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Partito democratico o partito ipotetico

05-06 2008

Il commento al risultato ottenuto dal Partito democratico alle elezioni del 13- 14 aprile 2008, e ai suoi riflessi più generali sullo schieramento di sinistra, non è così semplice come potrebbe apparire. O meglio, risulta facile se si applicano criteri di misura modellati su un pregiudizio. Uno di questi pregiudizi recita: oggi l’ala sinistra dello schieramento politico è ridotta a una minoranza con scarse o poco prevedibili possibilità di rivincita, quindi non possono esserci dubbi, la sconfitta è stata catastrofica, e può dare luogo a un lungo periodo di irrilevanza politica. Il pregiudizio opposto sostiene che il Pd, come argomenta ripetutamente Walter Veltroni, è riuscito a proporsi come «il motore riformista» della politica italiana, raggiungendo una dimensione non dissimile da quella dei principali partiti progressisti europei; il brevissimo tempo avuto a disposizione, le pessime condizioni competitive, l’ombra proiettata dal governo precedente hanno impedito di completare quello che comunque costituisce in termini relativi un risultato positivo. Ma prima di osservare e giudicare le ripercussioni reali che il voto ha avuto sul centrosinistra e sulla sinistra, è il caso di guardare in primo luogo all’esito «sistemico» delle elezioni: e sotto questo punto di vista non si può negare che l’effetto è stato davvero spettacolare. Come Veltroni ha sostenuto durante la campagna elettorale, lo strappo solitario del Pd, imitato dalla decisione di Silvio Berlusconi di unificare Forza Italia e Alleanza nazionale nella nuova sigla «Popolo della libertà», ha realizzato sul campo, operativamente, quella razionalizzazione dell’ambiente politico che era stata invano inseguita attraverso le riforme elettorali e istituzionali. Secondo una lettura in positivo di questo esito, l’infinita transizione italiana ha raggiunto quindi una prima tappa. In effetti la semplificazione della rappresentanza parlamentare è stata fortissima, e nonostante una legge elettorale di persistente cattiva qualità si è determinata una chiara maggioranza nel Parlamento. Purtroppo per il centrosinistra, si tratta di una chiara maggioranza di destra. In sintesi, quello praticato da Veltroni, segretario del Pd e candidato alla guida del governo sulla scia delle primarie democratiche dell’ottobre 2007, si è configurato come un «sacrificio di regina»: la separazione, definita consensuale, con la sinistra antagonista ha condotto alla scomparsa dei partiti raccolti nel cartello «arcobaleno», che sono stati ridotti a una dimensione extraparlamentare; a sua volta, il Pd non è riuscito a rastrellare consenso al centro del sistema politico, conquistando alla fine soltanto un terzo dell’elet torato. Ha preso a circolare una battuta liquidatoria: «L’operazione di Veltroni è riuscita, ma il paziente è morto». Il capo della destra, Silvio Berlusconi, ha sintetizzato nel suo modo sbrigativo: «Sono cambiate le condizioni: prima c’erano due metà del Paese, contrapposte, per cui occorrevano il dialogo e la condivisione; adesso siamo all’incirca due terzi contro un terzo, e quindi per la nostra parte è venuto il momento della decisione». Per quanto sbrigativa, l’osservazione berlusconiana descrive con sufficiente precisione la struttura attuale della politica italiana. Oggi il centro e la sinistra riformista, vale a dire il perimetro delle forze politiche su cui si è basato l’equilibrio politico della Repubblica italiana a partire dai primi anni Sessanta, rappresentano una entità minoritaria. La razionalizzazione ha avuto luogo, ma gli effetti non sono stati quelli attesi dai promotori del Partito democratico. Silvio Berlusconi «scende» nell’arena pubblica agli inizi del 1994, provocando un effetto immediato di polarizzazione della competizione politica. O si diventa ferventemente berlusconiani o ci si oppone al ruolo che il tycoon televisivo ha voluto assumere. Di qua o di là è l’unico schema accettato e assimilabile dalle forze politiche, salvo la brevissima e sfortunata esperienza del Patto per l’Italia di Martinazzoli e Segni, che alle elezioni politiche del 1994 tentarono di collocarsi al centro del sistema politico, finendo praticamente stritolati dalla dinamica bipolare e sacrificando oltre sei milioni di voti in cui si era rifugiato il consenso democristiano, oltre a un discreto numero di elettori laici che avevano voluto sottrarsi al nuovismo berlusconiano e all’ipoteca post-comunista della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto. Per tredici anni dopo la caduta del Berlusconi primo, vale a dire dall’ingresso nella politica attiva di Romano