Prima della crisi di governo, l’esordio del 2008, «anno bisesto», è stato segnato da alcuni episodi dolorosi, situazioni di degrado e momenti di tensione che testimoniano una severa crisi delle istituzioni italiane e della classe politica. Ci riferiamo in particolare alla gravità della condizione igienica di Napoli, in seguito all’apparente incapacità di smaltire i rifiuti prodotti ogni giorno, che sembra riprodurre sotto altre forme il dramma ambientale e sanitario innescato nell’agosto del 1973, quasi trentacinque anni fa, dall’epidemia di colera, che per qualche tempo rischiò di far precipitare il capoluogo campano in una condizione medievale. Nel caso più recente il disastro era percepibile anche sul piano visivo, con evidenti riflessi sul prestigio e la credibilità italiana all’estero: le immagini delle tonnellate di immondizia per le strade conferivano alla città europea di Napoli il colore caotico di certe favelas brasiliane. La crisi letale delle strutture operative e il collasso della catena amministrativa, il disfunzionamento e infine la paralisi e lo schianto dei servizi urbani configurava infatti un caso che di solito si è abituati ad associare nello stereotipo a qualche catastrofe sudamericana fortunatamente remota nel suo folklore. Nello stesso tempo giungeva a un punto limite anche la crisi della politica, con le dimissioni del ministro della Giustizia Clemente Mastella, in seguito a un provvedimento giudiziario restrittivo nei confronti della sua consorte, presidente del Consiglio regionale della regione Campania, e all’apertura di un fronte di indagini verso di lui da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere. Questo episodio, in apparenza minore, sembra sintetizzare in realtà una intera concezione della politica, modellata su criteri evidentemente più attinenti al familismo che all’esercizio di una funzione pubblica, e anche a quello che in epoca democristiana veniva chiamato «spirito di servizio»: una visione pratica della politica al cui centro sta un uomo politico di rilievo locale, detentore di un numero limitato di voti (un pacchetto consolidato valutabile complessivamente intorno al mezzo milione), controllati attraverso «normali» procedure di matrice clientelare, che sono risultati essenziali, come peraltro quelli di altre formazioni politiche a scartamento ridotto, nel calcolo dei voti alle elezioni del 2006 per aggiudicare il successo alla coalizione di centrosinistra, così come in altre circostanze avevano contribuito alla formazione di altre maggioranze o avevano preso parte ad altre esperienze di governo. Ciò che ha colpito molti cittadini è che nella vicenda che ha coinvolto il ministro della Giustizia è affiorata una pratica di cura e gestione delle affiliazioni, delle pressioni e dei favori tale da oscurare il confine della decenza nel rapporto tra la politica e le istituzioni; e più ancora che le procedure adottate nei «feudi» venissero sostanzialmente giustificate dai commenti, non soltanto giornalistici, secondo la regola consuetudinaria per cui «così fan tutti», in quanto evidentemente la politica dovrebbe contenere in sé, per via costitutiva o genetica, un tasso assai elevato di spartizione e prevaricazione, e un codice naturale di comportamenti in cui il livello della moralità coincide con il grado di lealtà personale fra soci di partito, militanti ufficiali e supporter anche informali. Può essere che le cose stiano davvero così, e questa allora potrebbe essere la ragione più autentica per promuovere una radicale privatizzazione dei settori ancora in mano pubblica, dalle ex municipalizzate alla sanità; se non fosse che si possiede pure qualche certezza sul fatto che il mercato e la concorrenza, cioè l’universo dei rapporti del privato, funzionano meglio e con maggiore efficacia quando a essi è sotteso il rispetto delle regole e una rete di convenzioni tale da genera fiducia tra i soggetti attivi sul mercato (il liberismo unito al degrado civico e alla corruzione può condurre semmai a crisi acute di tipo «argentino», tanto per restare nel contesto della metafora sudamericana). Se si aggiunge a queste sommarie considerazioni che pochi giorni dopo le dimissioni del ministro Mastella si è assistito alla condanna penale a cinque anni di reclusione del presidente della regione Sicilia Totò Cuffaro, con l’interdizione dai pubblici uffici, e che questi ha accolto la notizia della condanna, in quanto priva dell’aggravante del favoreggiamento mafioso, come una sostanziale assoluzione, accingendosi a riprendere le sue funzioni pubbliche, risulta naturale cercare di individuare quali sono oggi