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La tv, la politica e l’antidoto del mercato

03-04 2003

Nello scorso mese di marzo si è constatato senza possibilità di dubbio come la televisione rappresenti un problema politico; e subito dopo come questo problema politico si sia dilatato fino a rivelarsi un severo problema istituzionale. Non che prima potessero esserci tante incertezze in proposito. Ma l’autentica nevrosi che ha sovreccitato tutto il sistema politico durante i giorni che hanno condotto alla nomina del nuovo Consiglio d’amministrazione della Rai è l’esemplificazione più chiara della portata politica che viene attribuita al controllo della televisione pubblica, nel contesto della situazione patrimoniale che investe il presidente del Consiglio; e il processo decisionale che ha condotto alla soluzione del caso creatosi con la caduta del Cda precedente, presieduto da Antonio Baldassarre, costituisce la prova che la questione politica si proietta inevitabilmente, e non proprio con riflessi positivi, sulle presidenze delle Camere, a cui la legge del 1993 assegna la titolarità della nomina. Perché la televisione è una risorsa politica Nell’attesa di conoscere l’esito parlamentare della cosiddetta legge di sistema, messa a punto dal ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, e a cui l’Ulivo oppone i soliti duemila emendamenti, conviene provare a definire alcuni aspetti di fondo, riguardanti l’orizzonte contemporaneo della televisione generalista, nei quali si può riscontrare come agisca l’intreccio fra politica e struttura televisiva. Prima di tutto, è utile chiarire le ragioni per cui oggi la classe politica considera il sistema della televisione, e in particolare l’apparato della televisione di Stato, come una risorsa cruciale per la formazione e il mantenimento del consenso politico. C’è in primo luogo l’evidenza secondo cui l’assetto proprietario delle reti Mediaset, in quanto riconducibile a Silvio Berlusconi, «scarica» sul secondo ramo del duopolio, la Rai, l’interesse essenziale di tutto il sistema politico. Una metà sostanziale della televisione italiana, infatti, non è né contendibile sul mercato né negoziabile in termini politici. Al di là della correttezza giornalistica e dell’equilibrio professionale delle principali figure che gestiscono l’informazione di casa Mediaset, dovrebbe essere chiaro che l’indirizzo culturale, il contenuto e l’orientamento politico delle reti berlusconiane appartengono a una sfera larghissimamente discrezionale. Ciò vuol dire che non esiste nessuna garanzia formale e sostanziale che i telegiornali e i programmi d’informazione debbano rispondere a criteri di imparzialità. Il privato è il privato, e il fatto che la proprietà di mezzo duopolio sia da ricondurre al capo del governo è un semplice incidente della storia politica italiana. È vero che sono state create le norme sulla «par condicio», ma esse sono state attive soltanto durante le campagne elettorali. A sua volta, il pluralismo dei contenuti politici delle reti Mediaset è garantito, ammesso che si possa usare questa espressione, da fattori impalpabili. Nel 1994, conferendo l’incarico di formare il governo a Berlusconi, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si assunse un ruolo di garanzia informale, come se dovesse essere paradossalmente il sovrano a coprire la responsabilità politica del capo del governo; in seguito la legge sulla par condicio ha tamponato il problema alla meno peggio, ma al prezzo di ulteriori rigidità al dibattito pubblico, tali da recare danno alla stessa libertà di informazione, e di favorire ulteriori processi manipolativi. Nel 2002 Carlo Azeglio Ciampi è ricorso allo strumento non proprio ovvio del messaggio alle Camere, e in seguito a interventi tutti ispirati da una preoccupazione acuta per la tenuta del pluralismo nell’informazione. Su questo terreno è arduo immaginare rimedi, se non radicali. Ma poiché il radicalismo dell’eventuale terapia entrerebbe in conflitto con l’interesse di una parte del sistema politico, è più conveniente per il momento limitarsi all’aspetto diagnostico. Un approccio meno scontato potrebbe ad esempio prendere in considerazione le altre ragioni (altre rispetto a un rischio monopolistico conclamato) per cui l’informazione televisiva riveste