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La società del cinquanta per cento

09-10 2008

La politica possiede ragioni che non possono essere nascoste o mascherate a lungo, a dispetto delle dichiarazioni fuorvianti dei protagonisti. Nei primi mesi dopo l’insediamento, con alle spalle la vittoria a valanga nelle elezioni del 13- 14 aprile 2008, il governo presieduto da Silvio Berlusconi e sostenuto dall’ampia maggioranza composta dai parlamentari del Popolo della libertà ha cercato di diffondere l’idea che la sua azione andava considerata di matrice interclassista; e talvolta alcuni esponenti del governo e della maggioranza, specialmente coloro che hanno una radice nell’antica area culturale del Psi, esponevano volentieri la l’enunciato, senza celare l’intento di una certa provocazione, secondo cui la politica del Pdl si configurerebbe come una politica «di sinistra», capace di surrogare, se non addirittura di sostituire, le manchevolezze progettuali e propositive dell’opposizione. Non è necessario sottolineare più di tanto la strumentalità partigiana di enunciati come questi. Invece è indubitabile che la primissima parte della legislatura è stata interpretata da Berlusconi e dai suoi collaboratori più stretti come una sfida durissima al Partito democratico e a tutte le opposizioni residue. Per prenderne nota, è sufficiente riandare ad alcune dichiarazioni con cui il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, ha accompagnato la presentazione della manovra finanziaria: «L’Italia possiede un punto di forza: la stabilità politica; che resterà per cinque, dieci, forse quindici anni». Questa considerazione nasce senza alcun dubbio da una valutazione adeguata del voto politico dell’aprile scorso, dei suoi dati numerici e della sua distribuzione geografica; più sottilmente, e in modo più interessante in una prospettiva programmatica, proviene da un’interpretazione strettamente «sociale» del risultato delle urne, vale a dire da un rigoroso riscontro della constituency effettuale e potenziale del Popolo della libertà. Il primo a lanciare l’allarme, nel senso di un allarme politico chiaro e netto, era stato Massimo D’Alema. Nelle condizioni attuali, aveva detto, il Pd rischia di divenire una «minoranza strutturale» all’interno del sistema italiano. Si può certamente valutare con freddezza un richiamo di questo tipo, attribuendolo alle intenzioni più varie: ai disegni personali del leader ex comunista, alla sua convinzione che esistono altre strade oltre a quelle disegnate da Walter Veltroni, oppure anche a quel suo realismo che talvolta rasenta la ferocia intellettuale. Eppure è difficile sottrarsi al riconoscimento che almeno su un punto D’Alema ha ragione: per la prima volta si assiste in Italia al profilarsi di una specie di politica fortemente discontinua con il passato e con la tradizione: con un programma che ha messo al centro della sua iniziativa qualcosa che assomiglia a una nuova guerra di classe, e che può aggregare un fronte politico ed elettorale tale da costituire una sorta di «maggioranza permanente». Qualcosa di simile a un bipartitismo ancora più imperfetto di quello descritto a metà degli anni Sessanta da Giorgio Galli, in cui la maggioranza permanente e la minoranza strutturale disegnano un sistema perennemente bloccato da uno squilibrio troppo forte fra destra e sinistra. Si conviene di solito che di fronte alla politica italiana non è opportuno usare parole troppo impegnative. Tuttavia la novità è nel suo genere straordinaria proprio perché non sono esistiti storicamente in Italia partiti di chiaro stampo neoconservatore, determinati a soddisfare il proprio elettorato e a giocare le proprie chance politiche puntando su provvedimenti sostanzialmente punitivi per l’elettorato degli avversari. Infatti la Democrazia cristiana, vale a dire il pilastro centrale di mezzo secolo di equilibri politici, era un partito di mediazione, articolato in varie correnti distribuite su un’ampia gamma di riferimenti politici, «poliarchico» nella sua struttura interna e territoriale, a cui non si può negare a posteriori una riconoscibile sfumatura pro labour, e che rivendicava comunque una programmatica vocazione interclassista. Invece, il governo di Berlusconi e Tremonti sembra ispirato da un progetto molto diverso, al cui termine si intravede la volontà di trasformarsi in un basamento politico su cui fondare una maggioranza elettorale permanente, selezionando senza inibizioni gli interessi da rappresentare e i ceti da privilegiare. Proprio perché