gli intrecci e le derive di inefficienza che producono lo sfaldamento del sistema politico; e quali eventualmente possano essere i rimedi, dopo che per qualche mese si era osservata quasi con simpatia la ventata di «antipolitica» che alcuni protagonisti come Beppe Grillo avevano sollevato. È legittimo anche essere particolarmente pessimisti. L’altalenante transizione italiana si è alla fine spiaggiata sulla barriera della legge elettorale approvata unilateralmente dalla maggioranza di centrodestra prima che si concludesse la legislatura 2001-2006, la cosiddetta «porcata», nelle parole del suo stesso creatore, il leghista Roberto Calderoli. Piangere sul latte versato non è esattamente un’attività utile, ma fissare alcune imputazioni di responsabilità dovrebbe essere un esercizio appropriato anche ai fini di un bilancio storiografico motivato. Ebbene, quando fu approvata la modificazione «partigiana» della legge elettorale, su questa rivista essa fu definita senza esitazioni una manovra «nichilista», con un riferimento non proprio larvato a un’azione politica più simile a un attentato che non a una riforma. D’altronde furono numerosi i commentatori che videro nell’iniziativa del centrodestra e nell’approvazione della legge Calderoli l’intenzione di «avvelenare i pozzi» prima di un confronto elettorale che si annunciava infausto, ed esporre in tal modo il centrosinistra, dato per vincitore, all’impossibilità di governare, in seguito ai ricatti dei piccoli partiti forzatamente coalizzati a fini elettorali. Queste annotazioni servono anche per chiarire, ancora una volta, che sarà pur vero che «il bipolarismo è fallito», come hanno detto e ripetuto fino alla noia molti degli stessi autori e responsabili del fallimento stesso, cioè i firmatari della più classica profezia autoavverantesi; ma si dovrebbe aggiungere che il bipolarismo è stato generosamente aiutato a fallire, predisponendo tutte le condizioni necessarie perché il fallimento avvenisse, e inceppando alla fine senza troppa fatica il processo di razionalizzazione e stabilizzazione della politica italiana che era cominciato per disperazione civica nei primi anni Novanta, cioè nella stagione dei primi referendum elettorali e durante la tempesta di Tangentopoli. Non ci si doveva poi stupire se in questa condizione di evidente sfaldamento, anche civile, è emersa una vocalità estremistica diretta espressamente verso la politica. Sotto questa luce il caso più eclatante è risultato la polemica di piazza aperta da Beppe Grillo, una delle manifestazioni più riconoscibili di azione di protesta «antipolitica». Tutte le iniziative dell’ex comico genovese, una specie di emulo italiano di Poujade o di Coluche, a cominciare dal cosiddetto «Vaffa Day» tenutosi in piazza Maggiore a Bologna l’8 settembre 2007, contenevano una spettacolare tonalità demagogica e qualunquista, in grado di suscitare rabbia nelle folle: ma nello stesso tempo riuscivano a convogliare sentimenti ormai diffusissimi di avversione verso il governo, e verso i partiti, gli schieramenti di quel bipolarismo così fallimentare. Era un’animosità che si rivolgeva a destra e sinistra senza eccessive distinzioni, ma con l’aggiunta di un’ostilità sentimentalmente ancora maggiore rivolta verso il governo di centrosinistra, a cui nel 2006 era stata attribuita una funzione salvifica rispetto al governo berlusconiano del quinquennio precedente. Era tutto facilmente comprensibile. Ciò che poteva sorprendere, piuttosto, era che la furia della protesta potesse trovare il consenso di personalità insospettabili. È stato il caso per esempio di Giovanni Sartori, cioè il maggiore scienziato politico italiano, che sulla prima pagina del «Corriere della Sera» ha pubblicato un editoriale durissimo, inatteso per uno studioso che ha dedicato la vita a spiegare come la democrazia sia anzi tutto una forma di governo, modellata su istituzioni e procedure formalizzate. Parlava di Grillo, che «ci sa fare», della «casta» descritta in un libro di dilagante successo da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, della terra che trema sotto la classe politica. Sartori usava parole come «putrefazione», ventilava un possibile «tsunami», e concludeva: «Confesso che una ventata – solo una ventata – che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al qualunquismo, al fascismo, e simili». Come si è ricordato, sono quasi vent’anni che si cerca di razionalizzare il sistema politico della Repubblica. Siamo passati attraverso ondate e ventate di populismo, in coincidenza con Tangentopoli e in seguito alle sferzate antipolitiche di Silvio Berlusconi e alle