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La fatica del centrosinistra

11-12 2004

Il centrosinistra contemporaneo, chiamiamolo così per distinguerlo dal centrosinistra «storico», ossia quello di Moro, Nenni e Fanfani, è nato agli inizi del 1995, un po’ per caso e un po’ grazie a un’invenzione della fantasia politica di Beniamino Andreatta, che con l’indicazione di Romano Prodi come possibile leader dello schieramento alternativo al Polo delle libertà intendeva bloccare la deriva a destra impressa da Rocco Buttiglione al Partito popolare. La scena madre della nuova fase politica è fotografata dalla piccola folla di giornalisti che si precipitano a Bologna per raccogliere le dichiarazioni di Romano Prodi nell’atrio del centro studi Nomisma. Ma il senso più autentico di quell’avvenimento è che con quelle dichiarazioni, e con il successivo impegno di Prodi in politica, cominciava a svilupparsi lo schema della «macchina bipolare», che aveva fatto sentire i suoi effetti nelle elezioni politiche dell’anno precedente, ma il cui funzionamento non si era ancora dispiegato in modo compiuto. La campagna elettorale del 1994 era stata segnata infatti dall’esplicarsi di un bipolarismo largamente imperfetto. A destra, l’inventore e il trascinatore di Forza Italia, Silvio Berlusconi, aveva costituito un’alleanza a doppia struttura, a Nord il Polo delle libertà con la Lega (impegnata in una vocale campagna «antifascista»), nel Centro Sud il Polo del buon governo in compagnia dei postfascisti di Gianfranco Fini: una geometria variabile che si imperniava sul neopartito Forza Italia come pilastro della coalizione, e giocava gli alleati a seconda degli interessi territoriali e delle tradizioni locali. La sinistra a sua volta aveva raccolto un ampio cartello di forze piuttosto eterogenee, la «gioiosa macchina da guerra» secondo la definizione con cui Achille Occhetto aveva ribattezzato la variegata coalizione dei progressisti. E al centro si presentava invece il Patto per l’Italia, la formazione che raccoglieva i Popolari guidati da Mino Martinazzoli e i simpatizzanti del leader referendario Mario Segni. Il formato della competizione elettorale fu fortemente influenzato dal sistema dei media. Giornali e programmi televisivi ebbero un ruolo essenziale nell’imprimere sull’opinione pubblica l’idea che la politica si modellava ormai secondo una dottrina maggioritaria espressa dall’imperativo «o di qua o di là». La presenza di un terzo polo centrista ancora elettoralmente rilevante, come avrebbero messo in luce i risultati del 27-28 marzo, fu sostanzialmente oscurata; il confronto più importante avvenne negli studi di Canale 5, dove Berlusconi e Occhetto si fronteggiarono in un dibattito che seppure non rilasciò un chiaro vincitore, servì tuttavia a confermare nell’opinione pubblica la convinzione che il bipolarismo italiano si era già costituito. Stretto fra i due contendenti maggiori, il Patto per l’Italia ottenne oltre sei milioni di voti, che furono ampiamente sacrificati dal sistema maggioritario. Inoltre, la coalizione vincitrice non riuscì a ottenere la maggioranza al Senato, quasi un’anticipazione delle difficoltà che avrebbe incontrato sulla sua strada successiva, e che avrebbero portato al «ribaltone» nelle prime settimane del 1995. Sono forse sufficienti queste brevi annotazioni per rendere chiaro che dieci anni fa il bipolarismo era ancora un auspicio più che una realtà politica solidificata; e che il centrosinistra, in realtà, non esisteva ancora. Dunque il centrosinistra viene partorito nei primi giorni di febbraio 1995, e questa nascita si manifesta con alcuni segni lievemente straordinari. In primo luogo perché la dislocazione a sinistra di molti suoi protagonisti non è affatto automatica. Lo stesso leader del futuro schieramento, Romano Prodi, è sempre stato politicamente un moderato. Il fatto è che a mente fredda si può riconoscere facilmente che nel destino italiano doveva esserci la formazione di un partito popolar-conservatore, non alieno dai temi della modernizzazione socioeconomica, simile per certi versi alla Cdu tedesca. Ma il candidato principale e quasi fisiologico alla leadership di questo