un’importanza essenziale per la politica italiana. Ora, se è evidente che i grandi numeri dell’audience televisiva costituiscono un fenomeno di rilievo immediato, tale da testimoniare con nettezza il peso potenziale della televisione nella formazione delle opinioni, meno evidente risulta tuttavia per quale motivo dovrebbe esserci una congruenza così forte tra il controllo del medium televisivo e la formazione del consenso politico. Occorre una visione pessimistica della società italiana per immaginarla come una sudditanza indistinta, dominata dalla potenza intrinseca del medium stesso. E in realtà anche le indagini che hanno cercato di misurare l’influsso della televisione sull’espressione del voto, come quelle del gruppo di ricerca ITANES, mostrano una platea segmentata, su cui non è il caso di immaginare un imprinting deterministico delle visioni del mondo proiettate dal sistema televisivo. È vero che ITANES ha mostrato un particolare parallelismo fra il voto per il centrodestra di alcune fasce sociali, in genere «marginali», e la loro esposizione ai programmi Mediaset; ma questo aspetto semmai offrirebbe una spiegazione supplementare dell’accanimento mostrato dalle parti politiche nella battaglia per il controllo dello spazio televisivo residuale, ovvero la Rai. E non spiegherebbe affatto per quale motivo i ceti più moderni e preparati dovrebbero essere inerti davanti al piccolo schermo fino a risultare succubi della sua influenza politica. Un pessimismo di questo tipo è forse concepibile sul piano di una critica sociale di tipo antropologico, o filosofico: le masse televisive «implose nella privacy» si stagliano come una suggestiva immagine di Carlo Galli (La guerra globale, Laterza, 2002), che allude a un universo sociale amorfo, e in quanto tale strumentalizzabile e manipolabile dalla ratio implicita nel processo complessivo della postmodernità. Tuttavia, prima degli esiti finali della grande omologazione, non è inutile concentrarsi su aspetti più circoscritti, attraverso i quali sia possibile una spiegazione almeno parziale del dominio televisivo sulla formazione dell’opinione pubblica. Anche la spiegazione di Giovanni Sartori, secondo il quale la ricerca obbligata dell’audience innesca un meccanismo qualitativamente al ribasso, appare di taglia troppo ingente per essere efficacemente esplicativa di processi più parziali. Sul terreno empirico in questo momento non è in gioco la televisione «cattiva maestra», bensì il complesso di ragioni che designano il peso politico dell’informazione televisiva in una società come quella italiana. Sotto questo profilo, un’ipotesi da valutare è che l’incombere dei messaggi televisivi vada di pari passo con la perdita di autorevolezza della stampa quotidiana. Le ragioni che possono spiegare questo dato di percezione sono numerose, ma una di esse ha un contenuto più «politico» delle altre. Nei quotidiani d’opinione, la necessità dettata da comprensibili motivi di marketing di apparire il più possibile neutrali rispetto al conflitto politico contingente, e generalmente in posizione «terza» riguardo al confronto fra i due schieramenti ufficiali, tende a stemperare le posizioni o a renderle percettivamente irrilevanti: in questo senso, la denuncia delle viziosità intrinseche al centrodestra e al centrosinistra si qualifica agli occhi di molti lettori non tanto come una posizione sopra le parti, ma come un patteggiamento continuo, una compensazione manieristica e alla lunga irritante. Ancora: l’attenzione meticolosa alle minuzie quotidiane della vita politica romana, la spettacolarizzazione del gossip, il retroscenismo, fanno perdere di vista la portata reale del confronto politico; mentre il logorio inevitabile dei commentatori principali, ciascuno preoccupato di non essere identificabile come una figura sbilanciata verso uno schieramento, può rendere irrilevanti le loro posizioni, e condurre il pubblico a una sostanziale diffidenza verso i loro giudizi. Detto a margine, ciò contribuisce inoltre a spiegare il successo – ovviamente di critica – di un giornale come «Il foglio», in quanto il quotidiano di Giuliano Ferrara si propone come il campione di un’informazione partisan, senza dissimulazioni retoriche. O viceversa spiega il successo di mercato dell’«Unità» diretta da Furio Colombo e Antonio