gli articoli Il Mulino/

La macchina bipolare

03-04 1994
Italia 1994: punto di svolta

Uno dei dogmi su cui si sono basate le principali strategie politiche a partire dai referendum elettorali del 18 aprile 1993 e fino all’ingresso in campo di Silvio Berlusconi consisteva nella negazione della possibilità di proporre in Italia, con qualche realistica probabilità di successo, una politica di destra. Soltanto sulla base di questa verità a priori si può spiegare il lungo periplo di Mario Segni, esponente moderato della Dc, che per qualche tempo è sembrato sul punto di trasfigurarsi nel leader di un embrione politico, Alleanza democratica, che comprendeva potenzialmente il Pds. Singolare spettacolo, quello di un uomo di destra che in nome di un imprecisato progetto di modernizzazione si ritrovava a fianco degli ex comunisti. E forse c’è da ringraziare il legame storico fra Pds e Rifondazione comunista, che ha spezzato la tortuosa ipotesi di raccogliere il centro e la destra partendo da sinistra, quella specie di «buscar levante para poniente» che ha contribuito in larga misura a disorientare l’opinione pubblica sulle intenzioni del leader referendario. E invece l’autentica novità della fase politica attuale, una delle discontinuità maggiori rispetto all’età della grande consociazione, è rappresentata proprio dalla riconquista della legittimità da parte della destra. Non è una trasformazione avvenuta solo nella sfera politica: è un processo che investe in profondità la società italiana. Se si pensa all’egemonia esercitata per decenni dalla cultura di sinistra, e alla sua diffusione attraverso una rete estesa e capillare di canali comunicativi, dalle case editrici alla scuola, dalle redazioni dei giornali alla televisione, si può comprendere la portata quasi antropologica della mutazione con cui si è passati dall’obbligatorietà di definirsi «di sinistra» alla possibilità di dirsi «di destra». Le ragioni di questa inversione di tendenza sono molteplici. Per decenni la destra non estremista aveva trovato rifugio nel grembo della Dc: ma con la fine del pericolo rosso, fosse vero o convenzionale, e quindi della funzione di baluardo anticomunista dello Scudo crociato, sono cadute anche le barriere che avevano trattenuto gli elettori di destra in un partito di centro. L’approvazione di una legge elettorale tendenzialmente bipolare ha poi fornito la spinta per la nascita di un’aggregazione politica caratterizzata da tratti esplicitamente di destra. Ma sarebbe un fraintendimento ritenere ciò sia stato determinato solo dai meccanismi della legge elettorale. In astratto, niente impediva – non le «leggi di Duverger», non le esperienze straniere del sistema maggioritario, non presunte regolarità storiche – che il «secondo polo», alternativo al raggruppamento progressista, fosse formato dalla coalizione Segni-Martinazzoli. A sconfiggere il polo centrista è stata una combinazione di fattori, fra i quali non è certamente estranea la volontà di vendetta dell’opinione pubblica dopo Tangentopoli, oltre che il progressivo affievolirsi del potenziale politico di Segni, e insieme con la debolezza della proposta politica di Mino Martinazzoli: concentrata quest’ultima su una nozione estetica della politica e sulla convinzione snobistica che a favorire il Patto per l’Italia sarebbero stati i volgari errori politici e forse anche i plateali errori stilistici delle due «ammucchiate» di destra e di sinistra. Martinazzoli si sfogava sottolineando la «sciattezza» del linguaggio berlusconiano, e la «melodrammaticità da librettista verdiano» di Achille Occhetto. Concludeva la campagna elettorale ironizzando sulla mania del capo di Forza Italia di citare sondaggi stratosferici: «i dati in nostro possesso ci dicono che 1’87 per cento dei cinesi vorrebbe Berlusconi come imperatore». Se il centro comincia a sciogliersi E però Martinazzoli perde. Lui e Segni, i firmatari del Patto per l’Italia, il 27-28 aprile riescono a portare nelle nuove Camere l’inezia di 77 parlamentari, per la maggior parte eletti con il recupero proporzionale. Smarriscono per strada oltre cinque milioni e mezzo di voti rispetto al risultato democristiano alle elezioni politiche del 5 aprile 1992, che segnarono l’inizio del Big One. Eppure riescono nell’impresa di farsi votare da più di sei milioni di cittadini. Dopo numerosi indizi parziali, lo scioglimento del centro si era manifestato con le elezioni amministrative del 21 novembre e i ballottaggi del 5 dicembre 1993. In quel momento, tuttavia, sembrava che l’Italia – l’Italia delle grandi città – virasse risolutamente a sinistra. Tuttavia si poteva intravedere qualche problema di rotta. Nelle sei città capoluogo le coalizioni elettorali apparivano estremamente variegate. Si oscillava dalla linea radicale di Palermo e Napoli a quella riformista di Roma, Genova, Venezia e Trieste. La situazione era resa ancora più complessa dal permanere di Segni dentro alcuni cartelli progressisti, ma soprattutto dal fatto che contemporaneamente all’ascesa delle forze di sinistra si era assistito a una sconfitta democristiana peggiore anche rispetto alle previsioni più infauste. Lo sprofondamento democristiano sembrava assumere fin da allora una portata storica. Il cammino impostato da Martinazzoli verso il Partito popolare si infilava in una strettoia. Ma ciò che entrava definitivamente in gioco nella Dc non era soltanto la denominazione del partito, bensì la sua stessa sopravvivenza come forza politica di massa. Tanto più che, se come da previsioni gli elettori che avevano «tradito» la Dc al Nord avevano scelto generalmente la Lega, largamente imprevisto invece risultava il successo del Msi di Gianfranco Fini nel Centro-Sud. A Roma e a Napoli la Fiamma tricolore risultava il primo partito. Era caduto il tabù fondamentale della Prima Repubblica, la pregiudiziale antifascista. In ogni caso, dato a Bossi ciò che era di Bossi, lo smottamento a destra nelle regioni meridionali era fortissimo. Ciò nonostante, né Lega né Msi sembravano possedere al momento la capacità