schieramento virtuale, Mario Segni, si era convinto su base teorica che non esistesse nel nostro Paese uno spazio politico di destra, e che l’elettorato moderato dovesse essere raccolto con una manovra progressiva e avvolgente che muovesse da sinistra. Seguendo questo modulo, si era fatto scippare la rappresentanza dei moderati e dei conservatori da Berlusconi, ed era rifluito in una posizione centrista, scomodissima in seguito alle nuove regole elettorali. Dunque il centrosinistra nasce in ritardo. E comincia a delinearsi, nella sua parte «non postcomunista», prima di tutto, cioè prima di ogni considerazione politica o ideologica, come l’esito di una specie di insurrezione etica, o di ripulsa estetica: vale a dire che essa è ispirata da atteggiamenti politici, morali e psicologici in cui la scelta viene dettata in esplicito contrasto rispetto alla figura di Silvio Berlusconi. C’è un montaliano «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» nella decisione di una parte dell’elettorato cattolico e centrista di rifiutare le lusinghe berlusconiane: può essere l’insofferenza per il «partito di plastica», per le scatole elettorali con il kit del candidato, per la posizione di monopolista dell’informazione del magnate televisivo fondatore di Forza Italia, per la sua azione contro la magistratura, per la strumentalizzazione dei temi cattolici, per la rivendicazione altrettanto strumentale del pensiero di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi, per l’alleanza con i secessionisti di Umberto Bossi o per l’insofferenza verso la cultura degli altri alleati, i postfascisti non ancora del tutto «post» che Gianfranco Fini sta tirando fuori da un ghetto politico cinquantennale. Nasce, il centrosinistra, e viene subito frainteso dai suoi oppositori e dai suoi critici più maliziosi, molti dei quali ci vedono un riflesso dello spirito «consociativo» che per decenni di vita repubblicana avrebbe regolato i rapporti fra la sinistra democristiana e il Partito comunista. Il fraintendimento principale riguarda la convinzione che la sinistra Dc abbia sempre patteggiato politicamente con i comunisti: mentre in realtà tutta la filosofia politica dei democristiani di sinistra era sempre stata rivolta a competere con il Pci, non a cercare accordi sottobanco sulla scia di un malcelato idem sentire. I negoziati clandestini si sviluppavano eventualmente nelle aule parlamentari, come la tela di un compromesso sulla spesa pubblica e come tutela contrattata dei propri elettorati e di fasce di elettorato contigue. Ma, almeno dal punto di vista dell’ispirazione ideale, la sinistra democristiana non era affatto tributaria dell’egemonia comunista; insomma non soffriva di complessi di inferiorità politica. Nella sua storia, aveva visto Giuseppe Dossetti affrontare Giuseppe Dozza, e ottenere il più alto risultato mai raggiunto a Bologna dalla Dc; Amintore Fanfani pensava alla Dc come a un partito che fosse integralmente concorrenziale con i comunisti; sotto la regia di Aldo Moro, la formazione del centrosinistra «storico», nei primi anni Sessanta, rappresentava anche una risposta strategica all’insediamento comunista nelle classi lavoratrici. Questo fraintendimento primario riguardava quindi l’incontro storico, quasi una realizzazione attardata del «compromesso» berlingueriano, fra cattolici di sinistra e postcomunisti, che talvolta dava spazio nella polemica al recupero di termini apparentemente obsoleti come «cattocomunismo». Mentre il fraintendimento accessorio riguardava proprio la figura di Prodi, interpretato come un «dossettiano» anche da osservatori di solito attenti alle sfumature della politica. Di dossettiano Prodi aveva poco, al massimo la deferenza per la testimonianza del monaco e l’ammirazione per la cruciale, spietata lucidità analitica dell’ex politico. Gli si poteva attribuire infine un qualche cromosoma della sinistra Dc in quanto esponente di una tecnostruttura legata alle partecipazioni statali e all’Iri: ma seguire su questa strada la figura di Prodi significava sfumarla in un equivoco, attribuendole un accento ideologico che egli non aveva mai avuto. E questo gioco degli equivoci non vedeva in realtà