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La Repubblica indistinta

11-12 2005

Mentre cominciava l’ultimo semestre della legislatura, con una iniziativa di repentina efficacia politica il centrodestra ha varato la riforma elettorale in senso proporzionale1. Un provvedimento che trasforma radicalmente, anzi rovescia, le condizioni di sistema è stato portato in Parlamento e approvato da una sola parte politica. Non si sono sentite argomentazioni molto convincenti sul perché una misura così importante, che riguarda una delle leggi fondamentali della convivenza politica, potesse essere approvata in via partigiana. Sono stati suggeriti riferimenti alle decisioni «fiorentine», cioè machiavelliche, di François Mitterrand, che alla metà degli anni Ottanta introdusse la formula proporzionale per fare emergere la destra lepenista e danneggiare così lo schieramento moderato rivale alla sinistra francese. Si sono sentite asserzioni fra il possibilista e il tassativo, nel centrodestra, sulla piena praticabilità di una riforma elettorale nella parte conclusiva della legislatura, in base al principio che le leggi in materia si cambiano alla fine, perché se venissero modificate agli inizi del mandato il Parlamento eletto ne sarebbe immediatamente delegittimato. Quale che sia il valore effettivo di questi postulati della costituzione materiale (in cui si sono distinte alcune figure politiche che in passato avevano sostenuto con calore il sistema maggioritario e tutte le sue implicazioni comportamentali), essi sono comunque marginali. Perché il punto in discussione è un altro. Prima di tutto occorreva spiegare ai cittadini per quale motivo il movimento di opinione dei primi anni Novanta, che aveva dato luogo a due referendum, in seguito ai quali le basi del sistema proporzionale erano state abbattute, aprendo le porte all’approvazione della legge maggioritaria, era stato a sua volta abrogato, attraverso un motu proprio politico dell’attuale maggioranza parlamentare. Già, perché? Perché l’addio così estemporaneo alla competizione fondata sul sistema uninominale? Con ogni evidenza, che l’opinione e il comportamento dei cittadini non contino nulla dev’essere un principio fondamentale della politica contemporanea: altrimenti non si spiegherebbe come sia stato possibile sottrarre al corpo elettorale, all’intera società italiana, il giudizio sul sistema maggioritario. E neppure come forze politiche e leader del centrodestra, che in passato avevano coltivato con Silvio Berlusconi la «religione del maggioritario», abbiano potuto compiere una virata così recisa, spettacolare e utilitaristica. Vero è che almeno per il presidente di Alleanza nazionale il problema non si pone, dal momento che Gianfranco Fini nell’arco di una dozzina d’anni è stato prima strenuamente proporzionalista, convinto che il metodo proporzionale fosse l’unica zattera di salvezza per la navicella del Movimento sociale, poi maggioritarista a oltranza, fino a sostenere i referendum per l’abolizione della quota proporzionale, e infine di nuovo proporzionalista, nella sua rinnovata convinzione, comune per la verità a numerosi esponenti dell’establishment italiano, che «il maggioritario ha fallito». Ma intanto, è davvero fallito il maggioritario? C’è davvero un’opinione generale e condivisa in questo senso? A prima vista, sembrerebbe che si scambi la causa con l’effetto, lo sfondo con la figura, le norme con la qualità della prestazione: sarebbe all’incirca come dire che, siccome la nazionale italiana gioca male, è giusto cambiare le regole del calcio. In realtà sarebbe un esercizio di lucidità, non si dice di onestà, intellettuale prendere in considerazione l’alternativa se a fallire sia stato il sistema maggioritario (molto temperato, d’altronde) o piuttosto il governo di centrodestra nella legislatura 2001-2006. Anche senza ricorrere alle leggi di Duverger, è noto che i sistemi elettorali producono i loro effetti nel mediolungo periodo, in seguito all’assestarsi dei partiti e all’abitudine alla competizione svolta con determinate regole. Quindi cambiare legge elettorale a ogni volgere di legislatura non sembra rispondere a un’intenzione di stabilità, o di stabilizzazione, del sistema politico. Un giudizio negativo sul maggioritario all’italiana, sulle sue caratteristiche di sistema «misto», dettato dal criterio che è controproducente abbinare due logiche contraddittorie, e che comunque in un sistema pluripartitico la formula a turno unico