Prodi, una parte della società italiana ha tentato di opporsi al berlusconismo montante, e alla strategia di alleanze realizzata dal capo di Forza Italia, cercando una rappresentanza conforme alle proprie ispirazioni culturali e aggrappandosi all’idea di poter costruire uno strumento politico originale in grado di proporre una modernizzazione «saggia » del nostro Paese. Nacque da questo presupposti l’Ulivo, cioè l’innesco della fusione fra ex comunisti, laici riformisti e cattolici progressisti che alla fine di un itinerario piuttosto tortuoso avrebbe condotto alla formazione del Partito democratico. L’esperienza politica dell’Ulivo avveniva all’interno del sistema parzialmente maggioritario, il cosiddetto «Mattarellum», basato sul sistema a collegio uninominale. Alle elezioni del 1996 il centrosinistra vinse le elezioni, in seguito alla rottura della Lega nord con il blocco costituito da Forza Italia e An. Cinque anni e tre governi dopo, il centrodestra si riunificò vincendo le elezioni, e Berlusconi riconquistò Palazzo Chigi. Una legislatura più tardi, la sofferta affermazione elettorale del centrosinistra, ribattezzato «Unione», alle consultazioni del 2006 diede luogo a una problematica maggioranza e a una tormentata vicenda governativa. Il resto è storia di questi mesi. Ma se si passa in rassegna l’arco degli ultimi tredici anni, ponendosi a una distanza critica adeguata, si ha la sensazione che la politica del centrosinistra sia stata costantemente modellata da un’intenzione e un problema. L’intenzione consisteva nel trovare una formula politica che consentisse un’azione efficiente di contrasto competitivo alla potenza politica e mediatica della coalizione berlusconiana. Il problema derivava dalla storia di una componente fondamentale del centrosinistra, cioè la sinistra post-comunista, che secondo alcuni non aveva mai condotto fino alle conseguenze più vincolanti la propria revisione ideologica (si può condividere o avversare questo giudizio, ma dal momento che l’ascendenza comunista è impugnata dagli avversari come un’arma politica, il problema esiste a dispetto di qualsiasi assoluzione soggettiva). Poiché la competitività elettorale del centrosinistra dipendeva, alla fine dei conti, dalla possibilità di unire non solo tatticamente la sinistra democristiana e gli eredi del principale troncone del Pci, la questione effettivamente strategica consisteva nell’individuare un punto di equilibrio in grado da fungere da fulcro di una mediazione possibile; e da un’immagine, un volto da esporre in pubblico come ritratto della sintesi avvenuta fra le due vecchie subculture politiche. Questo punto di mediazione fu individuato nella figura di Romano Prodi. Viceversa si può sostenere che Prodi si ritagliò questo ruolo. La questione non cambia in modo significativo. Invece può apparire singolare che un progetto politico presumibilmente di lunga durata potesse fondarsi soltanto su una persona, e addirittura su una faccia, su uno stile umano, sulla familiarità di un modo di essere. Eppure, la crisi della sinistra dopo la sconfitta nel 1994 era tale che le ragioni della tattica tendevano inevitabilmente a prevalere su quelle delle ipotesi strategiche. Il tempo stringeva, la spregiudicatezza del centrodestra si faceva sentire sconvolgendo le convenzioni politiche consolidate: occorreva quindi una risorsa politica immediata, spendibile a breve nel mercato politico; e Prodi, con l’Ulivo inventato da Arturo Parisi, rappresentava una carta potenzialmente efficace per raccogliere il consenso anche delle fasce sociali moderate. Alle elezioni del 1996 il risultato fu eccellente, soprattutto perché la componente post-democristiana dell’Ulivo, sotto il volto rassicurante di Prodi, convinse buona parte del mondo cattolico che la modernizzazione in chiave ulivista, rispettosa degli equilibri sociali, attenta alle compatilità interne, ancorata alle istituzioni europee, aliena da estremismi ideologici, era più accettabile dei progetti e delle «ricette» del frettoloso neoliberismo berlusconiano. Nelle parrocchie molti sacerdoti indissero una sorta di catechismo elettorale, e i movimenti di base si mobilitarono contro il materialismo edonista del centrodestra (come aveva detto lo scrittore cattolico Vittorio Messori, una personalità tutt’altro che tenera verso la sinistra, «per le televisioni di Berlusconi Dio non è neanche un’ipotesi»). L’alta gerarchia ecclesiastica, a cominciare dal presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, rimase perplessa, ancora incapace di riaversi dalla scomparsa del partito che aveva incarnato l’unità politica di cattolici. Con la preziosa e partecipe collaborazione di Carlo Azeglio