il punto vero, rappresentato da ciò che sarebbe emerso più tardi come un’autentica fatica del centrosinistra. Si trattava infatti di mettere insieme culture che erano state avversarie. Anzi, di più: per numerosi elettori, si trattava di dichiarare superato un confine con il vecchio Partito comunista, con i suoi simboli, le sue fissazioni ideologiche, le sue cerimonie, i suoi slogan, e di attestare la chiusura definitiva della pregiudiziale anticomunista. Che si trattasse di un compito tutt’altro che facile fu testimoniato dai rapporti difficili e altalenanti fra Prodi e alcuni dirigenti ex comunisti. La difficoltà ontologica di questo rapporto venne fuori con nettezza dopo due anni e mezzo di governo, allorché nell’ottobre 1998 l’esecutivo Prodi fu battuto e cadde alla Camera. In quei giorni tutte le diversità, le ostilità serpeggianti, le diffidenze, le sospettosità che erano state stemperate dalla vittoria elettorale del 1996 riemersero con un vigore inusitato. La battuta d’arresto era stata terribile. Senza necessariamente sopravvalutarla con il tepore del «come eravamo», si può dire infatti che quell’esperienza di governo poteva davvero essere decisiva per stabilizzare l’alleanza di centrosinistra. Prodi si era presentato all’opinione pubblica proponendo l’Ulivo come una forza di governo che avrebbe saputo modernizzare l’Italia nel rispetto degli equilibri sociali, ossia senza le pulsioni slabbrate di cui aveva fatto mostra il centrodestra nei sette mesi del primo governo Berlusconi. La sua figura di cattolico costituiva la garanzia firmata che l’inedita alleanza con gli eredi del Pci sarebbe stata guidata senza cedimenti: al punto che mentre la gerarchia vaticana aveva continuato a guardare con diffidenza all’esperimento dell’Ulivo, la maggioranza dei parroci aveva fatto catechismo elettorale a favore del centrosinistra; e la base cattolica, il volontariato, i boy scout, l’associazionismo, i fedeli più impegnati nella vita delle comunità ecclesiali avevano visto nel movimento prodiano un’alternativa promettente, o se si vuole rassicurante, rispetto al messaggio berlusconiano. Si potrebbe anche aggiungere che nella legislatura 1996-2001 la prima fase di governo, con Prodi a Palazzo Chigi e Carlo Azeglio Ciampi al ministero del Tesoro, ha rappresentato il governare «per», in vista di obiettivi specifici. La seconda parte della legislatura, invece, con gli esecutivi di Massimo D’Alema e Giuliano Amato, ha costituito soprattutto una fase semiobbligata di resistenza al ritorno di Berlusconi. C’è da considerare che nel 1996 l’Ulivo non aveva un vero e proprio programma (esistevano soltanto le «88 tesi» di Prodi, una specie di sommario del programma possibile): Prodi e Ciampi impostarono gran parte della loro azione sul rientro nei parametri del trattato di Maastricht, mettendo al centro della loro iniziativa l’ingresso nell’area della moneta unica. A questo obiettivo di fondo si aggiungeva un progetto di riqualificazione selettiva degli apparati di stato sociale, a cui era stata preposta una commissione apposita, presieduta dall’economista Paolo Onofri. Queste direttrici apparivano in grado di fare da crogiuolo politico-culturale all’intero centrosinistra: da un lato il traguardo europeo era il coronamento della vocazione europeista promossa negli anni Cinquanta da De Gasperi; dall’altro la ristrutturazione del Welfare State rappresentava un cospicuo sforzo di modernizzazione delle strutture italiane, su cui poteva misurarsi adeguatamente l’indole riformista dell’Ulivo. Il fallimento di questa esperienza, segnato dalla caduta del governo Prodi, può essere analizzato sotto molteplici profili. Ma il profilo che qui interessa puntualizzare è dato dall’«egoismo di partito», dal prevalere della ricerca di un assetto politico diverso rispetto all’approfondimento della capacità programmatica della coalizione. In sostanza, l’Ulivo cade nel 1998, travolto e sostituito da un’operazione di trasformismo parlamentare, che cambia la composizione della maggioranza: e da quel momento rimane poco delle intenzioni originarie del centrosinistra, e soprattutto rimane poco delle ambizioni che avevano mosso l’esperimento di