spinte secessioniste operate dalla Lega; sono stati cercati rimedi istituzionali, ossia nella tecnica politico-istituzionale, con i referendum elettorali dei primi anni Novanta, con l’imperfetta legge elettorale semimaggioritaria, battezzata Mattarellum proprio da Sartori, e infine con tentativi ora frettolosi, da sinistra, e ora farraginosi, da destra, di riforma della Costituzione. Che i rimedi siano stati insufficienti è nell’ordine reale delle cose. Ma se fossimo in attesa di un evento sovvertitore, come si augurava Sartori, occorreva avere presente che anche le rivoluzioni alla fine devono creare altre istituzioni. Lo ha insegnato Tocqueville, lo ha spiegato Hannah Arendt. Invece per qualche settimana, anche sulla scorta dello schema di Sartori, e almeno per tutta la durata dell’exploit mediatico di Grillo, è sembrata affermarsi l’idea che il primo obiettivo comune per la società italiana si riassumesse semplicemente nell’abbattimento del suo ceto politico rappresentativo, del governo, di qualsiasi espressione istituzionale contaminata dal virus della malapolitica. Il colpo di grazia, materiale e simbolico, è venuto naturalmente con il disastro dell’immondizia a Napoli, un altro di quegli episodi che sembrano fatti apposta per gettare nello scoramento l’opinione pubblica, anche per l’immagine che trasmettono fuori dai confini (come ad esempio era avvenuto con la strage mafiosa di Duisburg). Perché è risultato chiaro che le tonnellate di rifiuti, gli inceneritori mai impiantati, il contagio della camorra, l’infarto delle istituzioni e la non credibilità dei protagonisti politici locali dipingevano un quadro tragico per l’intero Paese. Ciò che colpiva ulteriormente, assistendo alle discussioni televisive in merito, era il modo in cui personalità politiche di primo piano come Antonio Bassolino, ex sindaco di Napoli ed ex ministro part-time, attuale presidente della regione Campania (dopo essere stato commissario straordinario per i rifiuti), tentavano di sfuggire a imputazioni di responsabilità. Ciascuno di loro, e Bassolino in primo luogo, si sforzava in ogni modo di spiegare come tutte le procedure fossero state rispettate, e come non fosse mai mancata la sua firma o la sua decisione rispetto a una scelta dovuta, a un documento da fare avanzare, a un protocollo da approvare, a un finanziamento da stanziare. Purtroppo i rifiuti continuavano a essere lasciati sul territorio, con Napoli ridotta a una città dei miasmi, fra proteste di popolo e scontri con la polizia. Sembrava esprimersi con compiutezza una mentalità estranea alla «cultura del risultato». Il fatto che montagne di rifiuti per le strade ammorbassero l’aria appariva come un antipatico accidente; ma la sostanza degli atti pubblici doverosamente rispettati stava lì a dimostrare azioni ineccepibili, doveri rispettati, insindacabilità della classe politica. Peccato, avrebbe detto il manzoniano don Ferrante, per l’accidente dei rifiuti. Sembrava insomma che nelle parole dei protagonisti si sintetizzasse una mentalità intera, in cui ciò che rileva è esclusivamente il rispetto integrale delle formalità e dei burocratismi. Una visione ispirata a una concezione idealistica, e al «tanto peggio per i fatti», nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, essa configura un reperto comportamentale spagnolesco, e secentesco, con una fuga dalla responsabilità che lascia stonati, e che di fronte al glamour dell’Italia contemporanea, che si vuole moderna ed europea, e anche opportunamente trendy, può configurare soltanto la sindrome feroce e perfetta dell’abbarbicamento al potere unito indissolubilmente all’abdicazione morale. Sarebbero largamente sufficienti questi elementi sparsi per rendere giustificabile un verdetto senza appello: che poi dovrebbe comprendere nel giudizio anche lo sfilacciarsi della condizione civile, con la percezione sempre più diffusa dello smarrirsi di un senso nella convivenza, e il cedimento progressivo delle strutture preposte a costruire e mantenere le ragioni che presiedono alla vita nella comunità. Di fronte a questo ritratto, cioè alle immagini che i cittadini incontrano e alle sensazioni che essi provano ogni giorno nelle città, nei luoghi di lavoro, sulle pagine dei giornali, nel rapporto con la burocrazia, e in qualunque situazione in cui l’individuo si trova a confrontarsi con lo Stato o con il settore pubblico, ecco, di fronte a questo ritratto in cui le uniche regole sono dettate dalla fatica e dall’emergenza, sembra ormai poco più che un palliativo ricorrere alle soluzioni tecniche. Forse non è più questione di ingegneria. A partire dai primi