l’iniziativa politica è assai spregiudicata e innovativa, per capire le linee di fondo di questo programma è necessario fuoruscire dal coacervo dei singoli provvedimenti, soprattutto quelli di tipo elettoralistico. Ad esempio, per quanto sia apparsa a molti irrazionale anche in vista di un obiettivo «federale», l’abrogazione dell’Ici costituiva un atto dovuto perché era stata promessa durante la campagna elettorale come un evento rivoluzionario dal punto di vista fiscale; a sua volta, la detassazione (parzialissima fin quasi all’irrilevanza) degli straordinari è una misura insignificante nella quantità e riveste un contenuto più che altro indiziario, alla stregua di un segnale, un messaggio in codice alle imprese che per il futuro aspettano maggiore discrezionalità nel rapporto con la forza lavoro e vincoli operativi meno stretti. Su un altro piano, distinto dall’economia, la campagna su immigrazione e sicurezza (anzi, sul cortocircuito volutamente innescato, con un forcing mediatico, fra immigrazione e sicurezza) ha avuto durante la campagna elettorale e detiene tuttora un valore simbolico fortissimo: basta osservare i telegiornali che mostrano l’esercito in strada e le vecchiette che dicono «vi vogliamo bene» ai soldati. Ma i suoi contenuti, chiarissimi nel tentativo di guadagnare il consenso dell’Italia più anziana e spaventata, saranno da valutare più avanti, fuori dai rumori della cronaca (e dagli incidenti di percorso come i turisti olandesi massacrati nella periferia romana in un casale abbandonato): quando sarà possibile cioè verificare se la politica della destra, dopo avere sollevato allarme sociale, sarà stata in grado di sedarlo con le sue misure di contrasto alla criminalità e all’illegalità urbana; oppure se queste stesse misure, dimostratesi poco inefficaci, non avranno elevato la percezione di insicurezza da parte dei cittadini, innescando il classico circolo perverso dei provvedimenti «esemplari» che contribuiscono a creare, o a rafforzare, ciò che intendevano esorcizzare. Il modello delle gride manzoniane infatti è sempre dietro la porta di casa, con l’infinita serie di complicazioni che esse comportano. Ma è soprattutto con il lavoro condotto dal governo dietro la prima linea, riscontrabile nell’articolazione delle legge finanziaria triennale e nelle decisioni prese nei singoli ministeri, che si delineano gli elementi del progetto politico e sociale del Popolo della libertà: un lavoro che nasce da una concezione della politica marcatamente di destra, senza inibizioni né remore culturali. In sintesi: il Pdl registra con chiarezza una perdita di peso del lavoro dipendente e di tutti i ceti riconducibili nel perimetro del reddito fisso, e quindi la possibilità di creare un blocco sociale di maggioranza che possa confermarsi, come ha ribadito Tremonti «a tempo indeterminato». Si tratta di una dinamica già in atto da tempo, che fra l’altro ha spostato gli equilibri finanziari a favore della rendita e a scapito del lavoro dipendente, ha esaltato le differenze di reddito, ha ripudiato le tendenze redistributive. Evidentemente Berlusconi e la sua maggioranza hanno deciso consapevolmente di farsi imprenditori degli interessi della parte di società che intendono rappresentare. Si prospetta in questo modo un circuito politico che copre all’incirca la metà della società, tanto da poter essere definito come «la società del cinquanta per cento», a differenza della «società dei due terzi» descritta a suo tempo dal socialdemocratico tedesco Peter Glotz, che identificava la blockierte Gesellschaft della Germania e similmente delle società capitalistiche avanzate; e in quanto tale, dentro rapporti di forza non scalfibili da un’opposizione indebolita e incapace di produrre un progetto politico-culturale alternativo, in grado di governare agevolmente contro tutti gli altri ceti dispersi e perdenti. Per conseguire questo obiettivo, a suo modo «storico» nel suo malthusianesimo sociale, Berlusconi si è premunito da ogni possibile sorpresa garantendosi l’immunità giudiziaria, utilizzando in prima battuta la classica operazione del provvedimento «bloccaprocessi», che è servito a introdurre poco dopo la «mediazione» del Lodo Alfano. La tecnica è nota: prima si minaccia l’introduzione di una sorta di arma totale che prefigura la paralisi totale della giusti zia, e poi, con il Quirinale assediato e l’opposizione impotente, si tratta da posizioni di forza. Per molti aspetti si è trattato di un formidabile atto di distorsione delle istituzioni. Utile comunque, a questo punto, per