Ciampi, Prodi condusse una fruttuosa opera di risanamento dei conti pubblici al fine di rientrare nei parametri di Maastricht. Non appena conseguito questo scopo, il suo ruolo fu giudicato superfluo: nell’«ottobre nero» del 1998 il ritiro della fiducia da parte di Rifondazione comunista, insieme con qualche modesta cospirazione trasformista in Parlamento, portò a Palazzo Chigi il leader del Pds Massimo D’Alema, con la conseguenza spiacevole di confermare, almeno agli occhi degli scettici, che il volonteroso Prodi era in effetti soltanto «la maschera dei comunisti». Ma l’intuizione di Prodi e dei consiglieri più vicini non era sbagliata, a dispetto di alcuni verdetti di condanna che, talora in modo sprezzante, sono venuti dall’area cattolica e democristiana (più volte Francesco Cossiga trovò modo di definire «un imbroglio» l’invenzione dell’Ulivo), come pure da chi riteneva necessario legare il nuovo centrosinistra al pilastro di un partito di chiara matrice socialdemocratica. La ragionevole obiezione degli ambienti vicini a Prodi consisteva nell’osservare che rispetto all’evoluzione di altri Paesi europei l’Italia aveva conosciuto uno sviluppo traumatico: il sistema politico si era disintegrato agli inizi degli anni Novanta, con l’autodistruzione di Tangentopoli. Il sistema della scoppoliana «Repubblica dei partiti» era imploso, le subculture erano evaporate, cosicché risultava velleitario puntare su una rinascita socialdemocratica, dal momento che, dei due principali partiti della sinistra, l’uno, il Partito socialista, si era volatilizzato, e gli eredi dell’altro, il Partito comunista, non avevano mai accettato né assimilato una cultura fondata sui principi (ovvero «i compromessi al ribasso») del socialismo democratico. Anzi, durante l’intera vicenda repubblicana la sinistra comunista e la cultura a essa collegata aveva concepito ufficialmente il riformismo socialista come una posizione politica rinunciataria, una sostanziale abdicazione ai principi storici del movimento operaio guidato dal Partito comunista. Anche nei momenti di maggiore assunzione di responsabilità sul piano nazionale, il Pci non aveva rinunciato ufficialmente ai capisaldi della sua impostazione teorico-pratica, il centralismo democratico e la lotta di classe. Se un approccio socialdemocratico era praticato nella realtà, e con buoni risultati pratici come nel caso delle amministrazioni rosse in Emilia-Romagna, risultava tuttavia impossibile formalizzare una svolta esplicitamente riformista. Nessuna Bad Godesberg era mai stata alle viste fino al 1989: nonostante la «via nazionale al socialismo», e malgrado le aperture dell’eurocomunismo ai tempi di Enrico Berlinguer, nonostante il compromesso storico, le dichiarazioni di accettazione della Nato e tutto l’armamentario del Pci «colonna della democrazia italiana», la sensazione di superiorità etica, politica e culturale, tutto ciò che sanciva la «diversità» comunista, rifiutava di contaminarsi con il pragmatismo compromissorio delle socialdemocrazie. Si aggiunga poi che la frantumazione della Democrazia cristiana, ovvero lo strumento politico della cosiddetta «unità politica dei cattolici» aveva lasciato a sinistra una parte minoritaria ma consistente del mondo cattolico. Esponenti di prima fila della Dc, ancora convinti degasperianamente di essere uomini di centro che marciano verso sinistra, animose nipotine della partigia na Tina Anselmi, militanti impegnati nelle organizzazioni di base, nel volontariato e nelle associazioni religiose, semplici fedeli riluttanti ad accettare la visione individualistica e «l’edonismo» della nuovissima destra come orizzonte naturale della politica a venire, e talvolta sinceramente inquieti davanti al luccicante materialismo del mondo di Berlusconi, erano rimasti «intrappolati» a sinistra, volenti o nolenti, per convinzione, per caso, per calcolo o semplicemente per necessità. In un contesto modellato dal sistema maggioritario, in cui si profilava con nettezza un approdo bipolare, occorreva dunque pensare a come trovare una casa comune ai socialisti mancati e ai cattolici naufragati: cioè un abbozzo di cultura comune, la prospettiva di una formazione politica unitaria; e intanto la creazione di un sistema di alleanze che risultasse competitivo e potesse frenare il dilagare del berlusconismo. Alle elezioni politiche del 2001, ricucita grazie alla diplomazia creativa di Giulio Tremonti la lacerazione con la Lega, la Casa delle libertà aveva vinto senza troppe difficoltà, a dispetto di una buona campagna condotta da Francesco Rutelli, che aveva condotto il centrosinistra a ridosso dei vincitori, almeno nel calcolo del voto nei collegi (nella parte proporzionale