Padellaro, che ostenta un atteggiamento critico più estremizzato di quanto non sia la linea del suo partito di riferimento. Su questo sfondo, pur tratteggiato con sommarietà, la brutalità espressiva dell’informazione televisiva assume un segno di forza grandissima. Mentre la carta stampata approfondisce e moltiplica, senza per questo risultare autorevole e credibile, il piccolo schermo seleziona e intensifica, diventando nel medio periodo molto più persuasivo. Oltretutto, si nota facilmente che la televisione si appropria con prontezza degli elementi di novità che appaiono sui giornali, e li proietta in tempo reale nell’opinione pubblica, facendoli diventare ulteriori schegge della propria sfera di contenuti politici e di immagini pubbliche. Quando la televisione «produce» l’assetto politico In televisione il pluralismo è una condizione necessaria ma non sufficiente ad assicurare un’informazione distaccata o «corretta». Le possibilità distorsive offerte dal montaggio, dalla titolazione, dalle scalette dei telegiornali, dalla scelta degli argomenti e dal taglio e dal contesto delle dichiarazioni pubbliche sono talmente numerose per cui la faziosità si può esprimere anche in un prodotto ineccepibile dal lato professionale. Ma non è tutto. Si è dato con bella chiarezza almeno un caso in cui è stato lo stesso formato di una trasmissione politica a sovrapporsi in modo prepotente sul processo politico in corso, assecondando e nello stesso tempo influenzando l’esito di una fase politica. Si ricorderà infatti che nella campagna elettorale del 1994 esistevano tre entità politiche in competizione. Il bipolarismo era ancora in formazione, e sulla scena politica erano presenti l’alleanza capeggiata da Berlusconi, la «gioiosa macchina da guerra» guidata da Achille Occhetto, e il Patto per l’Italia siglato da Mario Segni e Mino Martinazzoli. Ebbene, il clou di quella campagna fu rappresentato dal confronto, quello sì «bipolare» fra Berlusconi e Occhetto negli studi di Canale 5. Con ogni probabilità il polo centrista era stato già sconfitto da un sentimento collettivo, suggerito dai mezzi d’informazione e da molti improvvisati fondamentalisti del maggioritario, secondo cui nel nuovo schema elettorale lo slogan di fondo era «o di qua o di là», senza la possibilità di sfumature intermedie; tuttavia il confronto fra il capo dei moderati e il leader dei progressisti esprimeva anche plasticamente la necessità o l’obbligo di adeguarsi a un principio alternativo, a una scelta esclusiva, alla cogenza aristotelica del «tertium non datur». In chiave di sistema, questo rende manifesta l’importanza strategica dell’accesso all’informazione; d’altronde, è noto che, sottoposti a un test demoscopico, numerosi elettori inglesi negli ultimi decenni dichiaravano la propria disponibilità almeno astratta a votare per il «terzo partito», uscendo dalla gabbia del confronto bipartitico fra Labour e Tory, «se i liberaldemocratici avessero una possibilità di vittoria»: il che dice qualcosa sull’esistenza di barriere all’ingresso del mercato politico-elettorale, dal momento che le chance di successo nelle urne dipende anche dalla presenza e dalla visibilità nel dibattito pubblico, ovvero dall’accesso alla risorsa dell’informazione di massa e dal modo in cui il sistema dell’informazione presenta la competizione elettorale. Come si sa, il polo centrista alle elezioni del ’94 vide sacrificati sull’altare del bipolarismo nascente i propri sei milioni di voti. In seguito, i casi sono stati meno clamorosi, dal momento che la macchina bipolare si era andata assestando, e il confronto si imperniava sui due schieramenti principali: tuttavia non occorre una mentalità particolarmente incline alla dietrologia per accorgersi che l’ampio spazio dedicato dai talk show a Fausto Bertinotti non rispondeva soltanto all’interesse giornalistico per l’oltranzismo sofisticato del capo di Rifondazione comunista, ma aveva come sottoprodotto anche la conseguenza di recare danni seri alla compattezza e alla capacità di attrazione dell’Ulivo. E forse è di qualche rilievo che alle elezioni del 2001 alcuni partiti come L’Italia dei valori di Antonio di Pietro, la Lega di Bossi, il cartello postdemocristiano Ccd-Cdu, e il movimento di Sergio D’Antoni Democrazia europea non siano riusciti a raggiungere