Prodi. Se con il successo del 1996 si erano poste le condizioni per mettere alla prova forze politiche differenti, suggerendo la possibilità che il loro incontro potesse mobilitare anche vari settori di elettorato, e che questo producesse un melting pot capace di omologare una vasta area di centrosinistra, contaminando le culture e producendo una sintesi politica originale, con la seconda metà della legislatura lo schema politico cambiava dunque radicalmente. Dietro l’immagine politicista del «centro-sinistra-col-trattino» si manifestava la nozione che lo schieramento non fosse dinamico, che non ci fossero in gioco elementi evolutivi, e che l’alleanza dovesse riguardare specificamente i rapporti fra i partiti, entità in sé conchiuse e gelose della propria identità. Con un addio sostanziale, dunque, all’ipotesi che nell’Italia che aveva attraversato il deserto infuocato degli anni Novanta, la dissoluzione e la metamorfosi di quasi tutti i partiti, potesse sorgere un’identità politica e culturale di centrosinistra, non troppo dissimile dall’impostazione strategica del New Labour, il «centro radicale» di Tony Blair; oppure dalla ricollocazione della Spd nella «neue Mitte», il nuovo centro a cui si riferiva spesso il socialdemocratico revisionista Gerhard Schröder. Va visto sotto una luce simile anche il dilemma della scelta del candidato premier alle elezioni del 2001. La scelta fra il premier uscente, Giuliano Amato, e l’alternativa rappresentata da Francesco Rutelli non dipendeva soltanto dalle caratteristiche personali dei due uomini politici, dalle qualità loro attribuibili, dalla cultura e dalla tradizione che proponevano. Per come veniva percepito dagli osservatori, e al di là del valore delle due personalità politiche, era piuttosto il confronto fra una visione del centrosinistra come alleanza tra soggetti politici non riducibili a unità (Amato) e una concezione invece (quella impersonata dall’ex sindaco di Roma) propensa a intravedere perlomeno nel mediolungo periodo la possibilità di un’integrazione tra le forze politiche dello schieramento. Si sa che il dibattito in genere bizantino sulla natura e sull’articolazione del centrosinistra è una delle esercitazioni più faticose che possano essere inflitte agli elettori, ai cittadini, ai simpatizzanti e perfino agli antipatizzanti dell’Ulivo. Non è neanche il caso di ricordare che ormai da tempo i cittadini hanno capito e assimilato il funzionamento del sistema bipolare, e che entro tale contesto gli elettori di centrosinistra sembrano sempre più interessati al risultato dello schieramento e sempre meno sensibili al riconoscimento dei singoli partiti. È utile semmai valutare quale sia il prezzo imposto da una coalizione imperfetta. Perché l’Ulivo mancato, vale a dire ogni incidente di percorso nella costruzione del «partito democratico» (secondo la dicitura di Michele Salvati), ogni sbandamento, ogni slittamento viene interpretato come il riemergere di divisioni lontane. Sarebbe sciocco negarlo: ogni battuta d’arresto nel processo di integrazione ulivista implica il riaffiorare automatico di vecchie pregiudiziali. Tutto questo contiene un che di paradossale, se si pensa al fallimento effettuale del governo della Casa delle libertà. Un fallimento così plateale, testimoniato dal siluramento del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che risulta complicato attribuirlo a ragioni politiche certe. Le categorie classiche adottate in questi casi, come i veti interni alla coalizione, la conflittualità delle culture dei diversi partiti, l’incompatibilità dei progetti di lungo periodo, sembrano inadeguate a descrivere l’inabissamento politico-economico della Casa delle libertà, anche senza citare esempi rivelatori come il caso di provincialismo espresso con la candidatura di Rocco Buttiglione a commissario europeo e il disastro del suo multilingue discorso d’esordio. Sta di fatto che proprio la constatazione della cattiva prestazione del centrodestra rende incomprensibile l’incapacità dello schieramento di centrosinistra di proporsi come alternativa credibile. L’effetto complessivo comunque è notevole, e invita a spiegazioni che si situano fra la sociologia