di organizzare attorno a sé alleanze a patti d’azione. Anzi, la loro forza era stata quella di presentarsi come degli estranei, o come degli esclusi, dal sistema politico di Tangentopoli. Ma ciò significava anche che l’alternanza poteva restare un modello ancora zoppo. Si configurava il polo di sinistra, ma non ancora un ragionevole e competitivo polo moderato. Per avere una democrazia funzionante, la costruzione di questo secondo schieramento era essenziale. Dopo il collasso democristiano, ci si rendeva conto che costruirlo sulle fondamenta di ieri non era più possibile. Occorreva qualcosa di originale: un partito, un programma, un volto che risultassero credibili per quelle fasce di opinione pubblica che non volevano opporsi al Pds e ai suoi alleati finendo necessariamepte nelle braccia della Lega o del Msi. Il partito non c’era ancora, il programma era da fare. Quanto al volto, ci si poteva ancora illudere che fosse ancora disponibile quello di Segni. La posta in gioco fra il primo e il secondo turno delle amministrative era di valore eccezionalmente elevato. Stava per delinearsi infatti l’assetto del sistema politico italiano, e soprattutto si stava fissando lo schema che avrebbe improntato la competizione tra le forze politiche alle elezioni del 27 -28 marzo. Sulla scia dei risultati del 21 novembre, sembrava che la disgregazione del centro avesse lasciato il campo a un’alternativa radicale: da una parte l’area progressista egemonizzata dal Pds, dall’altra due destre massimaliste e in compatibili. Prospettiva non rassicurante: ci si poteva già immaginare una battaglia combattuta nel nome dell’antifascismo e dell’anticomunismo, con il rischio di una radicalizzazione del confronto tutta ideologica, vecchissima nelle ispirazioni, potenzialmente lacerante nei toni e probabilmente catastrofica negli esiti. L’alternativa «estremista» giova solo alle estreme. Ognuna di esse infatti può proporsi all’elettorato, in modo ricattato rio, come la diga contro l’altra. Avrebbe fatto comodo al Msi guadagnarsi l’etichetta di unica roccaforte contro le sinistre, così come l’area progressista, di fronte alla sfida missina, avrebbe avuto nuovamente l’occasione ghiottissima di brandire il vessillo della santa crociata contro il fascismo. Per queste ragioni, il duello tra Fini e Rutelli a Roma, e la sceneggiata napoletana fra la Mussolini e Bassolino minacciavano di accendere un’ipoteca ingombrante sul dibattito politico successivo. Se il Msi vinceva, poteva affermarsi il criterio che l’unica destra plausibile era quella di Fini; mentre se vincevano Pds e alleati si sarebbe spalancata la porta alla necessità di fare entrare in campo una forza razionalmente competitiva sul fronte liberale. L’entrata in partita di Segni, che mentre confermava il suo tiepido sostegno tattico ai candidati progressisti annunciava però la sua candidatura alla guida di uno schieramento moderato, era senza dubbio tardiva ma finalmente esplicita, e costituiva un sensibile fattore di chiarimento. Ancor più che dalle parole e dagli spunti programmatici (come sempre piuttosto generici) offerti dal leader referendario, lo si poteva desumere dagli effetti che si segnalavano fra gli schieramenti politici. Occhetto salutava con una «non ostilità» la nascita di un’area neoliberale, rinunciando per il momento alla strategia di fare terra bruciata nel centro politico (che in termini di pura convenienza, eliminando la concorrenza intermedia, gli avrebbe assicurato la cospicua rendita di posizione «antifascista»). Ma per altri aspetti appariva ancora più interessante la posizione assunta da Umberto Bossi, il quale dichiarava che a certe condizioni con la nascitura area moderata la Lega poteva trattare. Si trattava di una posizione risolutiva perché faceva evaporare gli spettri di un grande e ambiguo rassemblement destrorso, l’unione polimorfa di federalismo liberista e populismo nazional-corporativo, il cui unico cemento sarebbe stato la foga demagogica. Si profilava invece la possibilità che anche la Lega abbandonasse il proprio isolamento, e quindi che le sue rivendicazioni egemoniche sul Nord venissero ridimensionate, che la sua azione venisse collocata nell’ambito di alleanze e coalizioni: il che avrebbe reso «trattabile» il federalismo di Bossi. Tornava visibile all’orizzonte il modello europeo di un confronto elettorale fra mezze ali, centrodestra e centrosinistra. Lega che vince, Lega che perde I risultati dei ballottaggi del 5 dicembre davano una risposta univoca, con la vittoria del cartello delle sinistre e la sconfitta delle due destre in gioco, quella leghista e quella missina. Al Nord, la Lega si era dimostrata incapace di esercitare una capacità di aggregazione in grado di rispondere alla necessità di alleanze dettata dal maggioritario; nel Centro-Sud appariva ancora troppo grande la distanza che l’elettorato moderato doveva compiere per collocarsi interamente sotto le insegne della Fiamma tricolore. Tuttavia l’affermazione delle sinistre era stata meno perentoria rispetto alle previsioni. Ma proprio il fatto che lo schema si fosse replicato esattamente per cinque volte induceva a pensare che per il buon funzionamento della democrazia italiana sorgesse effettivamente il problema di completare razionalmente gli schieramenti in gioco, affiancando alla sinistra vincente una destra effettivamente concorrenziale. Perché all’indomani delle amministrative c’era un unico partito in grado di affrontare le elezioni politiche come perno di coalizioni e di alleanze, e questo partito era il Pds. Era facile prevedere per le settimane successive notevoli mutamenti di strategia politica. Bossi avrebbe dovuto fare i conti con la sua prima battuta d’arresto, e quindi ci si poteva aspettare qualche sua invenzione manovriera. E anche il Msi, che ha Roma aveva potuto contare sull’effetto-Fini, vale a dire sugli atteggiamenti rassicuranti del suo leader, avrebbe dovuto cercare di dare corpo alla propria trasformazione d’immagine, operando una rapida cosmesi. Ma in sé e per sé risultati