la soglia di sbarramento del 4 per cento al proporzionale: un segno della loro irrilevanza numerica o, anche, un prodotto della semplificazione informativa? La lottizzazione di maggioranza Una delle conseguenze più palesi del «bipolarismo non temperato» deriva dal fatto che la formula maggioritaria si è impressa a forza su un’architettura istituzionale, e su quella serie di convenzioni che i giuristi riferiscono alla costituzione materiale, investendone profondamente la tenuta. Ai tempi della scoppoliana «Repubblica dei partiti», la spartizione politica delle posizioni di vertice nell’establishment pubblico e i suoi criteri di attuazione costituivano un sub-sistema pervasivo. Se i partiti di governo gestivano in regime di monopolio pratico gli enti di Stato, con l’Iri e l’Eni che esemplificavano la logica della coabitazione democristiana e socialista, esistevano ampi settori, a cominciare dall’elezione del capo dello Stato per venire agli istituti parlamentari, dalla presidenza delle Camere alle commissioni parlamentari, in cui il ruolo dell’opposizione comunista era riconosciuto e negoziato. La Rai era l’esempio forse più plateale di quella che Alberto Ronchey definì «lottizzazione». La spartizione avveniva per aree di influenza, si delineava nel controllo delle reti, nella direzione dei telegiornali, nelle nomine di tutta la costellazione dell’emittenza pubblica, nelle assunzioni dei giornalisti. Una volta che il metodo maggioritario ebbe travolto il sistema di pesi e contrappesi, risarcimenti e veti su cui si basava la convivenza politica e parlamentare, le ripercussioni furono vistose. Mentre in precedenza la televisione di Stato garantiva un pluralismo contrattuale, in cui il servizio pubblico si qualificava come la camera di compensazione della trattativa politica, la durezza implicita del sistema maggioritario non poteva non squilibrare anche il balance of power televisivo. All’epoca della proporzionale le convenzioni accettate consentivano una rappresentanza sufficientemente congrua con la consistenza dei partiti. Il calcolo dei rapporti di potere permetteva ad esempio una divisione «verticale» delle reti e dei telegiornali, ancorandoli al ruolo dei tre pilastri principali del sistema politico di allora (Dc, Psi e Pci). Sotto i cartelli di appartenenza politica dei vertici, la logica della spartizione e della compensazione dava luogo a una trama fittissima che alla fine produceva un rispecchiamento degli equilibri politici generali. Che il sistema fosse perverso è fuori discussione; ma sembra altrettanto chiaro che l’impatto del maggioritario abbia prodotto l’effetto dell’elefante nella cristalleria. Come se la dittatura della maggioranza si fosse sommata al manuale Cencelli. Il primo presidente del Cda nominato dal Polo delle libertà (con Irene Pivetti e Carlo Scognamiglio al vertice delle Camere), ovvero Letizia Moratti, è passato alla cronaca per avere esplicato un programma di gestione della Rai orientato a rendere la televisione pubblica «complementare» alla programmazione delle reti Mediaset. Il che significa che dal duopolio formalmente competitivo si passava automaticamente a un duopolio collusivo. Quanto al Cda nominato dall’Ulivo, il suo presidente, Roberto Zaccaria, ha interpretato la sua parte proponendosi in modo esplicito all’incirca come un leader politico vicario (per un disinibito editoriale del «Foglio» il suo Cda «è affondato nella più bestiale faziosità elettorale»). Infine, il Consiglio d’amministrazione nominato dopo le elezioni del 2001 ha reso manifesto che la lottizzazione era divenuta doppia, interessando sia le posizioni attribuite alla maggioranza sia le nomine riferibili all’opposizione. La formula del «3+2» ha esordito con la soluzione di per sé grottesca di un presidente che elegge se stesso, sciogliendo lo stallo fra consiglieri di maggioranza e d’opposizione con il proprio personale voto. In seguito la lunga, lenta, interminabile caduta del Cda presieduto da Baldassarre, dopo le dimissioni dei consiglieri di centrosinistra Carmine Donzelli e Luigi Zanda, e poco dopo del centrista ago-della-bilancia Marco Staderini, ha messo in pubblico l’insostenibilità perfino estetica dei criteri di nomina, dei loro risultati pratici e dei loro esiti politici e istituzionali. Il destino della terzietà