moltiplica i partiti e induce inevitabilmente alla frammentazione (secondo i rilievi in sé ineccepibili di Giovanni Sartori), doveva semmai condurre ad aggiustamenti della legge maggioritaria, non alla sua sostituzione integrale con un sistema proporzionale dall’impianto disordinato. Tuttavia gli argomenti a cui è ricorsa la Casa delle libertà per argomentare la propria decisione politica sono sostanzialmente di due ordini: in primo luogo, la necessità di «migliorare» le alleanze, attribuendo a ogni partito il peso che gli spetta effettivamente in base al suo risultato elettorale, sgombrando il campo dalle possibilità di ricatto politico e dal potere di interdizione dei partiti marginali, nel momento della scelta delle candidature e successivamente durante l’esercizio dell’attività di governo; subito dopo, l’asseverazione che il cambio della legge elettorale era contemplato dal programma della Cdl, e quindi approvato dagli elettori con il voto alle elezioni politiche del 2001. Quanto al primo aspetto, il miglioramento degli equilibri nelle coalizioni, si tratta più che altro di un auspicio. Il governo Berlusconi è entrato in crisi nell’estate del 2004 (e il sintomo-effetto più grave della crisi fu segnalato dalle dimissioni del ministro dell’economia, Giulio Tremonti, il pilastro della politica economica e della politica tout court dell’alleanza di centrodestra, in quanto uomo di cerniera tra Berlusconi e Bossi) in seguito a un’azione congiunta di Alleanza nazionale e dell’Udc. Tanto per chiarire l’entità e la qualità dello scontro, Tremonti fu accusato da Fini di avere truccato i conti pubblici, e di avere presentato in sede europea dati falsi. L’allora segretario dell’Udc, Marco Follini, aveva avviato una sua lunga e alla fine sfortunata campagna per ridimensionare il potere di Berlusconi e per rendere evidente la problematicità, per la coalizione, del rapporto tra Forza Italia e la Lega. Si era aperta una crisi che sarebbe scoppiata con tutti i sistemi elettorali del mondo, non solo con il maggioritario imperfetto. Per restare nel campo del centrodestra, cioè lo schieramento che ha imposto il cambio della legge elettorale, vale ancora il vecchio rilievo che si tratta di un raggruppamento incoerente, una costellazione in cui si stagliano una forza liberista, un partito cattolico solidarista, una entità nazionalpopulista, un residuo regionalsecessionista: qualcuno dovrebbe allora spiegare se tendenzialmente la formula proporzionale riduce o intensifica il polimorfismo politico della Casa delle libertà. Cioè se favorisce processi di semplificazione o di frammentazione. Il secondo punto, e cioè la verifica popolare, il «mandato» dovuto al programma, la firma degli elettori anche in calce a un progetto di riforma elettorale, non meriterebbe di essere preso in considerazione se non fosse che rispecchia con fedeltà alcune inclinazioni intrinseche alla Casa delle libertà. Non occorre avere letto i classici moderni del funzionamento della democrazia liberale, da Arrow a Riker, per capire che il popolo non vota approvando ogni singolo punto dei programmi politici. Basta il buonsenso: possiamo tranquillamente votare a destra anche se approviamo soltanto una parte del suo programma, se questo suo programma ci convince complessivamente più di quello presentato dalla sinistra (e viceversa). Ma chi pretende di trasformare immediatamente in leggi, in provvedimenti esecutivi, in dispositivi cogenti il mandato popolare si iscrive nel campo del populismo. E, sotto sotto, manipola il gioco democratico, proprio perché chiama in campo il consenso generale su un punto invece particolare, una delle tante issue comprese in un qualsiasi programma di governo. Naturalmente, i principali esponenti del centrodestra hanno tenuto a specificare che veniva abbattuto il sistema maggioritario «fallito», ma veniva salvaguardato il bastione del bipolarismo (grazie al premio di maggioranza per la coalizione vincente). Si tratta di un’osservazione scarsamente significativa, e comunque tutta da provare sul piano empirico. Il bipolarismo esiste per volontà politica, non per grazia ricevuta. Se viene a mancare l’intelaiatura del maggioritario, è prevedibile che le contraddizioni nei due schieramenti si faranno sentire con più forza. Inoltre, nel momento in cui l’accento si sposta dalle coalizioni (con il cemento fortissimo del candidato comune nei collegi elettorali) all’interesse di partito, le alleanze inevitabilmente si allentano. Non si