del 5 dicembre non sembravano concedere grandissimo spazio alla Lega e al Msi. L’una e l’altro infatti apparivano pesantemente segnati dal loro profilo territoriale; restavano due forze dimezzate, con scarsissime, se non nulle, possibilità di integrazione. Soprattutto la Lega dava l’idea di trovarsi su una passerella che oscillava percolosamente. Su una sponda erano in fila tutte le battaglie vinte o stravinte negli ultimi due anni; sull’altra, poteva profilarsi la sconfitta nella guerra. Allorché il pubblico ministero Di Pietro prese l’iniziativa dirompente di arrestare l’ex cassiere leghista Alessandro Patelli per finanziamento illecito, si parlò di un incidente isolato. Ma incidente non era se lo si connetteva con l’altro passo falso, cioè la «non vittoria» nei grandi ballottaggi di Genova e Venezia. Di Pietro aveva arrestato Patelli per un’inezia contabile. Ma più che il versamento di un modesto contributo illegale, ciò che poteva risultare di grandissimo danno la Lega appariva il contesto in cui esso era maturato: incontri riservati, «accreditamenti» favoriti da Bossi in persona, richieste di pubblicità di comodo per le radio del circuito leghista, prima di arrivare alla mazzetta vera e propria. Insomma, una classica storia di bassa politica, non dissimile da quelle già osservate centinaia di volte nell’Italia di Mani pulite. Di qui al verdetto popolare che la Lega era «come tutti gli altri» poteva mancare poco, anche perché i suoi avversari avrebbero avuto interesse a girare il coltello nella piaga. Ma pur senza generalizzare un caso singolo, nel futuro sarebbe divenuto più difficile per la Lega continuare a far volare con piena credibilità gli stracci della corruzione altrui. Infatti la forza della Lega derivava dal suo presentarsi come qualcosa di assolutamente «altro» rispetto ai protagonisti della grande rapina. Era quest’ultima caratteristica che aveva permesso al Carroccio di lottare da solo contro tutti: rispetto ai sofismi, alle alchimie, ai veti incrociati della prima Repubblica, la semplicità fondamentalista dei «barbari» del Nord si prospettava per buona parte dell’opinione pubblica come un antidoto di eccellente efficacia. Ora, di fronte alle prime difficoltà, la rendita incassata da Tangentopoli sembrava sul punto di dissolversi. E allora, dopo essere stato il megafono della protesta, Bossi avrebbe dovuto puntare tutto sulla sua proposta politica. Ma anche in politica le cose non andavano benissimo, dal momento che i risultati del5 dicembre avevano dimostrato che lo splendido isolamento leghista non pagava sino in fondo. Nella logica del sistema maggioritario anche la Lega avrebbe dovuto procedere verso coalizioni con altre forze. Per la prima volta nella sua carriera Bossi era chiamato a dare un contenuto negoziabile alla propria iniziativa. Poteva ancora una volta scegliere una strada avventuristica, minacciando plebisciti «federalisti» e altre trovate separatiste? L’alternativa era di scegliere definitivamente la strada della ragione, cioè accettare di diventare «normale». La destra in embrione Nell’area anti-sinistra cominciavano quindi le grandi manovre. Durante la sua affannosa metamorfosi la Dc si era praticamente arresa a Segni accettandone la candidatura a premier. Ma un altro avvenimento centrale aveva riguardato la Lega, con la svolta che Umberto Bossi aveva suggerito al suo movimento. Aprendo il congresso della Lega lombarda, il leader leghista aveva segnalato infatti che la Lega si trovava a un bivio: perseguire il «progetto egemone» affermato nel 1989, basato sullo scontro frontale contro il sistema di potere della Prima Repubblica, oppure passare a una fase successiva e diversa. L’abilità dei capi si vede nelle difficoltà. Azzoppato dall’impasse elettorale, macchiato dai duecento milioni «neri» di Patelli, criticato anche per la prima volta sul fronte interno, Bossi anziché mettersi in difesa rilanciava più alto. Presentava i dieci punti del progetto costituzionale federalista, ma poneva al congresso anche una domanda a senso unico: volete che la Lega, restando isolata, assista senza batter ciglio a un processo politico che porterà a un Parlamento egemonizzato dallo «statalismo» del Pds, e che consegnerà le masse clientelari democristiane del Sud al Msi, oppure il Carroccio deve diventare il nucleo fondante di un’aggregazione liberale? Questa seconda risposta era obbligata, ma Bossi, leader carismatico, aveva bisogno che fosse il «popolo della Lega» a dargli un’investitura corale per realizzare la conversione leghista dall’intransigenza al negoziato. D’altronde, tutto ormai appariva in movimento, non solo la Lega, perché contemporaneamente si era avuta anche l’ufficializzazione dell’avvio della seconda vita del Msi. Con qualche disinvoltura culturale, Fini aveva riconosciuto il metodo democratico, e aveva aperto la via al processo destinato a surrogare il Msi con un’Alleanza nazionale «gollista» esorcizzata dai fantasmi ne n. A quel punto, lo schieramento che si sarebbe dovuto opporre al raggruppamento di sinistra vedeva in campo tre protagonisti, ognuno dei quali poteva rivendicare il bastone del comando: Segni per rappresentatività nazionale e patrimonio referendario, Bossi per forza d’urto popolare, Fini per i risultati ottenuti nelle recenti elezioni amministrative. E sullo sfondo si stagliava la figura incombente del quarto cavaliere, Silvio Berlusconi, in attesa impaziente del fallimento altrui. La tentazione immediata era di escludere che il movimento di Segni potesse convivere con la Lega di Bossi, e quest’ultima con i «postfascisti». Tuttavia, se il raggruppamento progressista riusciva a venire a patti con Rifondazione comunista, non si capiva perché l’area neoliberale non potesse avere un’ala destra come quella di Fini. E in prospettiva, illusione per illusione, perché negare che la Lega Nord potesse diventare rispetto alla futura unione liberaldemocratica nazionale ciò che la Csu bavarese è sempre stata rispetto alla Cdu di Helmut Kohl? Il nuovo grande dilemma di questo schieramento