passare alla fase successiva con le retroguardie inattaccabili, ossia per provvedere al processo di creazione di una maggioranza politica e soprattutto sociale stabile, coerente, soprattutto non aggredibile dalle opposizioni. Con un esemplare ragionamento da economista, Francesco Giavazzi sul «Corriere della Sera» del 17 agosto ha scritto che con la sua politica economica il ministro Tremonti, che pure ha evocato spesso lo spettro della crisi del Ventinove, «rischia di ripetere gli errori di Herbert Hoover, il presidente che, nel tentativo di raggiungere il pareggio di bilancio nel mezzo di una recessione, creò le premesse per la grande depressione». Tremonti, ha argomentato Giavazzi, mantiene la pressione fiscale invariata per il triennio di programmazione economica, «al livello elevatissimo al quale l’aveva lasciata Prodi». Si tratta di per sé di una variazione di linea singolare, per una formazione politica che aveva sempre, e gloriosamente, puntato sul «meno tasse per tutti». Tanto più, ha aggiunto l’editorialista del «Corriere», che in questo momento «come ha spiegato con grande chiarezza Guido Tabellini […] ciò che servirebbe è un’energica riduzione delle tasse sul lavoro». Ora, sarebbe superfluo sottolineare che Giavazzi è uno dei più stimati economisti italiani, tanto che le sue proposte di liberalizzazione dell’economia nazionale hanno incalzato gli ultimi governi fino a condensarsi in quella che i media hanno definito «l’Agenda Giavazzi»; e che Guido Tabellini figura spesso (a differenza di suoi colleghi economisti che hanno assunto cariche di governo e che alludono qua e là nostalgicamente ai tempi in cui venivano considerati in corsa per le migliori attestazioni di merito nella ricerca economica), nella rosa dei candidati al premio Nobel. E allora, date queste semplici premesse, si può davvero immaginare che Tremonti sia uno sprovveduto, talmente inesperto di variabili e tendenze macroeconomiche da varare un complesso di riduzioni di spesa che, durante una fase di stagnazione e inflazione, avrebbe evidenti effetti «pro-ciclici», cioè con una seria probabilità di aggravare la recessione? Non sembra proprio un’ipotesi plausibile. Una interpretazione più realistica, almeno in parte, è quella offerta polemicamente dall’esponente del Pd, e ministro ombra per l’economia, Pier Luigi Bersani: il governo sta procurandosi una provvista per affrontare i costi inevitabili della futura struttura federalista, che almeno in una prima fase, anziché i risparmi indotti in avvenire dalla nuova virtuosità dei comportamenti amministrativi sul territorio, provocherà un incremento di apparati e quindi di spesa pubblica. Ma per certi versi sarebbe possibile anche un’interpretazione più forte sotto l’aspetto politico, che attiene proprio all’«ideologia» di destra del governo presieduto dall’onorevole Berlusconi, alcuni dei quali sono stati messi in luce dal contributo di Laura Pennacchi nel numero scorso del «Mulino». Sotto questo profilo, la recessione in atto, quale che sia la sua entità, può costituire un fenomeno inquietante sotto l’aspetto economico generale, ma entro certi limiti potrebbe perfino risultare funzionale al disegno politico del Pdl. È sufficiente rinunciare alla pretesa, o all’illusione, interclassista di governare per il benessere di tutta la comunità nazionale. Il bene comune è una finzione. Conviene invece dividere in due, con una linea netta, la società: da una parte, sommariamente, il già citato reddito fisso, ossia lavoro dipendente e pensionati; dall’altra imprese e lavoro autonomo (professioni, commercio, artigiani ecc.). Per queste ultime categorie sociali, né l’inflazione né la stagnazione devono rappresentare un’inquietudine. Alle imprese è stato subito lanciato il messaggio sulla contrattazione da flessibilizzare, sul lavoro precario da mantenere come risorsa di flessibilità, e perfino su aspetti tipicamente premoderni del rapporto fra imprenditori e lavoratori come la cancellazione della legge che impediva la pratica delle dimissioni firmate in bianco. Alle categorie del lavoro autonomo, che Bersani da ministro aveva tentato con qualche limitato successo di sottoporre a un regime di concorrenza, è riservata di fatto la possibilità di manovrare prezzi e tariffe. Non che il mercato si possa comprimere con i calmieri; ma la scomparsa del contenimento dell’inflazione dalle priorità vere del governo mette allo scoperto la pesante sfasatura, per il reddito fisso e per i contratti, fra l’inflazione programmata, del tutto irrealistica rispetto agli