Per reagire al discredito suscitato dalla fine ingloriosa del Consiglio d’amministrazione dei «giapponesi», del Cda «Smart», i presidenti di Camera e Senato avevano una sola carta: riunirsi in separata sede e uscirne solo con il foglietto con la cinquina dei designati. Ma questa è un’ipotesi astratta, eroica nel modo in cui viene esposta e ragionevolmente impraticabile sul piano empirico. Quando Marcello Pera ha escogitato la trovata di replicare nel Cda la formula che vige alla Commissione parlamentare di vigilanza (con la presidenza affidata a un membro dell’opposizione), almeno in un primo tempo è sembrato che essa non fosse più che un escamotage causidico per sparigliare il gioco. Ma, subito dopo, su quell’intenzione dei vertici parlamentari è sceso un clima di trattativa clandestina. Che cosa fosse accaduto è presto spiegato. Mentre la parte diessina dell’opposizione tentava di tenere ferma una posizione che rivendicava la totale e assoluta responsabilità di Pera e Casini nelle designazioni, il vertice della Margherita si faceva coinvolgere nel negoziato («Sarebbe un errore politico chiudere la porta», secondo le indiscrezioni attribuite a Francesco Rutelli): avanzava terne di candidati, discuteva in silenzio, intravedeva la possibilità di incamerare un vantaggio politico frazionale. Tanto che a nomina avvenuta il diessino Vincenzo Vita avrebbe sintetizzato in questo modo: «Siamo caduti dalla brace nella padella». La designazione a presidente di Paolo Mieli è stata il tentativo estremo di uscire da un groviglio in apparenza inestricabile e ad un tempo lo sbocco politico di questo negoziato condotto sottotraccia. La composizione del Consiglio era stata studiata con una certa accortezza, almeno nel senso che gli altri quattro consiglieri (Francesco Alberoni, Angelo Maria Petroni, Giorgio Rumi, Marcello Veneziani) rappresentavano più che altro un contorno intellettuale alla figura professionale di Mieli. La scommessa consisteva nell’ipotesi che una personalità come quella del direttore editoriale del gruppo Rizzoli-Corriere della sera potesse incarnare il ruolo di garante di tutti gli equilibri politicoculturali intrinseci alla Rai, di gestore diplomatico dei prevedibili conflitti futuri, di ispiratore culturale di una televisione sopra le parti (o meglio, in cui le parti trovassero una continua mediazione). A posteriori, è netta la sensazione che l’attribuzione a una sola persona dell’insieme di queste funzioni fosse all’origine della debolezza della designazione. La nomina del Consiglio inoltre appariva inevitabilmente squilibrata se si considera che, al di là della proclamata autonomia dai partiti dei suoi componenti, non si vedeva nessuna figura che potesse «garantire», secondo il normale codice spartitorio, uno dei partner di governo, ossia la Lega. Non appare un caso che il primo e più violento attacco contro il presidente designato sia venuto dalla prima pagina della «Padania», mentre Umberto Bossi non nascondeva diffidenze spirituali significative rispetto a «Mielig»: «È un sessantottino, e io non dimentico». Tutto il resto, comprese le scritte antiebraiche alla sede Rai di Milano, ha contribuito più che altro ad agitare le acque. La diffidenza se non l’ostilità di Silvio Berlusconi per il direttore nel 1994 che aveva pubblicato la notizia dell’invito a comparire spedito al premier dal pool di Milano, e che nella campagna elettorale del 1996 aveva scritto sul «Corriere » un editoriale inequivocabilmente avverso al Cavaliere, costituiva un ostacolo forse non insuperabile, se si tiene conto delle sperimentate capacità equilibratrici di Mieli; mentre i punti subito rivendicati dal presidente «sotto riserva», cioè la nomina di un nuovo direttore generale, le richieste retributive e l’annuncio del ritorno in prima serata di giornalisti chiaramente d’opposizione come Enzo Biagi e Michele Santoro («Cominciamo bene», aveva commentato Berlusconi), che in un primo momento erano sembrate un test per misurare preventivamente il raggio della propria autonomia, in pochi giorni hanno contribuito a bruciare una designazione che sotto l’apparenza di una solidità ineccepibile conteneva evidentemente una criticità politica rilevante. La caduta della designazione di Mieli, per «difficoltà di ordine tecnico e politico» assecondate dal