consisteva nella scelta del leader nazionale. Non perché si trattasse semplicemente di scegliere un uomo e una faccia, quanto piuttosto perché ciò significava definire programmaticamente in quale punto si collocasse il baricentro politico dell’area. In linea di logica, per competere efficacemente con la sinistra, questo punto si sarebbe dovuto dislocare il più vicino possibile al centro, attenuando quindi le forzature separatiste di Bossi così come il nazionalpopulismo di Fini. Ma si trattava di un’ipotesi astratta: sarebbe stato necessario verificarla nei negoziati che si sarebbero aperti, formalmente o no, tra le forze che progettavano di opporsi al blocco di sinistra. Ogni ipotesi al riguardo era aperta. Compresa quella che i tre cavalieri giungessero al duello anziché a forme di accordo, e dovessero lasciare scendere in lizza trionfalmente il quarto. Morte e trasfigurazione della Dc Intanto, nell’attesa della soluzione di questa sciarada, il 18 gennaio 1994 muore la Dc. E poiché la storia evidentemente ama i paradossi, l’estinzione della Dc ne fa nascere due. E mentre è indubbia l’importanza storica della fine del partito che ha incarnato la Prima Repubblica, appare subito molto meno certa l’utilità politica del «parto gemellare» che dà vita al Partito popolare di Martinazzoli e al Centro cristiano-democratico di Casini e Mastella. Le scissioni, infatti hanno un peso se spostano forze da una parte all’altra degli schieramenti in campo, modificando in profondità gli equilibri. Invece, in quel momento, con l’apparizione di due nuove Democrazie cristiane il cambiamento sembra assai relativo. A fronteggiare lo schieramento di sinistra rimane un’area politica che è aumentata nel numero dei partiti, ma che non sembra avere guadagnato molto quanto a potenziale politico. Anzi, l’unico risultato sicuro sembra il dileguarsi della prospettiva bipolare. Si delineano infatti tre raggruppamenti. Il primo è il cartello delle sinistre. La seconda alleanza politico-elettorale è fondata sull’asse Segni-Martinazzoli, che malgrado le vaghe intenzioni modernizzatrici del leader referendario rischia di apparire come una riedizione camuffata dello stile politico democristiano. Infine il terzo polo si attesta come una coalizione virtuale fra Bossi, il nuovo Ccd e il tuttora ingombrante e imbarazzante partito di Fini. Dopo di che, immaginare che l’area moderata possa trovare una ricucitura che le consenta di essere competitiva elettoralmente è problematico. Sullo sfondo rimane dunque il superclassico Partito popolare di Martinazzoli. Chi non ha avuto la possibilità di ascoltare o di leggere integralmente i due discorsi con cui il segretario dello Scudo crociato, il 18 e il 22 gennaio, ha varato il Partito popolare, si fa un’idea deformata del dibattito in corso nell’ex Dc. Potrebbe pensare, ad esempio, che la fuoruscita del Ccd non abbia affatto risolto il problema delle due facce del partito, destra e sinistra, dal momento che il ciellino Formigoni viene dato in avviata trattativa con la Lega, mentre Rosy Bindi continua a celebrare i suoi riti di vestale ideologica, interprete della durezza tutta «politicista» con cui la sinistra dc si è sempre arrogata il monopolio della linea politica del partito. Se fosse soltanto così, Martinazzoli apparirebbe effettivamente un uomo prigioniero di una schizofrenia antica, l’amletico e rinunciatario curatore testamentario dell’eredità democristiana, il motore immoto di un partito immobile, anzi, immobilizzato dalla propria incapacità di scegliere. Eppure, a dispetto delle apparenze, Martinazzoli non è, o perlomeno non è soltanto, la luttuosa figura di becchino che gli è stato dipinto addosso dai suoi compagni più malevoli. Se si penetra nell’intrico delle sue complesse figure retoriche, se non ci si fa ipnotizzare dalla scabra musicalità del suo lessico, ci si può accorgere che Martinazzoli è tutt’altro che un uomo fermamente privo di idee e di volontà. Il suo no a una destra «corporativo-territoriale», e il rifiuto delle «avances salottiere» di Occhetto sono la conseguenza di un’orgogliosa consapevolezza culturale. Con quelle sue metafore che sembrano sgorgargli per misteriosi automatismi dalle labbra, Martinazzoli dice che non è disposto a «bruciare» sull’altare pagano delle alleanze elettorali la propria identità; non si presta a «incenerire» l’esperienza politica dei cattolici «in uno scenario gremito di maschere trasformiste»: insomma, se la spinta al bipolarismo impone di venire a patti con forze ostili alle proprie idealità, Martinazzoli dice tanto peggio per il bipolarismo e le sue danze macabre e ciniche. Quindi Martinazzoli non si adegua: se «la logica dei blocchi, la radicalizzazione dello scontro o la scorciatoia del trasformismo» gli chiedono di accettare l’aspra lezione del realismo politico, lui ribatte che l’unico realismo che conosce è quello della fedeltà alle proprie ispirazioni: «Dopo avere pagato così tanto per i nostri torti, non rinunceremo mai più alle nostre ragioni». La montagna venga a Maometto, e non viceversa. Il che significa: ci pensi Segni, se lo desidera, a sporcarsi le mani con Bossi. Tradotto in politica, tutto ciò significa naturalmente che il Ppi non accetterà di entrare né in un cartello di destra né in uno di sinistra. Sarà ancora una volta un partito di centro, «non moderato ma della moderazione». Ne deriva una conseguenza politica immediata, cioè che lo schieramento neoliberale non si comporrà. Martinazzoli scommette su un’ipotesi che fin da allora, per l’appena rinato Partito popolare, prevede solo un’onesta sopravvivenza. Per lui la presumibile sconfitta alle elezioni di primavera sarà un banale incidente. Dovrà essere la storia, non la cronaca trafelata di questi tempi affannosi, a identificare il ruolo del Ppi. Il segretario pensa agli italiani di domani, immaginando che «solo i saltimbanchi possono credere che la riflessività sia indecisione». E confida allora che quella che tutti hanno giudicato rassegnata passività si riveli un giorno come un esempio di tenace coerenza