vuole qui entrare nel merito del funzionamento tecnico della legge proporzionale, ma va rilevato che il premio di maggioranza previsto per la coalizione vincente potrebbe essere la dote che favorisce chi ha saputo più efficacemente essere disunito. È un paradosso del premio di maggioranza, ma non il solo. Trascuriamo anche l’asimmetria fra Camera e Senato, e fra il premio su base nazionale per la prima e su base regionale per il secondo, con tutti i possibili effetti distorsivi rilevati con chiarezza da Gustavo Zagrebelsky e da altri. Importa invece rilevare un’ulteriore possibilità: infatti alcuni osservatori, come Giuliano Amato, hanno messo in rilievo che il nuovo metodo elettorale potrebbe facilmente determinare una partizione «tripolare» del sistema politico. In effetti, la formula proporzionale definita dalla nuova legge incorpora naturaliter la possibilità di una coalizione vincente di centro, un blocco centrista che «taglia le ali» e di conseguenza imporrebbe anche la sua eternità al governo del Paese. Come si vede, il principio dell’alternanza politica, che era stato la principale risposta politico-istituzionale alla crisi di Tangentopoli, comincia a farsi più opaco, a presentarsi meno nitido, a confondersi. Di conseguenza le ipotesi trasformistiche riprendono fiato. Si profila un sistema che potrebbe riflettere le fattezze della Prima Repubblica. D’altronde, era stato uno degli spiriti più indipendenti del centrodestra, Bruno Tabacci, a dire la verità «vera», cioè che il sistema bipolare è artificioso perché divide persone che la pensano allo stesso modo, Tabacci e Enrico Letta. Questa osservazione non critica esclusivamente il maggioritario, ma attacca proprio la divisione bipolare fra centrodestra e centrosinistra. E allora qual è la soluzione auspicabile: un bipolarismo depotenziato o la conversione al centro? Se fosse quest’ultima, non s’era detto che ne avevamo avuto abbastanza, della democrazia bloccata, con le sue élite immutabili, con un sistema senza ricambio, con le sue spartizioni, e infine con il suo intreccio di politica e affari? Quindi è ragionevole cercare più banalmente le ragioni della riforma elettorale negli interessi politici di parte. Raccontano gli esperti di gare automobilistiche che nei circuiti americani, nelle prove velocistiche come quelle che si svolgono a Indianapolis, è malvista la possibilità che una monoposto vada in testa e ci rimanga per tutta la gara fino alla bandiera a scacchi. Al gusto americano per la competizione non piace che il divertimento si esaurisca già nei primi giri, che non si possa assistere a sorpassi, sportellate, colpi di scena, incidenti, alternanza al comando. E allora, quando si profila una situazione di bassa competizione, al minimo appiglio (una goccia di pioggia, un piccolo incidente, una modesta perdita d’olio sull’asfalto) si ringrazia la sorte e si manda in pista la safety car: così la velocità viene ridotta, le vetture si raggruppano di nuovo, e all’atto pratico la gara ricomincia da capo. A giudicare da quanto è successo in Parlamento si direbbe che la Casa delle libertà abbia capito la lezione, e la sua sia in effetti una specie di safety reform. Spaventato dalla possibilità di una sconfitta pesante, cioè di un giudizio negativo degli elettori sulla sua prova al governo, Berlusconi ha deciso di mischiare spettacolarmente le carte. Inoltre ha usato l’offerta della proporzionale come una risorsa per rinegoziare i rapporti con gli alleati, e ha avuto successo (in particolare liberandosi del segretario dell’Udc, Marco Follini, la cui strategia liberalmassimalista, intesa a mettere in discussione la leadership della Cdl, è stata sacrificata proprio in seguito all’incasso immediato della legge proporzionale). Ciò che colpisce tuttavia non è la spregiudicatezza di un leader politico, e di un’alleanza, che appaiono letteralmente pronti a tutto, anche a mandare all’aria il sistema, pur di evitare o almeno ridurre una sconfitta elettorale. Ora, la domanda si presenta semplice: è o non è sorprendente che la maggioranza di governo cerchi di modificare la struttura stessa della competizione politica attraverso un’iniziativa di parte? I laudatores di Berlusconi sono troppo prevedibili per fare testo. Sul «Corriere della Sera» del 3 ottobre, un commentatore invece equilibrato come Massimo Franco ha registrato che il centrosinistra ha capito che «il vero obiettivo del ritorno al proporzionale non è la rivincita della Cdl. Semmai il tentativo