il vantaggio del centrodestra era molto più pronunciato). Per diversi aspetti si può sostenere che i faticosi cinque anni del governo Berlusconi sono serviti al centrosinistra per formalizzare il perimetro dell’Unione e porre le premesse per la costituzione di un’entità maggioritaria di carattere riformista, destinata con il tempo a sfociare formalmente nel Partito democratico. Mentre Prodi completava il suo mandato alla Commissione europea, venivano condotte le prime prove di unificazione fra la Margherita e i Ds, insieme ad altre formazioni minori (alle elezioni europee del 2004, con esiti non entusiasmanti ma, date le condizioni di contesto, nemmeno scoraggianti); nello stesso tempo cominciava a delinearsi per l’alleanza di centrosinistra un formato «largo», esteso fino ai verdi, ai Comunisti italiani e al partito maggiore della sinistra radicale, cioè Rifondazione comunista. Non si è trattato di un processo sempre lineare. In numerose occasioni sono emerse tensioni fra il centro e la sinistra «antagonista», così come l’iter di unificazione fra gli ex popolari, prodiani e Ds ha conosciuto alti e bassi. Con ogni probabilità a dare l’impulso decisivo alla creazione dell’Unione è stata la combinazione della nuova legge elettorale approvata dal centrodestra nel finale della legislatura e dalle primarie del centrosinistra nell’ottobre 2005. La legge elettorale attribuita al leghista Roberto Calderoli, con impianto proporzionale e premio di maggioranza alla coalizione vincente, è apparsa immediatamente come un tentativo di imbrogliare i giochi, precostituendo condizioni di sostanziale ingovernabilità per il centrosinistra, che sembrava destinato ad aggiudicarsi agevolmente il confronto elettorale. Le primarie di coalizione sanzionavano i confini di un’alleanza politica che comprendeva Rifondazione comunista, il cui segretario politico figurava tra i candidati in lizza, a conferma di un percorso di istituzionalizzazione del partito che sarebbe diventato evidentissimo dopo le urne, con l’elezione di Fausto Bertinotti alla presidenza della Camera. Poteva essere questo l’avvio della stabilizzazione dei due poli politici, e quindi dell’intero sistema politico italiano? A dispetto di una formula elettorale farraginosa e intrinsecamente contraddittoria, lo schema sembrava effettivamente un passo in avanti verso quella razionalità e linearità che si cercava di raggiungere, con fatica sempre maggiore, a partire dai referendum elettorali del 1991 e del 1993. E allora a che cosa si può attribuire il fallimento della legislatura avviata nel 2006? Per comprenderlo è utile ripercorrere almeno sommariamente lo sfondo su cui si svolsero le elezioni politiche. L’Unione si era accostata al voto con la sostanziale certezza di vincere senza particolari difficoltà. Infatti il governo guidato da Berlusconi era circondato da un discredito diffuso. Anni di crescita prossima allo zero (a fronte di previsioni mirabolanti anche in sede ufficiale, nei documenti di programmazione economica e finanziaria), una gestione inefficace della spesa pubblica, il lassismo sui conti dello Stato, la procedura di infrazione sul deficit da parte dell’Unione europea, il fallimento della riforma costituzionale, avevano gravemente lesionato la credibilità dell’esecutivo. Le «trentasei riforme» del centrodestra avevano un sapore più che altro di propaganda. Il fallimento della coalizione era stato simboleggiato dalla caduta del suo esponente più prestigioso, il ministro dell’economia Tremonti, dopo una serie mortificante di accuse sui conti pubblici «truccati» in cui si era distinto il presidente di An Gianfranco Fini (in realtà, come spiegò Marco Follini, Tremonti venne messo sotto tiro e abbattuto da An e dall’Udc in quanto il ministro rappresentava l’ideologo culturale e il pilastro tecnico dell’alleanza tra Berlusconi e Bossi, grazie al quale si era creato un asse politico che penalizzava gli altri partiti e quindi squilibrava gravemente la coalizione). È superfluo a questo punto ricordare come invece si concluse lo scrutinio dei voti, l’inezia dei 24.000 voti di maggioranza alla Camera, il Senato conquistato rocambolescamente, grazie ai voti degli italiani all’estero, insomma il sostanziale pareggio, non la vittoria attesa (e lasciamo perdere le stridule accuse di brogli, mai provate e in genere smentite dalle verifiche effettuate, lanciate da Berlusconi alternativamente alla richiesta di un governo di larghe intese). Ma non è affatto superfluo invece ripercorrere le prime mosse dell’Unione e poi del governo Prodi. Perché se si può imputare una critica verso il centrosinistra, essa concerne un’interpretazione imprecisa, se non fideistica, del risultato