politica. Ma, nonostante l’ostinazione morale di Martinazzoli, la sconfitta di oggi non significa affatto l’ipoteca su una vittoria domani. In politica non serve più a nulla portare in dote il passato, la storia, ma neppure investire esclusivamente sul futuro, l’utopia. Se il Ppi perde di vista il presente, è praticamente certo che non avrà un’altra chance. E anziché ritrovare nel suo leader attuale e nelle sue sconfitte intimamente così coerenti la guida per una nuova terra promessa, gli ex democristiani cominciano a temere di essere rimasti semplicemente vittime delle appassionate considerazioni di un impolitico. L’ occasione mancata Ed è per questo che si muove Segni. Nella confusa partita a scacchi in corso nell’area opposta al cartello delle sinistre, fino a quasi tutto il gennaio 1994 erano prevalsi gli arroccamenti. Per questo schieramento c’erano in pratica due sole strade. La prima, sbilanciarsi a destra, sotto il peso di una perentoria entrata in campo di Berlusconi, che avrebbe caratterizzato l’alleanza elettorale in termini accentuatamente neoliberisti, tenendo aperta la porta alla forza d’urto missina nel Sud e prefigurando una campagna elettorale di inedita asprezza contro le sinistre. La seconda, spostare l’equilibrio verso il centro, costituendo una coalizione dai tratti più sfumati. Per fare oscillare la bilancia da una parte o dall’altra ci voleva una decisione. Poteva venire in ogni momento da Arcore, dato che Berlusconi aveva annunciato che la sua pazienza verso le tortuosità della politica era esaurita. E invece la decisione di movimentare la partita viene presa sul fronte della Lega Nord. Sembra una scelta risolutiva. L’incontro fra Segni e Roberto Maroni è stato preparato con una fitta quanto sommessa serie di contatti diplomatici. Durante l’incontro, a cui presenziano come testimoni Saverio Vertone, Giulio Tremonti e Rocco Buttiglione, viene chiesto esplicitamente aMaroni in quale veste si è presentato, cioè se ha un mandato inequivocabile per concludere l’accordo. La risposta è affermativa. Per un giorno, l’accordo del 24 gennaio con Segni è l’evento che fonda concretamente il polo neoliberale. Innanzi tutto perché l’accordo sul programma del Patto per l’Italia contiene il riconoscimento esplicito, da parte della Lega, che federalismo non significa secessionismo. In secondo luogo perché offre la dimostrazione all’opinione pubblica che al momento buono il massimalismo protestatario del movimento di Bossi può cedere il campo a una politica «di governo». E infine perché comincia a delineare effettivamente uno schieramento potenzialmente competitivo con il blocco delle sinistre. Naturalmente si tratta ancora ai primi e malcerti passi. Tuttavia a questo punto non c’è più, nell’area moderata, la situazione grottesca di diversi tronconi politici incompatibili. C’è un programma di modernizzazione liberale del paese, di incentivo allo sviluppo, di destatalizzazione ragionevole; e c’è un candidato premier riconosciuto dalla Lega e, a quanto si sa, non essendo arrivati ripensamenti, dal Ppi di Martinazzoli. Proprio Martinazzoli sembra la maggiore incognita di quelle ore. Si tratta di capire se ai suoi occhi il programma di Segni è improvvisamente peggiorato a causa dell’appoggio leghista, cioè per via di una misteriosa proprietà transitiva, oppure se il neonato Ppi intende partecipare in piena convinzione alla gara elettorale nell’ambito del raggruppamento liberale. Malgrado la riluttanza di Martinazzoli, che dà l’impressione di subire ogni ipotesi di accordo politico come un attentato all’integrità ideale e morale dell’ex Dc, e malgrado le probabili guerriglie della sinistra del partito capeggiata da Rosy Bindi, l’accordo Segni-Maroni sembra situarsi nell’interesse stesso dei Popolari: perché il nuovo orgoglio del Ppi, la rivendicazione del centro, la disponibilità a correre nella maggiore solitudine possibile, erano plausibili fin tanto che l’area liberale rimaneva bloccata dalle proprie idio sincrasie. Nel momento in cui i giochi si riaprono, e il bipolarismo così detestato da Martinazzoli ricomincia a delinearsi meno irrazionalmente di prima, il Ppi ritorna a essere la linea sismica su cui si scaricano tutte le tensioni del sistema politico. Può darsi che una definitiva scelta di campo provochi altri contraccolpi interni. Ma è sicuro che se restasse solo al centro di due schieramenti contrapposti, il Ppi verrebbe stritolato. En attendant Berlusconi E invece si tratta di pensieri oziosi. Basta solo un giorno perché Bossi laceri la tela dell’accordo. Non si era mai assistito in Italia, nemmeno all’epoca dei più spetta co lari conflitti fra Craxi e De Mita, a un gesto di tale spregiudicatezza e brutalità politica, con la distruzione estemporanea di un accordo faticosamente conseguito, accogliendo con un’alzata di spalle le accuse di inaffidabilità e accompagnando il tutto con una serie di clamorosi insulti verso il partner appena ripudiato («il lumacone bavoso se n’è tornato nella sua cavagna, nella cesta democristiana»). Ma nel momento in cui sparava a zero sull’accordo che avrebbe fatto nascere il polo liberale, orientandolo verso il centro e costringendo il Partito popolare di Martinazzoli a scegliere e forse a dividersi nuovamente, non c’erano alternative: Bossi doveva avere una strategia di riserva. Naturalmente, la strategia di riserva sarebbe consistita nel realizzare in tempi estremamente rapidi un accordo diverso, espressamente di destra, con Berlusconi e Alleanza nazionale. Accordo tuttavia di cui ancora non si vedeva traccia. Infatti, mentre Berlusconi filava d’amore e d’accordo con Alleanza nazionale, attraverso cui Fini stava cercando di spostare su posizioni di destra presentabile un partito ancora pieno di madame in nero e borgatari d’assalto, non si avevano ancora notizie sulle prospettive di una coalizione con la Lega. Anzi, Fini non mancava di accentuare polemica contro il federalismo, e la Lega non perdeva occasione per ostracizzare simmetricamente lo statalismo missino. L’unica cerniera