e la psicologia collettiva. Un grande studioso come Albert Hirschman ha provato a suo tempo a descrivere il processo sociale attraverso modelli non politologici e non economici: la lealtà, le passioni, l’intransigenza, la felicità privata e pubblica. Qui da noi, viene la tentazione di interpretare lo stallo dell’Italia contemporanea chiamando in gioco un’altra categoria: la stanchezza. Il Paese, evidentemente, è stanco. È stanca la società italiana, è stanca l’opinione pubblica, è stanca l’opposizione, se è vero che assiste con impotenza al tentativo di sostituire la Costituzione del ’48 con la farragine di un regolamento di condominio. Sono stanchi i cattolici, sintomaticamente divisi, come si è visto alla Settimana sociale di Bologna, fra una base insofferente verso gli sbreghi costituzionali del centrodestra e la gerarchia ruiniana che si sforza di mantenere l’equilibrio diplomatico di potere con la Casa delle libertà. Ed è stanco l’establishment economico del Paese, nonostante gli appelli di Luca Cordero di Montezemolo, se è vero che lo strato dei poteri cosiddetti forti è continuamente percorso da segnali di fumo neocentristi. Le ragioni di questa stanchezza risultano un po’ più chiare se si pensa allo sforzo colossale prodotto negli anni Novanta per uscire dalla crisi mortale dei partiti storici, alla costruzione del sistema dell’alternanza, alle frustrazioni della riforma istituzionale. Ma anche fuori dalla politica la società italiana risulta sfibrata. L’apertura al mercato e alla concorrenza è stata vissuta dai cittadini come una sequenza di promesse mancate. Le privatizzazioni hanno sostituito ai monopoli pubblici una serie di monopoli privati, con ripercussioni ovvie sulle tariffe. Lo sforzo del risanamento finanziario è stato scialacquato dal governo Berlusconi, e l’adozione dell’euro è stata attuata con un laissez-faire che per un verso esprimeva l’euroscetticismo della coppia Berlusconi-Tremonti, e per l’altro strizzava d’occhio all’elettorato di centrodestra in grado di approfittare del cambio. Sotto questa luce forse diventa più interpretabile anche lo stallo del centrosinistra. Come si era anticipato, anche il cammino che ha condotto all’Ulivo è consistito in uno sforzo micidiale, pieno di fatica, privo di catarsi; la sconfitta del 2001, amplificata dal sistema maggioritario, ha richiesto mesi e mesi prima di essere metabolizzata; inoltre lo stillicidio delle polemiche quoti diane, favorito dalla lunga assenza brussellese del candidato leader, insieme con il piccolissimo cabotaggio delle insofferenze reciproche e degli interessi frazionali, ha fatto riemergere di continuo fissazioni identitarie. È per questo che la leadership ulivista è costretta a rilanciare continuamente. Prima la Lista unitaria («Uniti nell’Ulivo») alle elezioni europee, poi la federazione dei partiti che la componevano, quindi le primarie per sottolineare l’autonomia del leader dalle centrali di partito, poi la Grande alleanza democratica (Gad). Sarà probabilmente la marcia di avvicinamento alle elezioni politiche del 2006, e la sensazione collettiva dell’approssimarsi di un’ordalia con la Casa delle libertà, a spegnere la conflittualità interna e a sintetizzare le posizioni del centrosinistra, ben più che le trattative sul programma e l’appuntamento con le primarie. Ciò che sarebbe un errore trascurare, tuttavia, è che ancora oggi il centrosinistra appare uno schieramento a elevato tasso di precarietà, la cui possibilità di successo politico dipende da un accordo pur sempre problematico con un partito estremo come Rifondazione comunista, e la cui affidabilità programmatica è una conseguenza della minutissima trama di trattative quotidiane con i componenti minori della coalizione. Le elezioni europee hanno già fornito un indizio importante, dal momento che il sistema proporzionale ha indotto i partiti più piccoli a presentarsi da soli, fuori dalla Lista unitaria. Se è bastato questo appuntamento, rilevante ma non certo politicamente non risolutivo, a provocare una defezione così significativa, si può immaginare quale sia il rischio, o la minaccia, che incombe sulla Grande alleanza democratica, la coalizione estesa