C’è un particolare tipo di milanese, che nei caffè e nei trani a gogò, quando c’erano ancora, chiamano "il veneziano". È l’equivalente lombardo del "fasso tutto mi": un uomo che si sente capace di tutto, di qualsiasi impresa, di qualunque avventura. Nel nostro caso, come si capisce, si chiama Silvio Berlusconi, è nato nel quartiere milanese dell’Isola, e nella vita ha fatto effettivamente di tutto. Ha suonato e cantato sulle navi da crociera con il suo sodale Fedele Confalonieri, ha intonato al pianoforte "La vie en rose" davanti a un allibito Mitterrand, ha costruito dal niente due città satelliti a Milano, si è arricchito e ha creato la televisione commerciale in Italia, formando un impero editoriale che poi gli è venuto utile strumentalmente quando ha deciso di entrare in politica. Nel frattempo, ha deciso che nessuna regola poteva fermare la sua corsa, e per questo ha slabbrato il tessuto istituzionale, distruggendo sostanzialmente l’impianto di pesi e contrappesi su cui si reggeva l’architettura del sistema italiano. Lo ha fatto sempre sorridendo, sempre convinto delle proprie capacità e sorretto dal cinismo dell’imprenditore, che sa fin dove può spingersi e quando ritirarsi, senza alcuna remora etica. Gli affari sono affari, e la politica è un affare. L’ultima prova si è avuta sul pasticcio delle liste a Roma e a Milano. Berlusconi sonnecchiava non si sa dove, indifferente alla crisi, alla politica economica, alle urgenze del governo: quando si è accorto che il caso stava per scoppiare, con evidenti problemi per la tenuta della maggioranza e del Pdl. Allora si è precipitato nella capitale, imponendo di fatto a Giorgio Napolitano l’emanazione di un decreto legge "interpretativo" (ma in realtà innovativo), che interveniva sulla legge elettorale cambiandola in modo da riammettere Renata Polverini a Roma e Roberto Formigoni a Milano. Lo stile di Berlusconi è stato pari alla sua personalità. Materializzatosi con un gioco di prestigio a palazzo Grazioli, ha costretto il presidente della Repubblica, con un confronto molto acceso, ad accettare il decreto legge del governo, appellandosi al fatto che la suprema legge della democrazia è quella che consente ai cittadini di votare per il partito e il candidato prescelto. Già il presidente del Senato Schifani, con un’ardita interpretazione che rovesciava tutta l’impostazione giuridica di un maestro del Novecento come Kelsen, aveva suggerito che in certi casi la sostanza conta più della forma. L’argomento era risibile, e intendeva sostenere che se le firme non c’erano o erano farlocche si poteva farne a meno, secondo un’interpretazione modernista o futurista della legge. Purtroppo l’argomento era irresistibile, e Berlusconi se n’è appropriato, facendolo diventare la parola d’ordine di tutto il Pdl. In questo modo è riuscito di nuovo ad apparire quello che gli piace essere: il Caimano, o il Sultano. È il "solutore di problemi" di Quentin Tarantino, l’uomo che sposta con pochi sguardi tutta l’immondizia di Napoli, il datore di lavoro di Guido Bertolaso. Dietro di lui, vacche sacre che speculano sugli appalti pubblici, fornitori di raccomandazioni, cognati, cricche, tesoretti, diamanti. Ma per Berlusconi non ci sono regole che possano fermarne l’azione: una volta individuato l’obiettivo, "Silvio" non ha remore: i giudici, i pm, i sindacalisti, i politici dell’opposizione, tutti i dipendenti pubblici diventano «comunisti», gente che non ha mai lavorato un giorno nella vita, da spostare ai margini dell’elettorato e da battere sonoramente nel nome della libertà. Con tutto questo, nel nome del pensiero liberale e dell’anticomunismo, Berlusconi ha potuto fare tutto: attrarre strumentalmente l’opposizione in trappola e poi denigrarla dicendo che era pur sempre comunista, capace unicamente di dire dei no, mentre «noi siamo il partito del fare». Alla fine si tratterà di stilare un bilancio, e valutare l’attivo e il passivo della gestione Berlusconi. All’attivo metteremo, paradossalmente, il fatto che abbia governato poco, lasciando l’iniziativa economica nelle mani di Giulio Tremonti e i problemi del welfare in quelle di Maurizio Sacconi, che non hanno fatto danni eccessivi. Al passivo invece metteremo tutte le invenzioni sulla giustizia, a cominciare dalla pagliacciata sul processo breve, sul legittimo impedimento, su tutti i lodi a venire e sulle leggi ad personam per evitare i processi che lo riguardano. Intanto, Berlusconi si gode la formula "pijo tutto", e i sondaggi favorevoli, sia pure appannati negli ultimi giorni, nonostante la depressione economica. Già la crisi: ancora non s’è capito come un capo del governo che gestisce a fatica e senza fantasia l’impoverimento del Paese possa godere di un consenso comunque alto, sbandierato ogni giorno davanti all’opinione pubblica. Qualcuno, per favore, può suggerire a Pier Luigi Bersani che occorre infilare il dito, o il cacciavite, in questa sindrome, e spezzare la "contraddizion che nol consente": declino economico, declino civile, da una parte, e dall’altra acquiescenza verso il governo, con poche manifestazioni di protesta contro i casi più gravi sotto il profilo della disoccupazione. Intanto Berlusconi prosegue nella sua partita ideologica. Ha plasmato la società italiana facendole capire che leggi e regole non sono niente (proprio come il marchese del Grillo, «io so’ io e voi nun siete un cazzo»). E ha mostrato con l’esempio che cosa sia una "politica di sviluppo": evasione fiscale, elusione delle norme, tangenti, appalti teleguidati. Il risultato è che mezza Italia si è convinta di essere dentro una seconda Tangentopoli, e l’altra metà sta pensando a come approfittarne. Il clima, grazie al "fasso tuto mi", è più o meno boliviano. "Silvio" ricorre di nuovo alla piazza e minaccia risultati elettorali spaventosi per l’opposizione. Basteranno alcune settimane per capire se "il veneziano", l’uomo del fare, avrà sfondato del tutto, alle elezioni regionali. E in quel momento capiremo anche qualcosa in più sulla società nazionale, sulla rottura delle convenzioni divenuta regola generale, grazie al formidabile "fasso tuto mi" di Silvio.
18/03/2010
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Impone le sue leggi. Si scontra con il Quirinale. Travolge le istituzioni. Insulta gli avversari. Lascia dietro di sé scandali e problemi insoluti. Con il risultato di portare il Paese nel caos