possibile diveniva a questo punto Berlusconi. Ma con qualche inevitabile problema. Berlusconi è un imprenditore, mentre la Lega è un partito-società, diffuso in tutti gli strati sociali del Nord. Per i ceti produttivi e la borghesia imprenditoriale delle regioni settentrionali, il messaggio berlusconiano poteva risultare ancora più convincente di quello leghista, e questo poneva sul terreno un notevole problema di leadership e di convivenza. Ciò nonostante, senza un rapido accordo con Berlusconi il violento sabotaggio effettuato ai danni di Segni sarebbe risultato incomprensibile. Insomma, di Berlusconi avevano bisogno tutti. Ne aveva bisogno la destra, per potersi coalizzare superando le proprie idiosincrasie. Ne aveva bisogno la sinistra, innamoratasi dell’idea di poter lottare contro un avversario, anzi un nemico, così ben definito: il Cavaliere nero, il Piduista, il Ragazzo Coccodè del reaganismo all’italiana. Problemi a sinistra In politica, negli ultimi mesi della Prima Repubblica, si alternano alcune grandi previsioni generalmente infondate, che ripetute all’infinito acquistano solidità e autorevolezza, poi diventano certezze indiscutibili, e alla fine si sciolgono rivelandosi semplici leggende metropolitane. La prima leggenda, come forse si ricorderà, raccontava di un’Italia potenzialmente divisa in tre, con l’elettorato del Nord consegnato alla Lega, quello del Centro al Pds, e il Sud lasciato ai resti della Dc. Sono bastate le elezioni amministrative di novembre-dicembre per dimostrare che la situazione è molto più fluida del previsto. Gli stessi risultati del5 dicembre 1993 sono stati sufficienti per far circolare e rendere immediatamente «vero» e pressoché indiscutibile un’altro mito metropolitano: quello basato sulla convinzione per cui l’area progressista, orchestrata naturalmente dal Pds di Occhetto e D’Alema, è già il vincitore in pectore delle elezioni politiche di primavera. La certezza della vittoria della sinistra è talmente forte che, secondo le migliori tradizioni dell’opportunismo nazionale, comincia subito il mercato clandestino per un utile accasamento nella squadra del vincitore, o il gioco di ammiccamenti per guadagnarne il favore. Ora, che esistano numerosi raggruppamenti che si definiscono progressisti o di sinistra è in discutibile. Ma, questo della numerosità, è l’unico dato sicuro. Tanto per cominciare, è tutto da vedere che queste formazioni costituiscano uno schieramento con un minimo di omogeneità politica. Non a caso le maggiori discussioni sono state determinate proprio dal fatto che i progressisti moderati, in particolare Ad e i cristiano-sociali, vorrebbero rendere manifesta una pregiudiziale contro il veterocomunismo di Rifondazione (sintetizzando così una questione che riguarda tuttavia anche il populismo della Rete e l’estremismo di una parte dei Verdi). Certo, la convinzione indimostrabile che tutta la sinistra possa unirsi elettoralmente in un blocco vincente è stata suffragata dai risultati delle elezioni amministrative. Ma si è finto di non vedere che in questo caso era proprio il meccanismo a doppio turno con il ballottaggio a due che portava le ali estreme a convergere sulla persona del candidato rimasto in gioco. E così su Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli, Sansa a Genova e Illy a Trieste si è convogliato praticamente tutto il voto di sinistra, dai moderati agli estremisti. Non ci si accorge che ciò non sarà replicabile in modo automatico nelle elezioni politiche, che si svolgeranno a turno unico. Per dare luogo a uno schieramento di sinistra in grado di competere con buone chances di vittoria in ogni collegio uninominale occorrono infatti alcune condizioni che in quel momento appaiono tutt’altro che certe. Affermare, come fa Occhetto, che l’unica discriminante sono i programmi, è un modo per nascondere o rinviare i problemi. Problemi che sono più o meno i seguenti. In primo luogo la scelta del candidato premier, che ha un valore politico assai elevato, non solamente sul piano simbolico: se ad esempio il Pds, come si vocifera, candidasse Carlo Azeglio Ciampi, sarebbe automatico l’atteggiamento contrario di Rifondazione comunista e di tutta la parte più demagogica e protestataria della sinistra. In secondo luogo, c’è il problema della definizione delle candidature nei collegi uninominali, che mette in campo contraddizioni ancora più stridenti e politicamente rilevanti. In realtà, l’unica ipoteca sulla vittoria del cartello di sinistra, ampio o ristretto, frontista o liberal, rimane accesa per la concreta (ma temporanea) assenza di un’alternativa efficace. La solitudine del Cavaliere Ciò che cambia radicalmente la situazione è, naturalmente, l’entrata in gioco (la «scesa in politica») di Berlusconi. Con la sua irruzione, accompagnata da ironie e da attacchi violentissimi, si attua un vistoso spostamento negli equilibri. Agendo da cerniera fra Lega e Alleanza nazionale, Forza Italia riesce in brevissimo tempo ad accumulare un consenso che nessuno si sarebbe sognato di prevedere. E allora sarebbe il caso di cominciare a pensare che l’affermarsi di Forza Italia non è semplicemente il frutto maligno di una manipolazione via etere. Oltre che come leader «catodico», Berlusconi si propone come l’espressione di una politica di stampo neoconservatore, piuttosto simile a quella praticata negli ultimi quindici anni dai partiti di destra liberale nelle società avanzate (con la reaganomics negli Sati Uniti e con il thatcherismo nel Regno Unito, ma per certi aspetti anche con l’azione !iberista assunta dalla Cdu in Germania). Per quanto ancora piuttosto sommario e retorico, l’inno al laissez-faire intonato da Forza Italia incrocia le aspettative di quella consistente parte di italiani che da tempo subiscono con irritazione crescente l’invadenza e l’inefficienza dello Stato lottizzato dai partiti. Il messaggio berlusconiano cade in un terreno favorevole. Ma se tutto ciò è vero, se cioè la borghesia italiana era già in attesa di un Berlusconi capace di mobilitarla e di intrattenerla, la