elettorale nonché dei conseguenti rapporti di forza in Parlamento. Le avvisaglie si videro con l’elezione delle tre principali cariche dello Stato. Dopo che Bertinotti era stato eletto al vertice della Camera, senza alcuna difficoltà dai i numeri parlamentari assicurati dal premio di maggioranza, al Senato si dovette assistere a una battaglia molto aspra, condotta sul margine di pochissimi voti e concentrata sulle figure di Franco Marini, candidato dell’Unione, e del senatore a vita Giulio Andreotti, strumentalmente ripescato come candidato di parte dal centrodestra. Dopo alcuni turni di voto e diversi espedienti per rendere riconoscibili le preferenze espresse dai partiti («Franco Marini, Marini Franco…») e impossibili le trasversalità, Marini fu eletto di strettissima misura, rendendo evidente, per chi voleva vedere e capire, che il cammino degli atti di governo al Senato sarebbe stato più che accidentato. Poco dopo, l’incomunicabilità fra i due schieramenti condusse all’elezione unilaterale alla presidenza della Repubblica dell’ex comunista Giorgio Napolitano, votato dall’Unione ma non dalla Casa delle libertà, che quasi all’unanimità depose nell’urna di Montecitorio le proprie schede bianche. Con queste scelte, il centrosinistra dimostrava empiricamente che non c’era nessuno spazio per aprire tavoli comuni o semplicemente di confronto con lo schieramento opposto. Si trattava di una decisione politicamente rilevante, non ben motivata se non con battute scherzose (secondo Prodi la maggioranza ridotta sarebbe stata esteticamente attraente, anzi più precisamente «sexy»), che nasceva con ogni evidenza dalla certezza che l’incubo del ritorno di Berlusconi avrebbe inibito ogni ipotesi di defezione all’interno delle proprie forze parlamentari. Che si trattasse di un convinzione troppo fiduciosa è dimostrato dal costante manifestarsi di dissociazioni, soprattutto in politica estera (ma non solo), che alla lunga resero un tormento ogni voto al Senato e costrinsero il governo a ricorrere di continuo al voto di fiducia accorpando grossi pacchetti di provvedimenti. Ci fu anche un’altra conseguenza, forse ancora più rilevante. La convinzione trasmessa da Prodi che il governo sarebbe riuscito a restare in carica per i cinque anni della legislatura condusse a una politica economica certo di impostazione classica nelle sue modalità, ma, date le condizioni parlamentari, rischiosissima nel caso che per un qualsiasi incidente il governo fosse caduto e la legislatura si fosse interrotta. Con l’applicazione di schemi in sé razionali, anche se un tantino astratti, si decise di produrre nei primi due anni della legislatura lo sforzo severo per risanare i conti pubblici, e per tentare di rilanciare la crescita economica, rinviando alla seconda parte del mandato la restituzione ai cittadini per via fiscale dei benefici ottenuti. Il modello era razionale; forse non era proprio freschissima la percezione dell’andamento economico, visto che il governo programmava misure impopolari entro le coordinate di una congiuntura negativa proprio mentre si profilava un avvertibile miglioramento della tendenza; e purtroppo era irrazionale la situazione parlamentare. Allorché furono indette le consultazioni primarie per scegliere il leader del costituendo Partito democratico, la situazione era descrivibile con questa sintesi: i risultati ottenuti dall’esecutivo erano buoni; la sua popolarità si era inabissata. I conti pubblici erano bonificati, le imprese aveva ottenuto benefici economici consistenti, il livello di crescita del Pil non si registrava da anni, le entrate fiscali sembravano confermare che l’azione contro l’evasione aveva avuto successo. Sul piano internazionale Prodi e Padoa-Schioppa avevano riconquistato un dignitoso rapporto con la Commissione europea; l’iniziativa in Libano aveva riportato l’Italia in una posizione consona alla sua tradizione in politica estera, ripristinando la nozione multipolare che aveva fatto da riferimento dopo la caduta del blocco sovietico ed era stata stracciata da Berlusconi. A che cosa si doveva attribuire quindi la caduta dei livelli di consenso del centrosinistra? Liquidati i lamenti sull’incapacità di «comunicare» del governo come scontati e malriusciti espedienti retorici, le ragioni della disaffezione e della perdita di credibilità sono legate in larga misura alla percezione di impoverimento da parte dei ceti che avevano votato per il centrosinistra. Le misure a sostegno del reddito si erano rarefatte in un pulviscolo di misure poco riconoscibili. Il governo aveva manifestato una sorprendente disattenzione per l’incremento generalizzato delle tariffe. Dopo l’impennata del costo del petrolio, per