di azzoppare una vittoria dell’Ulivo, esponendo un futuro governo Prodi al ricatto dei partitini». A leggere bene queste parole, ciò significa che lo scopo principale del centrodestra, in questo autunno di legislatura, è consistito nell’avvelenare i pozzi: ossia «impedire che il centrosinistra riesca a governare». Si può aggiungere che l’approvazione della riforma elettorale ha complicato lo scenario e la dinamica, proprio mentre si stava assistendo a una ridislocazione di alcuni soggetti politici (Nuovo Psi, Partito radicale), offrendo l’allettamento di posizioni «terze», e comunque modificando le prospettive politiche in corso d’opera. In sostanza, secondo questa diagnosi il centrodestra cosparge di mine il terreno della legislatura a venire. Ma prima di accettare un giudizio così esasperato, è necessario rilevare che tutto il dibattito sulla riforma elettorale si è svolto in modo autoreferenziale, senza nessuna concessione neanche retorica all’interesse generale della Repubblica e della società italiana. Non una parola è stata pronunciata sulla stabilità del governo, sull’utilità dell’alternanza, niente sui rischi di tornare alle politiche autolesioniste che nel finale della «Repubblica dei partiti» hanno gonfiato a dismisura l’indebitamento dello Stato. Niente: ciò che conta è il montaliano «calcolo dei dadi», vale a dire un gioco astratto con cui si cerca di manipolare con la tecnica l’espressione del giudizio politico. Insomma, abbiamo assistito a una manovra «nichilista». Una pura partita doppia di interesse partisan che è stata presentata come una soluzione razionale per il sistema politico nel suo insieme. Mentre veniva realizzato questo straordinario Blitzkrieg, non si sono avuti segnali significativi che continuassero a esistere nella Casa delle libertà esponenti che avessero conservato una serena coscienza maggioritaria. Di per sé, l’unanimità in politica è quasi sempre sospetta; ma che siano diventati proporzionalisti in unanime sintonia tutti coloro che si erano battuti con più ardore per un’applicazione severa del sistema uninominale, che siano diventati così rispettosi delle identità parziali coloro che avevano sostenuto che la politica ormai si sarebbe fatta con lo schema sommario «o di qua o di là», e anche «votando contro» se uno schieramento non convinceva del tutto, insomma che siano diventati moderati e proporzionalisti tutti i fondamentalisti del maggioritario che allignavano nel centrodestra fa un effetto ben curioso. Si potrebbe dire che questo è un effetto singolare quasi quanto la scomparsa, nel centrodestra medesimo, di tutta la componente laica, liquidata o ridotta al silenzio, comunque scomparsa dalla scena pubblica, in seguito alla prevalenza dei cosiddetti «atei devoti»; ma rilievi simili sarebbero più giustificati se non fosse che i primi colpi alla logica del maggioritario furono assestati da un partito di centrosinistra, la Margherita, allorché nella primavera scorsa Francesco Rutelli rinunciò alla lista «Uniti nell’Ulivo» per inseguire dal centro, in una logica anch’essa tutta proporzionalista, gli elettori in fuga dalla Casa delle libertà. L’aspetto nichilista di questa manovra autodifensiva della Casa delle libertà si percepisce tanto meglio se si valuta la nuova legge elettorale ponendola sullo sfondo della riforma costituzionale in corso d’approvazione alle Camere. «A questo punto – ha scritto il costituzionalista Andrea Manzella – un ordinario buon senso avrebbe consigliato di fermarsi. Per "incrociare" il già maturo progetto costituzionale con il progetto elettorale: per farne una lettura comparata, per verificarne le coerenze, per eliminarne le contraddizioni. Niente. Si prosegue su piani separati come se una intima logica di rappresentanza di governo non obbligasse a legare i due progetti». La conclusione sarebbe che a un sistema proporzionale, corretto da un sistema distorsivo se non cervellotico di soglie, e da un premio di maggioranza al cui confronto quello della «legge truffa» del 1953 (che prevedeva il premio soltanto conseguendo il 50 per cento dei voti) era perfettamente ragionevole e intriso di buona sostanza democratica, corrisponderebbe nel disegno costituzionale una forma di governo del primo ministro, a cui sarebbero affidati poteri esclusivi, dalla sostituzione dei ministri alla facoltà di sciogliere le Camere (pur se con vincoli e complicazioni che la dicono lunga sull’impossibilità dei costituzionalisti di essere semplici). Sarebbe