costituzione del «polo delle libertà» con la Lega di Bossi e l’Alleanza nazionale di Fini contiene al suo interno serie possibilità di rovesciarsi in un autogol. Il gioco dei tre cantoni allestito fra gli alleati per dividersi il territorio nazionale promette infatti buoni risultati immediati gravi instabilità nel futuro. Le tirate di Bossi, le pallottole promesse «ai nemici e ai falsi amici», le polemiche contro i «fascisti» e le aspre risposte di Fini non testimoniano certamente a favore della credibilità della nuova destra. Alla vigilia delle elezioni, si può pensare allora che sarebbe un notevole paradosso se un grande solitario come Berlusconi alla fine dovrà rimproverarsi di non avere sfidato «a tutto campo» il suo destino politico, di non essere stato protagonista fino in fondo, senza trattative, senza mediazioni e senza compagni di strada: come piace a lui, senza politica, visto che la destra era lì nella società, non nei tronconi politici che in modo così contraddittorio si candidano a rappresentarla. Perdere a sinistra Perdere le elezioni fa parte del gioco politico, ma c’è sconfitta e sconfitta. Per la sinistra, piuttosto che un insuccesso il responso delle urne costituisce una disfatta. Abbiamo visto che dopo le ultime amministrative si erano diffuse tra i progressisti autentiche ondate di euforia. Euforia che era cresciuta insidiosamente dopo l’assemblaggio della «gioiosa macchina da guerra» che aveva messo insieme gli spezzoni grandi e piccoli della sinistra, poiché la fine del «regime» sembrava avere come tranquillo approdo la sostituzione automatica del sistema di potere Dc-Psi con un’alternativa già fatta. Fra il sogno di una sinistra al governo e il risveglio da incubo sotto una maggioranza di destra passano numerosi errori, alcuni di tattica, altri di strategia. Gli svarioni tattici si possono individuare nell’improvvido tentativo (perseguito sin quasi alla fine della campagna elettorale) di delegittimare il centro, e nel conseguente sforzo di individuare in Berlusconi il male assoluto, con la malcelata convinzione che una destra demonizzata, affrescata con tratti demagogico-autoritari fosse più comodamente battibile: questa «costruzione del nemico», perfettamente riuscita, si è ritorta alla fine ai danni di chi l’aveva realizzata, con un contraccolpo di alta spettacolarità. È superfluo poi elencare i conflitti interni alla coalizione progressista, le contraddizioni fra la ragionevolezza espressa dagli uomini del Pds o di Ad e gli antagonismi provocatori e le intransigenze massimaliste di cui si è fatto portavoce Bertinotti. Vale invece la pena di sottolineare la strumentalità con cui a sinistra è stata agitata la questione giudiziaria, con il maldestro tentativo di influenzare sul piano della questione morale una partita politica che cominciava a prospettare un esito imprevisto. Tuttavia gli errori di percorso non devono far perdere di vista gli errori strategici, perché altrimenti si confonderebbe il sintomo con la malattia, con la prospettiva di sbagliare in modo grossolano anche la terapia futura. Sotto questa luce, è lecito per la sinistra deprecare lo spreco di oltre tre milioni di voti consegnati alle formazioni politiche (Psi, Ad, Rete, Verdi) che non hanno raggiunto la soglia per partecipare al recupero proporzionale, ma sarebbe insensato supplire con giustificazioni simili a un approfondimento delle ragioni della sconfitta adeguato alle dimensioni della sconfitta stessa. La sinistra ha perso innanzitutto perché è riuscita a offrire agli elettori solo il messaggio di una sostanziale continuità. Di fronte all’offerta politica della destra, cioè liberazione di risorse, miracoli occupazionali, ostentazione di fiducia negli animal spirits della società italiana, i progressisti non sono riusciti a contrapporre nulla se non un orizzonte grigio, dai contorni poco definiti ma in cui l’opinione pubblica poteva rintracciare qualcosa di piattamente simile al passato più recente. Vedi caso, nell’impossibilità di convergere su un premier, la sinistra moderata non ha saputo evocare altro candidato che Ciampi: vale a dire una soluzione non politica, una figura «tecnica» che configurava l’annuncio «badogliano» che la transizione continuava. È stato apprezzabile che in genere i progressisti abbiano evitato di fare promesse illusionistiche. Ma sul piano politico, mentre il loro avversario dava una scossa all’immaginario collettivo, hanno offerto l’impressione di continuare a proporre con estrema stanchezza intellettuale ricette consumate:da cui è lecito aspettarsi le parole di un programma liberale e una prassi fondata sui più solidi principi del progressismo vecchia maniera: molta retorica solidaristica, molta spesa pubblica, inclinazione verso il «lavorare meno lavorare tutti», con un sentore di socialismo reale fondato sulla distribuzione «equa» della povertà anziché sull’impulso allo sviluppo e alla creazione di ricchezza, possibili o forse inevitabili inasprimenti fiscali, anni di costosa protezione sociale senza nessuno scatto dell’economia. All’idea di una società bloccata, senza dinamismi interni, si confà quindi il ritratto di famiglia dello schieramento progressista in Parlamento: è riapparso infatti l’ectoplasma del vecchio Pci, nei due spezzoni del Pds e di Rifondazione comunista, e con una tenuta elettorale assicurata soprattutto dalle tradizionali regioni «rosse». E si profila quindi con urgenza drammatica la necessità di uno straordinario sforzo culturale, ancor prima che politico, al cui termine non c’è più la prospettiva frontista di mantenere unita tutta la sinistra contro il blocco delle destre, ma l’opportunità di procedere a marce forzate alla fondazione del «partito democratico». Democratico, senza nessun’altra aggiunta che abbia il sentore stantio dell’ideologia. L’enigma del centro La grande svolta politica di fine marzo è in realtà soltanto una tappa nel processo di cambiamento. Il gioco delle alleanze e la molla del sistema maggioritario hanno fatto scattare il congegno del bipolarismo, ma