. E allora diciamo così: siccome fra i non molti che sembrano in grado di fare politica, nel governo e nella maggioranza di destra, spiccano per iniziativa gli ultimi mohicani socialisti (Tremonti, Brunetta, Sacconi, Frattini…), può darsi che la vendetta socialista contro gli anni di Tangentopoli si sia realizzata con la creazione di un fronte egemonico, in cui i sedicenti «socialisti di Forza Italia», o adesso «del Pdl», naturalmente alleati con gli ex fascisti (cioè colmando a loro modo, in via del tutto pragmatica, una frattura storica ma non del tutto ideologica), hanno corporato i ceti del lavoro autonomo contro il lavoro dipendente: una nuova forma della lotta di classe, benché a rovescio. Ma proprio il sistema di alleanze su cui si è costituito il successo elettorale e si è sviluppata l’articolazione nel sistema politico del blocco berlusconiano potrebbe forse cominciare a spiegare le incertezze operative del Pdl e dei suoi partner. Nonostante le reiterate dichiarazioni di compattezza e di solidarietà fra i leader e i partiti, l’armada guidata da Berlusconi, tenuta insieme dall’ineffabile gusto del potere, continua a essere segnata da divisioni politiche e culturali vistose. È difficile dimenticare che lo stesso Pdl, ossia il partito lanciato con una grande e solitaria performance pubblica sul predellino di un’automobile a Milano, rappresentava nello stesso tempo un’offerta e un ricatto: perché il fondatore e capo di Forza Italia aveva deciso di liberarsi dei condizionamenti e procedere esclusivamente «con chi ci sta». Quindi, restare fuori dal Popolo della libertà, per un partito come Alleanza nazionale, implicava il rischio evidentissimo della cannibalizzazione elettorale. Ciò significa comunque che il nuovo partito di Berlusconi ha riunito strutture, personalità, culture e tradizioni assai diverse. Gli «istinti di mercato» di Forza Italia (secondo la vecchia ma sempre attuale definizione di Giuliano Amato, che li contrapponeva alla «cultura di mercato »), e la vocazione nazionalpopulista di An; il pragmatismo imprenditoriale, e padronale, di Berlusconi con il politicismo di Gianfranco Fini. E fosse solo questo: perché il vero capolavoro di Berlusconi (con tanti ringraziamenti a Tremonti) consiste nell’essere riuscito a mantenere in vita il rapporto politico con Umberto Bossi e la Lega: un’impresa sia in senso tattico sia in senso strategico, dato che unisce i fautori della società aperta con i sostenitori delle «società chiuse». Impresa che si colora di tinte aurorali e altamente suggestive se si mette nel conto che ai vessilliferi del potentissimo Nord si affiancano in Parlamento i rappresentanti delle clientele del Sud. Ecco allora che si spiega il sostanziale mutismo della maggioranza di destra rispetto ai problemi reali. Al di là delle sparate «sistemiche» con la rivendicazione di riforme colossali sotto il profilo istituzionale, l’unica possibilità reale di mediare fra gli interessi divergenti intrinseci alla coalizione di governo consiste nel trovare un tono medio, caratterizzato da categorie attinenti più al buonsenso famigliare e all’economia domestica che non al coraggio, all’iniziativa politica, ai punti qualificanti di un programma autenticamente innovativo. Meglio così, per certi versi. Per amore o per forza la destra italiana, dopo i fuochi d’artificio del neoliberismo applicato in provincia, con l’approssimazione e il vigore retorico dei neofiti, si è riscoperta infine un’anima popolar-conservatrice. Dopo i fuochi artificiali delle origini, dopo i miracoli promessi e le promesse esorbitanti, dopo le polemiche contro le istituzioni dell’Unione europea, contro Maastricht e il Patto di stabilità, a forza di compromessi al suo interno la destra ha trovato una sua identità: vecchiotta e quindi aderente a una società invecchiata, stanca di conflitti politici senza quartiere, desiderosa di ritrovare e consolidare abitudini e di ricevere rassicurazioni. Alla fine Berlusconi è riuscito a conquistare l’obiettivo di rendersi familiare: l’alto consenso di cui gode dipende dalla tendenza abitudinaria dei suoi connazionali. Se il celebre corrispondente romano del «Monde », Jacques Nobécourt, affermò a suo tempo che la Dc semplicemente «si constata», la sua boutade adesso potrebbe essere virata nello schema secondo cui Berlusconi «si subisce». Con quel tanto di rassegnazione obbligatoria per poter sopportare un’Italia mediocre e conforme alla propria mediocrità, che non vuole saperne di rischiare le proprie rendite, le proprie vendite, le proprie periodiche svendite. Nell’Italia imprecisa dell’inverno fra il 2008 e il 2009, mentre si addensano i segnali della crisi economica, sembra di essere tornati al buon tempo che fu. Un governo senza grandi qualità, il rinvio dei problemi, l’annuncio di soluzioni ex lege. E sul fronte dell’opposizione, un disfacimento che sembra annunciare una resa: perlomeno all’idea che per assistere a una trasformazione dei rapporti di forza occorrerà per l’appunto un fenomeno naturale, un evento eccezionale, una dinamica poderosa e tellurica, qualcosa che favorisca alla fine un cambiamento non soltanto nella politica e nella cultura: semplicemente, un radicale cambiamento di clima. Edmondo Berselli, editorialista della «Repubblica» e dell’«Espresso», ha lavorato a lungo per la rivista «il Mulino», che ha diretto dal 2003 al 2008. Il suo ultimo libro è Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica (Mondadori, 2008).

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