ticket Bossi-Tremonti, è comunque significativa anche per alcuni effetti collaterali. Secondo le interpretazioni più ottimistiche, l’«invenzione» del Cda presieduto da una personalità d’opposizione ha fatto compiere un passo avanti alla politica italiana. Lo ha sottolineato lo stesso Mieli: «Il mio stato d’animo è quello di uno scienziato che ha assistito ad un esperimento in provetta assolutamente inedito il cui risultato sarebbe stato utile per tutti». E ancora: «In questa settimana è come se nel Paese si fosse manifestato un bisogno generale di professionalità e terzietà. È un segnale positivo e fruttuoso. Resta in piedi un metodo nuovo: per una volta mi è sembrato di vedere venir fuori le parti responsabili dei due schieramenti». Secondo questa tesi, con una decisione di questo genere il bipolarismo italiano dimostrerebbe di non essere più in una fase di «guerra civile». Si sarebbero individuati settori della vita nazionale tutelabili rispetto alla logica dell’occupazione politica maggioritaria. Ma si può immaginare che abbia un futuro una concessione dall’alto determinata da un momentaneo calcolo di opportunità? Che cosa resterebbe delle convenzioni nel momento dell’acuirsi del conflitto politico? Secondo una visione più venata di pessimismo, la rinuncia forzosa di Mieli ha messo in chiaro invece un aspetto ulteriore del rapporto fra politica e informazione televisiva. Questo aspetto ulteriore è la concreta impotenza di quelle posizioni politico-culturali che si fanno ascendere all’idea di «terzietà», cioè di dichiarata distanza dal conflitto fra gli schieramenti, non appena esse vengono a contatto con quell’ambito in cui la politica esprime la durezza delle sue decisioni. La terzietà, o il «terzismo», di cui Mieli è uno dei teorizzatori più assidui e convinti, è un’eccellente disposizione intellettuale, che può esprimersi nelle scelte culturali, nell’osservazione analitica del confronto politico, nella sollecitazione alla maggioranza affinché non cada in tentazioni sfrontate, e all’opposizione perché non si rattrappisca in un aventinismo ostruzionistico. Ma non regge allorché l’esercizio del potere, con le sue divisioni così nette, e con gli attriti anche sul piano personale che implica, porta alla scelta fra un sì e un no, allo sciogliersi traumatico di un’alternativa netta. Per completezza descrittiva si può aggiungere che, in modo simile, si è rivelata illusoria l’idea che a contatto stretto con la politica potessero avere un ruolo prevalente le reti di solidarietà culturale e professionale di cui Mieli è uno degli snodi più importanti nell’informazione italiana attuale. Secondo le prime ricostruzioni, poteva sembrare che la designazione del direttore editoriale del gruppo Rcs fosse il risultato dell’appoggio e del lavorio di un network che oltre a Mieli si estendeva agli ambienti marcati dall’iniziativa politica e di indirizzo ideologico di Giuliano Ferrara e del «Foglio». Anche in questo caso si è visto che il potere di queste reti (di solidarietà professionale, di «complicità » giornalistica con i suoi giochi di sponda) sarà sicuramente utile per costruire un consenso nell’opinione pubblica e anche in alcuni settori della realtà politica, ma si arresta di fronte al primato della decisione politica. Una soluzione radicale Ciò che si è subito dimenticato è che la rinuncia di Mieli e la nomina della Annunziata erano state precedute dalla trovata estemporanea del Cda Baldassarre-Albertoni di spedire Raidue a Milano; dalla resistenza accanita fino alla provocazione dei due consiglieri, che per andarsene hanno dovuto subire la minaccia di una mozione di sfiducia nella Commissione di vigilanza da parte An e Udc; da una sfilata impressionante di candidature, da Enzo Cheli a Ottaviano Del Turco, e nel mezzo da un pazzesco ballon d’essai berlusconiano, che per il Cda spiattellava una cinquina capeggiata dal presidente di McDonald’s Italia, Mario Resca, e alla direzione generale un tale «leghista di governo», ex presidente della provincia di Varese, parcheggiato da Bossi alla direzione del centro di produzione Rai di Milano (funzione che svolgeva da sette mesi). Una «vicenda lunga e grottesca», quella del Cda della Rai secondo «L’Osservatore romano». Sulla scia di questi avvenimenti si è avuta la conferma implicita e definitiva