la macchina politica è ancora un artificio barocco. E possibile che una revisione della legge elettorale, insieme con profonde modificazioni istituzionali come l’ elezione diretta del presidente della Repubblica o del premier, possano perfezionare lo schema nella direzione del bipartitismo; ma oggi sarebbe fuorviante pensare che nel futuro immediato debbano essere le regole a cambiare la sostanza del gioco. Oggi l’esigenza principale è che siano nuovamente i processi politici a completare la trasformazione italiana. Cioè a fare della destra «una e trina», scarsamente amalgamata, ancora rissosa, una formazione coerente sul piano delle ispirazioni politiche e dei programmi di governo, e a trasformare l’approssimativa coalizione progressista in una forza omogenea e competitiva. Ma per raggiungere questo risultato occorre venire finalmente a capo dell’enigma del centro. Con una certa sufficienza, quasi tutti gli osservatori si sono limitati a constatare che l’alleanza fra Martinazzoli e Segni è stata schiacciata dalla tagliola del sistema maggioritario. I settantasette parlamentari centristi, eletti soprattutto con il recupero proporzionale, sono infatti la testimonianza vivente della scomodità sistemica, antologica, in cui si trova un «terzo polo» dentro un quadro bipolare. Ciò nondimeno, limitare l’analisi a questo aspetto sarebbe erroneo. E sarebbe inadeguato anche limitarsi a esaminare a ritroso le ragioni della sconfitta centrista. Martinazzoli lo ha fatto, e con la solita alta sensibilità estetica ne ha tratto le conseguenze e si è dimesso da segretario del Ppi. Ma in questo momento la questione del centro non riguarda più il passato bensì il futuro del sistema politico del nostro paese. Occorre considerare che, malgrado tutto, sono stati oltre sei milioni gli elettori che alla Camera, nella quota proporzionale, hanno votato per i Popolari o per il Patto Segni. Tutti illusi? Tutti incapaci di comprendere la fenomenale logica riassunta nell’espressione «o di qua o di là»? Oppure, peggio, tutti così irrimediabilmente orfani della Prima Repubblica, delle sue liturgie, del metodo proporzionale da non rinunciare a un voto inutile pur di esprimere inutilmente i loro sentimenti politici? Sono domande retoriche. Rimane piuttosto il fatto che nel cuore politico dell’Italia contemporanea aleggia il mistero doloroso di questi sei milioni di elettori che non hanno voluto saperne di accettare l’ultimatum della scelta fra destra e sinistra. E che questi sei milioni rappresentano oggi un bottino politico preziosissimo, dal momento che è difficile a questo punto ipotizzare che il centro riesca a sopravvivere come soggetto politico. Ora, il problema non è di osservare se Berlusconi aprirà una specie di campagna acquisti rivolta ai parlamentari ex democristiani più sensibili alle lusinghe di Forza Italia; e nemmeno se Roberto Formigoni e Rocco Buttiglione potranno essere un tramite per il dialogo fra destra e centro. Non è particolarmente utile neppure chiedersi a che cosa approderanno certi inviti del Pds, come l’offerta ai Popolari di qualche poltroncina nel prossimo governo ombra della sinistra. Può darsi che il destino del centro non sia segnato dal destino del Ppi e di Segni, e neanche dalle scelte dei pochissimi parlamentari eletti tra le file del Patto per l’Italia, ma dalla posizione che in futuro assumeranno quei sei milioni di elettori che (probabilmente per l’ultima volta) hanno scelto di esimersi dal dilemma destra o sinistra. Risultano quindi assai significative in questo senso le dichiarazioni espresse da Berlusconi nei giorni successivi al voto, che non sono intonate su slogan di destra neoconservatrice del tipo «lo stato sociale si abbatte e non si cambia», ma si caratterizzano per un’esplicita inclinazione centrista. Forse è il segno che il vincitore delle elezioni ha intravisto l’opportunità di trainare dalla propria parte gli elettori del centro (gli è già riuscito di svuotare di elettori la Lega, che ha aumentato i parlamentari ma ha perso voti). E se anche da sinistra venisse il segnale di un’attenzione precisa verso questi elettori quasi senza più partito, se insomma le due tendenze politiche principali dovessero moderare il loro profilo per offrire una sponda ai cittadini travolti dal fiume del maggioritario, il sacrificio di sei milioni di elettori, così inattuale e democraticamente drammatico, non sarebbe stato del tutto inutile. Conclusioni Molti fattori hanno contribuito alla fine della Prima Repubblica. Alcuni di essi, come l’inchiesta Mani pulite, hanno agito contro i partiti. Altri, come i referendum elettorali, hanno giocato contro le regole precedenti. Ma né le inchieste giudiziarie né il cambiamento dei sistemi elettorali, da soli, possono cambiare la storia. E la nostra storia ci dice che in Italia il bipartitismo (certo, ben peggio che imperfetto) esisteva già, ed era fondato sulla Dc e il Pci. Forse sarebbe una buona cosa che alla fine dei molti prodigi che si sono osservati nella luce radente del tramonto del regime, il nuovo bipartitismo, un po’ meno imperfetto, sia basato da un lato sugli eredi del Pci, già ampiamente revisionati ideologicamente e definitivamente socializzati alla democrazia liberale; e dall’altra parte – non appaia troppo sorprendente – sugli eredi della Dc. Perché potrebbe darsi che gran parte del lascito democristiano, e non solo il patrimonio elettorale, abbandonato il vecchio simbolo scudocrociato, sia finito o sia in procinto di finire sotto le insegne di Forza Italia. Il prodigio della destra, la vera magia allestita da Berlusconi attraverso lo scintillio di milioni di antenne e il baluginare degli schermi televisivi, consisterebbe allora nell’avere sciolto per sempre l’equivoco democristiano, e contemporaneamente nell’ avere rivelato agli italiani che potevano, senza più complessi di inferiorità, dichiarare a se stessi la propria moderata inclinazione a destra: cioè quello che erano sempre stati e che non avevano mai potuto essere del tutto.

Facebook Twitter Google Email Email