anni Novanta si è provato a riformare il Paese cambiando le formule elettorali, ma come si è visto la classe politica si è superata nel trovare gli antidoti. Ci voleva molto a capire che votare liste bloccate di candidati scelti dai partiti significava restituire ai partiti stessi un potere insindacabile e prevaricatorio? Lo scorrere del tempo ha mostrato senza possibilità di equivoci che quando il ceto preposto alla cosa pubblica si riappropria senza scarti e senza riserve della politica è in grado di sterilizzare qualsiasi schema razionalizzatore. E in che cosa consisteva il risultato principale delle riforme introdotte nel sistema politico durante la lunga transizione? In sostanza nell’acquisizione che il vincitore delle elezioni avrebbe governato per l’intera legislatura; e nell’idea che il modulo dell’alternanza fosse un bene politico da tutelare, in quanto capace di favorire il ricambio delle élite dirigenti ed evitare quindi la sclerosi degli apparati. Queste idee e procedure sono state facilmente assimilate dai cittadini, che fin dalla tornata elettorale per l’elezione dei sindaci nel 1993, e dall’esordio del sistema semi-maggioritario nelle consultazioni politiche del 1994, hanno mostrato di gradire una formulazione della politica che risultava più chiara, consentiva di verificare subito il vincitore della contesa elettorale, permetteva la formazione leggibile di maggioranze e minoranze, e soprattutto portava all’individuazione di un principio di governo e di responsabilità politica. E va detto per concludere che la grande riflessione politica che ha condotto, di fatto, ad abbandonare il sistema maggioritario è stata tutta elaborata dai corridoi di partito, non dall’opinione pubblica e dai cittadini. Secondo uno scienziato politico come Leonardo Morlino, la richiesta della società italiana di forme maggioritarie «era soprattutto una domanda di efficacia decisionale e, dunque, a favore di decisioni governative e parlamentari più spedite che risolvessero i problemi dei cittadini, ma era anche una domanda di maggiore efficienza amministrativa rispetto a una tradizione di Stato burocratico, esoso fiscalmente e al tempo stesso inadempiente nella fornitura dei servizi. Non era, in realtà, una domanda di un modello maggioritario impossibile da realizzare per la complessità o l’eccezionalità del cambiamento di aspetti di fondo che sarebbero richiesti». Alla fine, va riconosciuto che dopo mille fraintendimenti e aspettative frustrate «il modello consensuale ci appartiene e non è possibile uscirne»1. Se le cose stanno così, soltanto una fissazione intellettuale, o una specie di coazione a ripetere, indurrebbe certuni a insistere sulla via referendaria, alla ricerca di un sistema maggioritario impossibile. Si tratta di una sindrome provinciale, come scrisse una volta Saverio Vertone, irridendo gli astratti furori di certi illuministi: «La astrale democrazia anglosassone che gli azionisti volevano instaurare non esisteva né in Inghilterra né in America, ma solo nella mente di qualche cileno o italiano che doveva compensare con un eccesso di perfezione ideale l’eccesso di imperfezione reale nel Paese nel quale si trovavano e si trovano a vivere». E si può convenire su questa diagnosi osservando che è bastata l’ipotesi o è bastato l’annuncio secondo cui si sarebbe tornati a una qualche forma di rappresentanza proporzionale, ispano-tedesca o del tutto italiana, perché il conflitto politico fra destra e sinistra si stemperasse. Se il detestato avversario diventa un socio, o qualcosa di simile, se insomma il confronto elettorale serve soprattutto per ritagliare quote di potere, la diabolicità maligna degli uni, i comunisti, si attenua, e la perfidia carnivora del Caimano si riduce. Nel sistema proporzionale, comunque organizzato, chi vince non vince mai del tutto e chi perde non è mai sconfitto completamente, in quanto mantiene un residuo di potere di veto. Dopo avere passato alcune stagioni a deprecare, a dispetto di Lijphart, il consociativismo in nome del maggioritario, ecco la virata. Culturale, naturalmente, ma anche comportamentale: perché va da sé che la democrazia consensuale è sempre anche una democrazia negoziale. Ma prima che il realismo politico si cristallizzi in una nuova triste scienza, secondo cui nihil sub sole novi, e quindi la corruzione è sempre esistita, ed è naturale che il consenso venga raccolto con lo scambio e il rapporto clientelare, vale allora la pena di sottolineare che se non ci sono formule tecniche che possano correggere lo spirito italiano alla consensualità, il compito dei riformatori, dei riformisti, insomma