larghe fasce sociali il prezzo del carburante aveva preso una tendenza più che preoccupante, tale da scaricarsi prevedibilmente sui prezzi. L’aumento del saggio di interesse penalizzava i mutui accesi a tasso variabile. Il caso penoso dell’immondizia a Napoli, una variante moderna e nello stile di Gomorra della medievale infezione di colera negli anni Settanta, aveva gettato molto più che un’ombra sulla qualità della classe politica di sinistra nel Mezzogiorno. A metterla in termini ottimistici, si profilava quindi una fase particolarmente favorevole all’eventuale impegno redistributivo del governo (anche se viziata da una provinciale discussione sull’entità del «tesoretto», cioè un surplus di entrate da distribuire). La caduta di Prodi, dovuta alla defezione di alcune componenti centriste, metteva quindi il centrosinistra in seria difficoltà: non si era avviata, ammesso che fosse possibile avviarla, la parte più gratificante dell’attività di governo; il Partito democratico si era appena costituito, accompagnato da critiche sulla «fusione fredda»; il gradimento del governo era ai minimi. In queste condizioni, il nuovo leader del Pd, il sindaco di Roma Walter Veltroni, doveva inventarsi in tutta fretta una strategia politica ed elettorale. Nel frattempo infatti era fallito anche il tentativo in extremis di formare un governo che gestisse un rapido tentativo di correggere la legge elettorale, giudicata unanimemente inefficace. Berlusconi non voleva rinviare neppure di pochi mesi l’opportunità di giocare contro un avversario indebolito dal crollo del consenso del governo. A sua volta Veltroni doveva cercare di arrivare al voto senza il fardello del giudizio negativo sul governo Prodi, e senza il peso di un’alleanza dimostratasi ingestibile e quindi non più credibile. Aveva una sola strada per uscire dall’impasse: cercare di giocare da solo, tentare la partita eroica. Qualche contatto con Berlusconi, nonostante discussioni speciose su modelli elettorali ispano-tedeschi o tedeschi semplici, aveva condotto a una sorta di accordo non dichiarato: ciascuno dei contendenti avrebbe condotto il confronto elettorale allestendo un’alleanza in formato ridotto. Il leader del centrodestra, dopo avere creato con un colpo di decisionismo individuale il «Popolo della libertà», cioè unificando Forza Italia e An, si limitava a stipulare l’alleanza naturale con la Lega, valutata come un partito regionale, escludendo dal suo circuito la destra di Francesco Storace e l’Udc di Pier Ferdinando Casini; a sua volta Veltroni presentava pubblicamente l’intenzione di «correre da solo», al massimo stipulando un accordo con il partito di Antonio di Pietro e accogliendo infine una pattuglia di rappresentanti del Partito radicale. Che la partita fosse asimmetrica era evidente. Ma Veltroni e il suo staff contavano su alcune certezze presuntive. Una, molto strumentale e di riserva, consisteva nella convinzione che la legge elettorale del Senato fosse così scombinata da impedire una chiara vittoria nelle urne. Anche se il Pd avesse perso, difficilmente il Popolo della libertà avrebbe vinto. L’altra certezza era più sofisticata e più omogenea con la mentalità e la cultura di Veltroni: una campagna mediatica efficace, ricca di invenzioni, fantasiosa, creativa, avrebbe presentato il Pd come il partito della modernità. Interrotto «consensualmente» il rapporto con la sinistra antagonista, i democratici si sarebbero presentati agli elettori come una formazione del tutto nuova, tutt’altro che ostile alle imprese e al mercato, centrata sulla ricerca e la cultura, orientata a promuovere il merito e incline a cogliere tutte le opportunità dell’economia globale. In questa visione, nulla impediva almeno in teoria al Pd di sfondare al centro, presentandosi come l’unico vero soggetto portatore di una modernizzazione razionale per il Paese. Ed è così che, per la durata della campagna elettorale, Veltroni ha esposto dati entusiasmanti sulla grande rimonta del Pd, sulle distanze che si riducevano, sulle percentuali che si assottigliavano, sul «possiamo farcela». Ciò che non veniva detto era che la decisione di «correre da soli» rovesciava tredici anni di iniziativa ed esperienza politica. Mentre si collocava all’interno della logica della legge proporzionale (secondo cui il concorrente più pericoloso è quello più contiguo) e nello stesso tempo poneva l’accento sulla «vocazione maggioritaria» del Partito democratico, Veltroni spingeva ineluttabilmente la Sinistra arcobaleno con le spalle al muro. Mettere la croce sul simbolo del cartello che riuniva la sinistra critica, dai verdi ai Comunisti italiani, dai Ds refrattari a Rifondazione comunista, significava