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PRIMARIE Quando è il confronto a decidere il leader

22/10/2009
DIARIO DI REPUBBLICA
ome si decide la guida di un partito? C' è il metodo plebiscitario con il richiamo al popolo e il confronto tra candidati veri che non si risparmiano le critiche

Secondo le concezioni più futuribili, il Partito democratico doveva essere una entità volatile e "postpolitica", che aveva scelto deliberatamente di uscire dai vincoli organizzativi novecentes c h i : u n p a r t i t o s e n z a territorio, senza tessere, con leader selezionati dai media, e alla base costituito solo dagli elettori. E invece con le primarie di domenica 25 ottobre il Pd offre una dimostrazione di realtà, di radicamento, di mobilitazione. Diecimila seggi, un numero di volontari che si avvicina ai 70 mila:a un partito allo stato gassoso non sarebbe mai riuscito uno sforzo organizzativo simile. Ma ancor prima di questi numeri va rilevato che questa volta ci si trova di fronte a primarie vere, con una competizione autentica fra i candidati. Nelle occasioni precedenti si era trattato di una incoronazione, come nel caso di Romano Prodi alle primarie di coalizione del 2005, che comunque avevano portato ai seggi una folla inaspettata, oltre quattro milioni di sostenitori (che avevano trovato nel voto delle primarie anche una sorta di rivalsa contro l’ avvelenamento dei pozzi praticato a fine legislatura dal centrodestra, con l’ approvazione unilaterale del "Porcellum", la legge elettorale progettata da Roberto Calderoli). Oppure, come nelle primarie di partito del 2007 che insediarono alla guida del Pd Walter Veltroni, si era trattato di un voto con cui gli elettori di centrosinistra avevano tentato di reagire alle frustrazioni provocate dal governo dell’ Unione con le sue divisioni interne. Oggi invece siamo davanti a una prova inedita per la politica nazionale. Il Pd è contendibile. Ci sono tre candidati, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani e Ignazio Marino, che dopo essere stati votati dagli iscritti ora si sottopongono al giudizio dei cittadini, accettando il rischio del giudizio popolare. In effetti l’ esperimento del Pdè insidioso, dato che al livello del ceto dirigente e nelle articolazioni locali mette allo scoperto le diverse componenti del partito, nonché il residuo di culture ancora conflittuali. Ma di riflesso le primarie mettono in luce la differenza abissale fra il Pd e il Popolo della libertà. Nel centrosinistra infatti si assiste a un laboratorio di democrazia diretta, mentre il centrodestra continua a essere legato a una concezione proprietaria e plebiscitaria. Nel Pdl, nessuno può mettere apertamente in discussione la leadership di Silvio Berlusconi; inoltre non esistono procedure che selezionino per via democratica il ceto dirigente. Nel partito del Cavaliere la politica si riassume nella cooptazione e nel meeting, cioè in scelte personalistiche e in assemblee che ratificano fra musica e ovazioni i proclami berlusconiani. Si può certamente criticare la complessità bizantina dello statuto del Pd, soprattutto nella parte che mette in possibile contrasto il voto "interno" dei tesserati con il voto "aperto" delle primarie. Che cosa accadrebbe se nelle primarie il vincitore annunciato Bersani venisse scavalcato da Franceschini? Questa contrapposizione potenziale potrebbe essere fonte di attriti insostenibili per un partito alle prime prove, le cui diverse anime tentano faticosamente di fondersi in un corpo nuovo. Tuttavia, auspicate tutte le correzioni possibili, non si può fare a meno di notare che il voto popolare ha una funzione chiara, quella di smontare le cordate organizzate, togliendo di mezzo i sospetti che si sono addensati soprattutto su alcune aree territoriali del Sud, dove l’ abitudine al traffico dei pacchetti di tessere a vantaggio di questo o quel candidato non è mai venuta meno. In secondo luogo le primarie "aperte" dovrebbero rappresentare un contributo al cosiddetto "rimescolamento". Uno dei problemi costitutivi del Pd infatti è costituito dal persistere di blocchi politici legati al passato: cattolici, laici, ambientalisti, socialdemocratici. Con ogni probabilità, per rimescolare le carte (e le appartenenze) non è stata sufficiente l’ adesione alla mozione Bersani di esponenti cattolici come Enrico Letta, Rosy Bindi e Marco Follini (così come il sostegno al cattolico Franceschini giunto da ex comunisti di spessore, vedi Piero Fassino e Sergio Cofferati): questi sono endorsement che riguardano in special modo la classe dirigente del partito e semmai si riflettono a cascata negli apparati politico-burocratici nazionali e locali. Invece il voto di massa, scarsamente influenzato da valutazioni tattiche, contiene chiari elementi di immediatezza politica, se non proprio di emotività, che lo rende più "sincero", e quindi meno influenzato da calcoli opportunistici. Proprio per questo è lecito augurarsi che le primarie del Pd registrino una partecipazione alta, oltreché un risultato netto. Perché dalla partecipazione e dal risultato dipenderà la fisionomia del maggiore partito di opposizione, e nel medio periodo la sua potenzialità alternativa rispetto allo strapotere berlusconiano. Cioè è in gioco un fattore essenziale per la qualità della nostra democrazia. Il livello della partecipazione sarà essenziale anche per dissolvere il fumus di diffidenze e scetticismi sollevato per mesi da oppositori esterni e interni. È vero che le mozioni congressuali non hanno suscitato entusiasmo, e la discussione pubblica dei candidati è apparsa spesso autoreferenziale. Ma a questo punto il successo delle primarie è un elemento strutturale per il nostro sistema democratico: quasi quasi, in questa occasione conta più il meccanismo che il risultato.

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