andamenti reali, e l’inflazione reale. In ogni caso è difficile non vedere che i pilastri dell’azione del governo sono due: da un lato l’attacco a tutti gli apparati pubblici, dall’altro il tendenziale smantellamento del contrasto all’evasione. Il primo aspetto ha connotati spettacolari (così come è diventata uno show quotidiano l’azione evidentemente intimidatoria del ministro Renato Brunetta indirizzata verso il pubblico impiego): i trenta miliardi in tre anni di tagli alla macchina pubblica incidono direttamente su scuola, università, sanità, sicurezza, e su tutti gli enti locali, in maggioranza di centrosinistra, che avranno difficoltà consistenti nell’assicurare i servizi programmati. L’altro aspetto, il ritiro dalla lotta all’evasione, è più strisciante. Si compone di provvedimenti invisibili, che non fanno titoli sui giornali, e che non accendono la fantasia dei commentatori. Tanto per chiarire questo aspetto, si può notare che sul «Sole-24 Ore» un osservatore competente come Stefano Micossi ha riconosciuto al governo di avere avviato per il Paese un percorso di «riforme strutturali, capaci di liberarne il potenziale di crescita e modernizzarne le istituzioni obsolete». Prima di accertare se l’osservazione è condivisibile, converrebbe intanto capire se fra queste riforme va compresa anche l’istituzionalizzazione politica dell’evasione, che l’ex viceministro dell’economia, il detestatissimo ma efficiente Vincenzo Visco ha riassunto in questo modo: «Ormai si è convinti che le tasse le debbano pagare solo i lavoratori dipendenti». Modernità o arcaicità? Secondo Visco, per chi volesse farsi un’idea delle misure «anti-antievasione», non c’è che l’imbarazzo della scelta: abolizione della tracciabilità dei compensi, indebolimento delle norme di personalizzazione degli assegni bancari, eliminazione dell’elenco dei fornitori, con l’aggiunta dello smantellamento dello staff ministeriale che aveva lavorato con il governo precedente nel settore della lotta all’evasione fiscale. Sono tutti provvedimenti che lasciano intendere a prima vista un chiaro via libera al sommerso. Spesso giustificati addirittura con la spiegazione secondo cui la difficoltà procedurale degli adempimenti è «criminogena», ossia rischia di produrre ulteriore evasione. Siamo più o meno nell’universo narrativo dello storico Carlo M. Cipolla, quando raccontava che i velieri degli spagnoli trasportavano in Europa dalle Americhe quantitativi di argento due o tre volte superiori a quanto riportato sui documenti di bordo: al che, stanco dell’andazzo, ma incapace di mettere sotto controllo i profittatori, il re di Spagna abolì la bolla di accompagnamento. Quindi, sotto la coltre fumogena di operazioni come la «social card» e un esproprio patrimoniale con annessa strizzata d’occhio no global come la «Robin Tax», comincia a delinearsi una sterzata violenta rispetto al governo precedente. Brutale nei contenuti ma affidata alla prassi più che alla teoria. La teoria parla con espressioni nobili di economia sociale di mercato, richiamando Wilhelm Röpke, gli «ordoliberali» di Friburgo e la politica economica di Ludwig Erhard, ministro del cristiano-democratico Konrad Adenauer (e poi cancelliere del Repubblica Federale Tedesca); la prassi conduce a una strategia sotterranea a favore delle categorie e delle corporazioni autonome. Così sotterranea, questa strategia, così poco dichiarata che nell’opposizione pochi sembrano in grado di cogliere la portata dello choc sociale che è stato innescato. Vale a dire un trasferimento di ricchezza potenzialmente gigantesco, mascherato dietro le filosofie di Tremonti sulla Soziale Marktwirtschaft, sul federalismo fiscale, sulla resistenza «di comunità» alla globalizzazione (va detto che ormai i migliori economisti di destra citano spessissimo con soddisfazione l’economia sociale di mercato, dopo avere citato per decenni i testi sacri della scuola liberista di Chicago; al massimo, quando citano in tedesco l’economia sociale di mercato, si permettono il lusso tutto intellettuale di sbagliare variamente la grafia). Ci sono insomma, e sarebbe opportuno che diventassero assai più visibili, in modo da diventare oggetto di discussione, due linee di confronto, e potenzialmente di scontro durissimo, dell’opposizione con la maggioranza: una corre sul binario di questa redistribuzione regressiva, assimilabile a una qualità intrinseca che non si si sa come definire se non come «castale». L’altra sull’operazione «istituzionale» di tipo federalista. Se volessimo ricorrere a un linguaggio