allora sprecare un voto. Se l’obiettivo era comunque cercare di impedire il ritorno di Berlusconi, il voto «utile» era solo quello al Pd. I dirigenti del Pd erano consapevoli dei rischi impliciti in questa scelta? E soprattutto, hanno condiviso tutti senza riserve la decisione di rinunciare allo schema su cui Prodi aveva lavorato per lunghi anni? L’unico dirigente di rilievo a criticare in pubblico la svolta di Veltroni è stato Arturo Parisi. Non sembra comunque che uno scarto così impressionante dalla strategia precedente sia stata vagliata nei suoi aspetti più problematici e nelle sue implicazioni più minacciose. A distanza di qualche tempo, assume l’aspetto della scommessa più che di un calcolo razionale. E si sa che i giochi d’azzardo vengono premiati solo quando riescono. Veltroni ha condotto una campagna di notevole vigore, animata dall’autoprofezia della «più grande rimonta mai vista». Forse poteva sorprendere che una personalità considerata di innato talento nell’uso e nella manipolazione dei media avesse scelto come strategia elettorale la perlustrazione del territorio, visitando una per una le oltre cento province italiane, calandosi nell’abbraccio dei militanti in festa, stringendo mani, suscitando l’entusiasmo che nasce dalla prossimità con il leader. È probabile che anche il calore delle folle e la loro speranza abbia contribuito a distorcere la percezione della tendenza vera dei consensi. Le cronache infatti raccontano unanimi di un’eccezionale partecipazione agli incontri, al Nord come nel Sud, a Varese come a Matera o a Lecce. I sondaggi più riservati continuavano a segnalare una distanza sensibile e non scalfita fra la destra e il Pd. Eppure il leader del partito sosteneva con una convinzione meritoria e contagiosa che i rilevamenti demoscopici non sono in grado di cogliere le tendenze profonde, cioè l’effetto che l’innovazione innescata dalla nascita del Pd e dalla sua corsa solitaria aveva determinato nel profondo della società italiana. L’aspetto più bizzarro di questo forcing mediatico è che sembra avere avuto effetto sui sondaggisti ben più che sull’opinione pubblica. Veltroni è riuscito a convincere le agenzie demoscopiche che la rimonta stava effettivamente riuscendo, tanto che a ogni rilevazione, perfino nelle ultimissime ore prima del voto, venivano fatti circolare dati sempre più promettenti, che potevano preludere a una sconfitta di misura, a un pareggio al Senato (complice il sistema di premi su base regionale), alla possibilità che il Pd risultasse il primo partito. Perfino esponenti di spicco del partito, interpellati confidenzialmente pochissimi minuti prima della chiusura delle urne, lunedì 14 aprile, si professavano fiduciosi di un «testa a testa» aperto a qualsiasi risultato, anche a una clamorosa vittoria. Questa interazione caotica di mitologie, che ha accomunato classe politica, osservatori professionali, notisti, editorialisti, elettori infedeli nelle dichiarazioni all’uscita dai seggi ed esperti di sondaggi, si è protratta fino agli exit poll, ed è stata malinconicamente dissolta soltanto dallo scrutinio delle schede autentiche, allorché la realtà ha ripreso il sopravvento sui fenomeni miticomagici. E il risveglio è stato l’uscita da un sogno per precipitare in un incubo, visto che il Pd non aveva conseguito i risultati che si era proposto, e che a uno sguardo obiettivo il panorama per l’intero arco della sinistra si profilava drammatico. Il «sacrificio di regina» non era servito. Il nuovo partito del centrosinistra non aveva sfondato al centro, presidiato ancora dalle pattuglie centriste dell’Udc, che ha drenato anche il voto di frange cattoliche irritate dall’accordo elettorale con i radicali. Aveva mantenuto all’incirca i voti considerati in dotazione fisiologica ai due partiti fondatori del Pd, cioè Ds e Margherita. La «guerra asimmetrica» con l’alleanza di destra si era risolta con una sconfitta nettissima, mitigata a malapena da un fattore parziale, il successo dell’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Fra l’avvio della campagna elettorale e l’esito del voto non era successo niente; le distanze non erano state ridotte. La grande rimonta, ridimensionata a grande illusione. Si fosse condotta una campagna cocciutamente tesa a difendere in modo «reazionario» l’esperienza del governo Prodi, il risultato probabilmente non sarebbe stato molto diverso. Ma Prodi apparteneva già al passato: secondo Veltroni, era «un uomo di Stato», che «ha risanato il Paese per la seconda volta», ma era stato crivellato dai conflitti interni all’Unione (cioè dalla coalizione larga che Prodi stesso aveva messo in piedi, smantellata dall’oggi al domani dalla svolta