difficile sfuggire alla tentazione di definire questo doppio sistema un’autocrazia sulla palude parlamentare, se non fosse che la riforma della Costituzione è per ora un cambiamento sospeso, nel senso che occorrerà attendere il responso del referendum confermativo. Che nelle previsioni di quasi tutti, compresi molti esponenti del centrodestra, annullerà la riforma costituzionale, liquidando ad un tempo sia la devolution sia i rischi di dittatura del premier. Con la prevedibile conseguenza che da quel momento in poi ogni spinta riformatrice, anche la più moderna e coerente, verrà quindi annichilita. Cosicché resterà soltanto la legge elettorale proporzionale: la transizione politica italiana, cosiddetta infinita, cosiddetta incompiuta, troverà il suo compimento con il puro e semplice ritorno al passato. Non andrebbe tuttavia dimenticato che l’ondata referendaria dei primi anni Novanta ebbe, fra l’altro, il merito di trattenere dentro il circuito della politica i cittadini, proprio mentre i partiti erano crollati a zero quanto a legittimazione. A sua volta anche il sistema maggioritario ha avuto una funzione importante nel fissare l’identificazione fra cittadini-elettori e sistema della rappresentanza. Non sfugge a nessuno che oggi i partiti, quale più quale meno, hanno perso iscritti, radicamento nella società, capacità di mobilitazione. Sono controllati da gruppi ristretti, che anche sul piano locale hanno visto allentare il rapporto con l’opinione pubblica e la vita associata. Per quanto controllate dal centro, le candidature nel sistema maggioritario promettevano un legame stretto fra gli eletti e gli elettori. Non sempre questa connessione si è verificata, ma in una situazione che ha visto via via sfumare la capacità dei partiti di fare da tramite fra centro e periferia, gli eletti nei collegi uninominali sono stati di fatto un tramite rilevante. Ora, la riforma della Casa delle libertà taglia via anche questa connessione residua. Con l’aggiunta, anche questa da sottolineare, che le candidature verranno elencate in liste bloccate, cioè decise a priori dalle centrali di partito. Si voteranno candidature al buio, senza nemmeno la possibilità di guardare la fotografia dei candidati. Verrebbe voglia di ripescare la terminologia talora sbrigativa che si usava durante lo choc politico del 1992-93: anche oggi, «partitocrazia» è l’unico termine che si può usare in proposito (al massimo, si potrebbe usare la locuzione «partitocrazia senza partiti», considerata la debolezza organizzativa e rappresentativa delle forze politiche attuali). Sarebbe utile aggiungere ancora qualche riflessione sull’opportunità, «morale » politicamente o convenzionalmente rispettosa del fair play, di introdurre nel sistema politico riforme esplicitamente partigiane. È chiaro che ciò innesca la miccia di un conflitto continuo. Ma non si era riconosciuto che l’alternanza politica non è e non può essere uno choc politico permanente? Non conviene a nessuno sfidare la possibilità che sui temi fondamentali della convivenza e dello sviluppo (Costituzione, sistema della giustizia, scuola e università, oltre ovviamente alle leggi tecniche di funzionamento della democrazia) ogni schieramento pratichi vendette dopo la vittoria elettorale: la carta costituzionale non fa parte dello spoils system. Occorre che maggioranza e opposizione trovino forme di confronto, di discussione, anche di reciproco condizionamento e infine di compromesso. Non si dica che si tratterebbe di tornare a una condizione «consociativa». È semplice senso comune. Perché se cambia la maggioranza, se le elezioni le vincono gli altri, se l’opposizione va al governo, che cosa si deve fare, accettare per inerzia, per quieto vivere, un’eredità che si giudica nefasta o passare alla decostruzione della politica precedente? Una concezione del genere si può sottoscrivere soltanto se si considera il confronto fra schieramenti come una guerra civile sublimata. La democrazia come un panorama di macerie delle riforme precedenti. La vita collettiva una fibrillazione continua, con l’attività di governo come una pratica da considerare sempre con inquietudine, guardandosi le spalle. Ma dove finisce in questo modo la certezza, o almeno la prevedibilità, delle condizioni di sistema? Finisce male, altroché. Tanto che non ci si dovrà poi lamentare se ne risentirà il funzionamento della società civile, e allora se di conseguenza le imprese non investiranno, i consumatori non consumeranno, i