geografico, potremmo dire che a dispetto delle dichiarazioni sulla propria azione «di sinistra», il governo in carica progetta di dividere in longitudine la società italiana fra lavoro autonomo e reddito fisso, e in latitudine le regioni fra il Centro Nord e il Sud. È chiaro che entrambe le iniziative di fondo del governo sono destinate a innescare tensioni fortissime nel tessuto sociale e nazionale. Con la prima, l’attacco al lavoro dipendente e al reddito fisso, il Pdl ha cominciato a costruirsi il suo blocco politico e sociale, e con un approccio paradossale ma vicino alla genialità lo fa con i soldi dell’opposizione, cioè con i soldi degli elettori del centrosinistra. Con la seconda, il federalismo, aprirà verosimilmente un tiro alla fune di drammatica intensità fra Centro Nord e Sud, che potrà essere gestito o lasciando il Mezzogiorno a estinguersi in una penosa carenza di risorse, oppure invece aprendo i rubinetti delle casse pubbliche, cioè a spese del bilancio dello Stato. Nel primo caso sarebbero fortissime le spinte verso una prospettiva che la Lega di Bossi non ha mai abbandonato, almeno psicologicamente, ovvero la tentazione separatista. Nel secondo caso, l’allargamento dei cordoni della borsa, si verificherebbe un attentato materiale alla crescita e quindi al benessere generale della collettività italiana. A fronte di questa politica ci sono alcuni elementi da chiarire. Va da sé che una analisi come quella esposta nelle pagine precedenti non dovrebbe portare la sinistra a identificarsi semplicemente come il luogo di rappresentanza politica del lavoro dipendente. Sarebbe un calcolo miope, più vicino alla difesa di un’identità, per quanto ormai vaga, che non alla creazione di una strategia politica competitiva. Ma non è affatto miope individuare con chiarezza quali sono le linee di contrapposizione fra destra e sinistra, a cominciare proprio dagli interessi materiali in gioco. E sotto questa luce sarebbe anche il caso che la comunità intellettuale, in particolare i political economist, trovassero sedi e ragioni per formulare un giudizio autonomo sulle politiche in atto e sulle loro conseguenze. Di recente si è osservata una sostanziale abdicazione, un atteggiamento che non si sa come definire se non come una rinuncia intellettuale, per esempio rispetto alle posizioni «antimercatiste» espresse da Giulio Tremonti nel suo fortunato pamphlet La paura e la speranza. Può anche darsi che alla fine il calcolo sia miope in realtà anche per la destra: nel senso che la possibilità di sopravvivere, e bene, alla stagflazione può essere stata sopravvalutata. Finora il Popolo della libertà ha avuto buon gioco nel presentare la propria azione secondo un format apparentemente infallibile, che prevede da una parte la stragrande maggioranza degli italiani buoni, lavoratori, attenti al bene comune, e dall’altra parte una esigua minoranza di fannulloni, buoni a nulla, sabotatori. Lo schema è irrisorio per chiunque abbia soltanto una vaga idea dei processi di secolarizzazione, modernizzazione, burocratizzazione descritti da Max Weber, ma tuttavia serve per generare consenso e ammortizzare i dissensi. Tuttavia può sempre verificarsi qualche inciampo, che rende queste narrazioni mitico-magiche inadatte a fronteggiare i problemi reali. Oggi si ha l’impressione che le scelte politiche della destra recuperino il vecchio lassismo democristiano, il clientelismo, il particolarismo, la distrazione fiscale, e li proiettino in una dimensione inedita, in cui il voto economico di scambio e di interesse diviene un fortissimo fattore di stress politico e di identificazione quasi-militante per gli elettori. Ma se è vero che gli interessi hanno sconfitto le passioni, il darwinismo sociale può contenere i germi del proprio fallimento: ad esempio, nel momento in cui flette la domanda aggregata, potrebbe osservare un keynesiano, cioè in presenza di consumi gravemente cedenti, anche interi settori del lavoro autonomo e del commercio subiscono ripercussioni violente dalla crisi. Se si concede soltanto a una parte della società il diritto di arricchirsi ai danni dell’altra, i consumi crollano, l’economia si inceppa. Chissà se questa prospettiva è chiara e presente, nella mente dei migliori cervelli della destra, e di tutti coloro che pensano che il reale è tutto razionale, e che questo, evidentemente, è il migliore dei mondi possibili: a dispetto della recessione, della stagnazione, dell’inflazione, e anche di un paese che non riesce più a crescere.

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