che dovrebbe essere competitiva con il centrodestra. Vale a dire che la tenuta del centrosinistra oggi e domani è determinata da due fattori: o meglio, dal peso di una personalità politica e dal ruolo di una questione regolamentare. La figura centrale del bipolarismo italiano contemporaneo è naturalmente quella di Berlusconi, federatore del centrodestra, dominus della Casa delle libertà e grande fattore di coagulo del centrosinistra. Il complesso di regole che contribuisce a tenere insieme lo schieramento ulivista è invece il sistema maggioritario. Si sa da tempo che la Casa delle libertà ottiene risultati peggiori nei collegi rispetto alle proprie chance nel proporzionale. Anche nelle elezioni del 2001 la differenza fra le due coalizioni nella quota maggioritaria era molto risicata. Gli analisti hanno sostanzialmente smentito o assai ridimensionato la tesi retorica di un migliore rendimento del centrosinistra nei collegi uninominali grazie all’Ulivo come «valore aggiunto». Rimane comunque il fatto che anche alle elezioni europee, svoltesi con il sistema proporzionale, la Casa delle libertà è riuscita praticamente a impattare il risultato del centrosinistra, nonostante il tracollo di 8 punti di Forza Italia (mentre nelle contemporanee elezioni amministrative, svoltesi con logica maggioritaria, il cattivo risultato si è tradotto in una batosta). È questa probabilmente la spiegazione dell’interesse di Silvio Berlusconi per i progetti proporzionalisti. Ai suoi occhi il sistema proporzionale è una sorta di «arma letale», che presenta almeno due caratteristiche vistosamente favorevoli alla sua coalizione: per un verso il ritorno al sistema proporzionale intensificherebbe a dismisura la «corsa all’identità» nel centrosinistra, con effetti tendenzialmente disgregativi; per un altro verso potrebbe smuovere qualcosa nelle aree politico-elettorali vicine all’attuale discrimine bipolare, rendendo meno vincolante l’appartenenza di certe frange centriste alla Grande alleanza prodiana. Di sicuro renderebbe molto più problematico lo sforzo di Prodi di porsi come «superatore delle identità», interlocutore diretto dei cittadini e delle culture. Si capisce quindi piuttosto facilmente che il futuro di un centrosinistra reso spesso euforico dalle tornate elettorali parziali, in cui ha regolarmente battuto il centrodestra, dipende in larga misura dalle condizioni strutturali in cui avverrà la competizione. Ma quali che siano queste condizioni, quali che siano le regole di fondo, posto che il centrosinistra esiste perché esiste il bipolarismo, e quindi una proposta di governo alternativa a quella di Berlusconi, la tenuta della Grande alleanza democratica dipende anche dalla qualità e dalla credibilità dei suoi programmi di gestione del Paese. Non ancora il programma totale, la meraviglia delle meraviglie che verrà sbandierata in vista dell’appuntamento finale: ma almeno quelle linee che servono per convincere i ceti sedotti e abbandonati dalla Casa delle libertà che il centrosinistra rappresenta un’opportunità seria per tornare sulla terra senza schiantarsi nell’impoverimento, nell’inflazione, negli stipendi taglieggiati; e per indurre anche l’establishment economico e di potere alla persuasione pratica che, fallito il centrodestra, logica vuole che si affidi il mandato all’alternativa rappresentata dal centrosinistra. Senza chiacchiere neocentriste, senza fumisterie scettiche, senza nostalgie veterodemocristiane. Così vorrebbe la linearità del sistema esistente: nel 2001 si è data fiducia alla destra, che se l’è giocata malamente. Lo aveva detto in quella stagione avventurata un’apprendista intelligente e provocatoria della politica italiana: «Provate Berlusconi. Se non è capace, lo cacceremo via con un calcio nel di dietro». Si chiamava e si chiama Iva Zanicchi, è l’ex Aquila di Ligonchio: e nonostante tutte le sottigliezze interpretative, e tutte le manipolazioni possibili per rifare la maionese molle del proporzionale, il centrosinistra potrebbe trovare molto utile rivendicare la giustezza rigorosa, letterale di questo schema, e opporsi con durezza a tutti gli altri.

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