che nelle condizioni date è illusorio pensare che siano sufficienti buone motivazioni di carattere comportamentale per risolvere uno stringente problema politico sistemico. Vale a dire che anche la soluzione individuata con esatto tempismo e con chirurgica esattezza politica dai presidenti delle Camere dopo la rinuncia di Mieli (cioè la designazione come presidente di Lucia Annunziata che si è aggiunta ai quattro consiglieri già nominati, con il via libera di Piero Fassino e la fierissima e ormai inutile opposizione di Francesco Rutelli, costretto ad accettare a denti stretti il colpo della risposta diessindalemiana) segnala una formula che affida alla personalità dei designati, e in special modo della neopresidente, la tutela di tutto ciò che parlando della Rai si associa a termini come «servizio pubblico», pluralismo, autonomia dalla catena di comando politico. Con tutto questo, forse è venuto il momento delle soluzioni radicali, ed è ovvio che come si è accennato in apertura le soluzioni radicali siano politicamente impegnative. Occorrerebbe ad esempio mettere a frutto l’idea che nel nostro Paese il processo di privatizzazione dell’economia pubblica è stato utile non solo e non tanto nel tentativo di snellire un apparato economico e industriale che per molti aspetti era una macchina inefficace; ma soprattutto perché ha sottratto ai partiti un sistema feudale, una manomorta che era il campo ideale per la spartizione e lo scambio consortile. Qualcuno sa immaginare, in uno scenario controfattuale, che cosa sarebbe accaduto se il sistema maggioritario avesse invaso anche il sistema di norme non scritte che prima presiedeva alle nomine nell’economia pubblica, nelle banche, nell’industria di Stato? La domanda grazie al cielo è irrealistica, ma solo perché nel frattempo si è largamente privatizzato. Tuttavia, seguendo la logica che sottostà a questa domanda, è pressoché impossibile resistere alla suggestione che oggi, per ciò che riguarda l’informazione televisiva e la televisione tout court, la «cosa» che assomiglia di più alla libertà, al pluralismo, alla garanzia che posizioni politicamente e culturalmente diverse siano adeguatamente rappresentate è il mercato. Non regole imposte dall’alto, ma il principio della concorrenza, della ricerca di un proprio pubblico, della possibilità di accesso paritario alle risorse pubblicitarie. Se ciò significa una inevitabile diffidenza verso la difesa di «valori» difficilmente precisabili come il servizio pubblico, va tenuto presente, a scanso di equivoci, che mercato significa mercato, e concorrenza significa concorrenza. È vero che alla privatizzazione della Rai si accennava anche nelle «88 tesi» che costituivano l’embrione programmatico dell’Ulivo di Prodi nel 1996. Ma il corollario della richiesta di mercato è che non si risolve il problema del duopolio imperfetto, o del duopolio collusivo, semplicemente mettendo sul mercato la metà del duopolio medesimo. Se mercato dev’essere, che mercato sia. E se questo contiene implicitamente anche la prospettiva dello smantellamento della posizione di Mediaset, non è il caso di menare scandalo per l’attacco alla proprietà privata «inviolabile» o arrestarsi di fronte alla definizione preventiva dell’intrattabilità della pratica. Ciascuno può valutare anche intuitivamente che cosa significherebbe un sistema televisivo con sei-sette protagonisti liberi da filiazioni politiche certificate. È vero che in prospettiva la legge Gasparri modifica le modalità di nomina, prevedendo che il presidente sia indicato dall’azionista pubblico, il ministro dell’Economia, con la ratifica della Commissione parlamentare di vigilanza con la maggioranza «di garanzia» dei due terzi (salvo nuovi interventi riduttivi già profilatisi nell’iter parlamentare). Ed è vero che il futuro può essere segnato da un sistema dell’informazione in cui satellitare, digitale, procedure web, sistema generale delle telecomunicazioni modificheranno le condizioni di mercato attuali, rendendo forse obsolete le considerazioni sul mercato imperfetto della televisione generalista. Eppure, se si accetta la nozione che il pluralismo costituisce una questione di principio, conviene prenderla alla lettera: e cominciare, per l’appunto, dal principio.

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