risparmiatori tesaurizzeranno, se insomma si verificheranno tutte quelle condizioni pessime che sono all’origine della stagnazione e dell’assenza di sviluppo. Tanto più che i cittadini italiani avevano assimilato con spontaneità il sistema maggioritario. Non avevano avuto troppo da ridire sulla personalizzazione della politica, avevano valorizzato il confronto personale nelle elezioni dirette, si erano sottoposti senza fastidio alla tortura intellettuale di sei o sette modalità diverse nell’espressione del voto. Dal 1994 in avanti hanno accettato il gioco in cui c’è qualcuno che vince e qualcuno che perde, moderato nelle elezioni politiche soltanto dal residuo della quota proporzionale e dallo scorporo. Hanno fatto i conti con il faccia a faccia democratico, che nei momenti di scontro più aspro può dare luogo a ideologizzazioni estreme. Nel corso del tempo hanno comunque mostrato di considerare essenziale la presenza di un discrimine netto fra destra e sinistra: tanto che il flusso di voti fra destra e sinistra, verificatosi per la prima volta in modo rilevabile e politicamente interessante nelle elezioni amministrative del 2004, è stato trattato come un fenomeno politico che segnalava nitidamente un cambiamento di tendenza. Bipolarismo fallimentare? Si può sostenere con altrettante buone ragioni che gli italiani hanno trovato negli schieramenti principali due «case comuni» in cui rifugiarsi politicamente, dopo la crisi penosa dei primi anni Novanta. Adesso si chiederebbe loro di accasarsi nuovamente nei partiti. Ma i partiti non esistono più, e se questa sentenza può apparire tranchante la si corregga con parole più temperate, ma la sostanza non cambia. L’evidenza è che esistono circoli oligarchici che prendono decisioni in modo autoriferito, ai quali si accompagnano ristrette organizzazioni di militanti semiprofessionali sul territorio, prontissime a recepire gli ordini provenienti dalle centrali politiche. All’acme della «postpolitica», destrutturata in partiti fragilissimi nella struttura e nella cultura, si abbina la confisca della volontà popolare. Questo assetto dirigistico della partecipazione politica scoraggia ogni riferimento alle identità e alle tradizioni storiche. Potremmo dire che ci sono sensibilità diffuse nell’opinione pubblica, che si incrociano attraverso vari meccanismi con concrezioni politiche organizzate. Quanto poi queste strutture organizzative siano in grado di percepire e raccogliere dei sentimenti collettivi, dei bisogni, delle pulsioni popolari, è un mistero. Se guardiamo al risultato delle elezioni primarie dell’Unione, bisognerebbe rispondere «nulla», dato che non uno fra i membri dell’establishment politico del centrosinistra aveva mostrato di prevedere o di intuire l’inopinato spettacolo di partecipazione che si è avuto domenica 16 ottobre. E allora. Si conclude un ciclo che si era avviato a fatica e che tuttavia si stava lentamente consolidando. Adesso entriamo in una fase nuova, dai contorni indefiniti. Dopo la Repubblica dell’immobilità politica, abbiamo avuto la Repubblica dell’alternanza; adesso sarà la volta di una Repubblica in cui alternanza e trasformismo avranno lo stesso valore, saranno entrambi giocabili sul tappeto della politica e nella competizione elettorale. Forse nel giro di poche stagioni l’acquisizione del bipolarismo sarà semplicemente un ricordo. Ma senza aspettare il passare del tempo, l’impressione nettissima è che sia avvenuto un esproprio. E il fatto che i cittadini non si siano ribellati a questa sottrazione effettuata con destrezza è il segno che di fronte alla terza Repubblica, la Repubblica indistinta, ci si comporta ormai con rassegnazione. Al momento in cui questo testo va in stampa l’iter della legge si è complicato, in seguito ai rilievi emersi in particolare sulla formula elettorale prevista per il Senato. Le osservazioni di Gustavo Zagrebelsky hanno messo in luce aspetti di possibile incostituzionalità; ma l’elemento più rilevante è che il sistema elettorale per il Senato, con premi di maggioranza regionali, può non consentire la formazione di maggioranze a livello nazionale e rendere incerta la governabilità. Ma in ogni caso l’eventuale rallentamento nell’approvazione della legge non pregiudica la riflessione su una iniziativa politica che rappresenta una vistosa anomalia e mette a repentaglio l’intero processo di razionalizzazione della politica e delle istituzioni italiane.

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