di chiunque intenda gestire la modernizzazione del Paese, diventa ancora più complicato. Perché si torna alla condizione in cui ci si trovava all’epoca di Tangentopoli e della lottizzazione estrema, quando tutti davano per fallita, o almeno da riformare profondamente, la scoppoliana «Repubblica dei partiti», senza che nessuno fosse in grado indicare uno strumento per restituirle dignità e credibilità. Rispetto a quell’epoca, non ci sono nemmeno più le culture politiche che si aggregavano intorno ai partiti «storici». Oggi il centrodestra, e in particolare l’area berlusconiana, esprime un eclettismo pragmatista, animato da «valori » enfatici o strumentali, non di rado ancorati a una visione clericale. A sini stra, il Partito democratico mostra ogni giorno l’effetto di tensioni derivanti da ispirazioni culturali e da eredità spirituali contrapposte, senza che sia stato possibile formulare una sintesi riconoscibile. E allora, se mancano le culture, e le idee, come si fa a immaginare un’evoluzione positiva, l’attuazione di riforme modernizzanti, progettate e realizzate a favore della collettività intera, e non solo a favore di gruppi di interesse coalizzati? Chi è affezionato all’idea di una società libera, e capace di auto-organizzarsi, condivide facilmente l’obiettivo di liberare dai vincoli una società sciaguratamente modellata sulle barriere castali, su strutture di potere non contendibili, sull’ereditarietà delle posizioni professionali, sulla logica delle corporazioni, e di privilegiare invece il merito, la concorrenza leale, la competizione sul mercato presieduto dalle regole e dalle autorità preposte al rispetto delle regole. Ma va da sé che un programma di questo genere richiede, solo per cominciare, risorse ingenti da destinare a una scuola rinnovata, una ridefinizione dell’università, un appello al civismo che non esclude l’applicazione severa e rigorosa della legge «uguale per tutti», la verifica dei risultati in ogni settore della burocrazia pubblica, e il ripristino di una linea di comando e di responsabilità in tutte le articolazioni della pubblica amministrazione. In breve, la ricostruzione del rapporto fra i cittadini e lo Stato. Come questo si possa ottenere, mentre la politica è di nuovo sotto scacco, è difficile dire. Ma mentre di fronte all’estrema complessità di questo compito si manifestano nella società italiana pulsioni profonde e non esattamente democratiche, che talvolta sfiorano la configurazione grottesca dell’«uomo forte » o dell’«uomo della provvidenza», e in altri settori sociali si spinge la fantasia fino al solito auspicio del governo di larghe intese, che riunisca «coloro che la pensano allo stesso modo e vogliono fare le stesse riforme», si potrebbe intanto richiedere alla classe politica che faccia uno sforzo di trasparenza, e di recupero di credibilità. Nel pieno degli anni Ottanta, allorché il Partito socialista cominciava a entrare nel mirino di inchieste sulla corruzione, dal centro si tentò di intervenire, con commissari spediti da Roma nelle federazioni locali a cercare di salvare il salvabile. È probabile che nessuno dei leader di partito accetti il paragone con quel passato, e meno che mai con l’era di Tangentopoli. Ma se rispetto alla grande corruzione i tempi sono cambiati, forse oggi il consenso verso i partiti è perfino inferiore. Solo a pensarci, ci sono infinite possibilità tecniche, dal commissariamento alla creazione di comitati etici dotati di visibilità pubblica e pieni poteri operativi, che provino a restituire visibilità e comprensibilità alle decisioni politiche, e se è il caso recidano le obbligazioni perverse generate dall’intreccio con l’economia. La diffusione delle primarie per la scelta dei candidati e dei dirigenti è un altro strumento di disincrostazione delle posizioni consolidate di potere. Un rapporto leale con la stampa, la pubblicità dei bilanci, la chiarezza sui finanziamenti, il confronto pubblico sulla realizzazione dei programmi. Prima di sentenziare che si tratta di acqua fresca, occorrerebbe vedere se c’è qualcuno, fra i partiti, che abbia voglia di inserire nel proprio progetto politico, da subito, uno schema di ricostruzione del rapporto fra i cittadini e la politica. Perché dalla crisi della politica, si sa, si esce soltanto con la politica. Ma sarebbe un fardello troppo grande, per la società del nostro Paese, aspettare che sia la politica da sola a riformare se stessa. L. Morlino, La transizione impossibile?, in Proporzionale ma non solo. Le elezioni politiche del 2006, a cura di Roberto D’Alimonte e Alessandro Chiaramonte, Bologna, Il Mulino, 2007.
01-02 2008