veltroniana). E a spingere lo sguardo appena fuori dai confini del Pd si poteva vedere un prezzo ulteriore della prestazione elettorale del Pd, stabilito nel drammatico fixing delle urne dalla liquidazione parlamentare della Sinistra arcobaleno, dissanguata in parte dal voto utile, in parte dalle sirene protestatarie della Lega, in parte ancora dall’astensionismo e dalla dispersione verso le formazioni marginali alla sua sinistra. Perché ha perso, il Pd? Fra le pieghe di una sconfitta così netta si possono intravedere un’infinità di sfumature. Dovessimo esprimere un giudizio grossolano e di estrema sintesi, potremmo osservare che Veltroni è stato efficace nell’articolare il programma per ciò che concerne i diritti civili, le unioni civili, i gay, il multiculturalismo, la tolleranza, il civismo, la lealtà repubblicana, la Costituzione, mentre a destra si prometteva più semplicemente l’abolizione dell’Ici e la detassazione degli straordinari. Il vincitore più vistoso della competizione elettorale, la Lega, ha guadagnato consensi penetrando in profondità sotto il Po grazie all’allarme sulla sicurezza e sui clandestini. In sostanza: Veltroni ha agitato le passioni, Berlusconi gli interessi. Allora, osservato da una prospettiva improntata all’ottimismo, il Pd è un partito che coglie un buon rendimento nelle realtà urbane e metropolitane, anche nelle regioni del Nord, e tocca elevati livelli di consenso fra i ceti del lavoro qualificato, nelle fasce sociali ad alta scolarità, cioè nelle realtà più dinamiche e creative della società italiana. Non è cattivo l’andamento elettorale nei tradizionali bacini di consenso delle regioni rosse; perde pesantemente le elezioni nel Sud, dove sconta l’effetto tragico, di prestigio e di credibilità, della crisi dell’immondizia a Napoli, e il bandwaggoning di vari settori clientelari, che hanno fiutato per tempo il cambio di vento e si sono messi in posizione adeguata. Ma anche l’analisi più sofisticata si arresta davanti alla domanda centrale che si indirizza inevitabilmente al risultato ottenuto dal Pd alle elezioni del 2008 e ne condiziona qualsiasi interpretazione. Vale a dire che quel 33 e rotti per cento di italiani che hanno votato il nuovo partito è soggetto a un’alternativa secca di giudizio. Il Pd può essere effettivamente a) il nucleo originario di un’entità riformista, dotata di un potenziale espansivo, capace di svilupparsi in futuro raccogliendo i consensi di chi chiede una modernizzazione creativa e socialmente compatibile. Ma potrebbe anche essere; b) una forza politica residuale, una specie di riserva indiana priva di vere potenzialità di sviluppo, verosimilmente costretta in futuro ad articolare una rinnovata strategia di alleanze, contraddicendo la scelta di «correre da soli» e vanificando così, o almeno alterando in modo significativo, la decantata «riforma elettorale praticata con i mezzi della politica». A questa alternativa fra a e b non c’è per il momento risposta plausibile. Si potrebbe aggiungere che il Pd si troverà nella condizione di sciogliere altri nodi, fra i quali la collocazione europea del partito fra i gruppi liberaldemocratici e socialisti, e l’equilibrio che potrebbe diventare critico fra i gruppi dirigenti di matrice diessina e centrista-cattolica. Ma si tratta presumibilmente di questioni meno rilevanti. Il problema cruciale è la consistenza effettiva del partito. Partito mediatico, partito liquido, partito volatile; oppure partito solido e radicato nel territorio. Nella prossima stagione politica, la densità e lo spessore del Pd verranno messi alla prova dalla difficoltà dell’opposizione, e poi da appuntamenti politici impegnativi come il referendum elettorale, su cui occorrerà avere una strategia chiara, complementare all’atteggiamento da tenere con la destra sul tema delle riforme istituzionali; e soprattutto con la scadenza delle elezioni europee nel 2009, dove non ci sarà lo spettro del voto utile e che quindi registreranno la ricomparsa di Rifondazione comunista e degli altri soggetti della sinistra oltranzista. Come si sa, la politica ricomincia di continuo. Occorrerà vedere se il Partito democratico è in grado di ripartire. Se i suoi membri punteranno sulla costruzione paziente di un partito vero. Se affioreranno o no nostalgie per le vecchie identità e le vecchie appartenenze. Se qualcuno si prenderà l’impegno di delineare una cultura unificante, che al momento non esiste. Se ci sarà la capacità di fare leva tra le contraddizioni implicite nella coalizione di Berlusconi. Come si vede, i se sono numerosi e l’elenco potrebbe continuare. Per ora, il Pd assomiglia a un partito ipotetico.

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