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Il maestro e Paolino

30/09/2004

A vedere le puntate televisive di "Della vita e del potere", il programma di Marco Giudici e Raffaella Spaccarelli che va in onda su Raisat Extra (lunedì 27 e martedì 28 alle 22 le ultime due), Eugenio Scalfari e Paolo Mieli sembrano due contendenti che finalmente hanno deposto le armi. Sono lontani i tempi in cui c’era una competizione neanche troppo subliminale, avviata con le carinerie paterne di Barbapapà: "Vediamo che cos’ha fatto oggi il nostro Paolino" e proseguita con esorcismi piccati verso uno dei componenti della "banda di "Pagina"" (che fu il mensile antesignano di "Liberal" e forse del "Foglio", diretto da Ernesto Galli della Loggia, con la partecipazione fra gli altri di Mieli, Pierluigi Battista e Giampiero Mughini). Il fatto è che dopo 18 anni a "L’espresso" e due a "la Repubblica" Mieli era diventato troppo grande per poter continuare a fare il numero due. » vero che Scalfari era un monumento vivente e operante, l’uomo che aveva realizzato un’iniziativa editoriale più che ambiziosa, rivoluzionaria per l’Italia alla metà degli anni Settanta, ossia l’invenzione, il decollo e la crescita di un quotidiano che ha cambiato lo stile giornalistico del nostro paese. Ma Scalfari non era soltanto un direttore: era l’editore, un agitatore culturale, un uomo politico, il capo, secondo i malevoli, del "partito di Scalfari". Ingombrante? Ingombrante. Perchè dietro la scrivania e la poltrona di Scalfari si poteva vedere il profilo di Mario Pannunzio, e la folla dei collaboratori del "Mondo", gli eredi del partito d’azione, Ernesto Rossi, il rapporto con l’establishment laico. E poi il creatore di una formula giornalistica, prima con "L’espresso" e poi con "la Repubblica", circondato da un ambiente, da un gruppo di famiglia, da amici importanti che potevano chiamarsi Italo Calvino o Guido Carli. Insomma, un uomo portatore di una linea politica senza tentennamenti, interpretata con una personalità fortissima, dotata del gusto della polemica come anche di una propria linea culturale. Mentre Mieli era un giornalista, e un giovane intellettuale, che aveva cominciato a fare i conti con la propria appartenenza giovanile alla sinistra estrema, con i tempi di Potere operaio, quando "era sufficiente portare una velina rossa in redazione per vedersela pubblicata", perchè in Italia "era in corso la rivoluzione, anche se non abbiamo voluto accorgercene, e molti hanno fatto finta di niente". Tanto più che il luogo deputato di Scalfari era la via Veneto ben prima della dolce vita, con l’ambiente liberale dei Carandini, Cattani, Libonati. "Profondamente laici – avrebbe scritto nel suo libro "La sera andavamo in via Veneto" – ma profondamente religiosi. Sobri. Di solito longilinei. Di solito benestantiä Era l’Italia dei galantuomini". Mentre il santuario intellettuale di Mieli era stato l’aula di Renzo De Felice, di cui era stato l’assistente, e più tardi il proprio studio romano in cui ospitava almeno tre pomeriggi la settimana lo storico Ernesto Galli della Loggia. Pazienza per De Felice, il cui "opus magnum" sulla vita di Mussolini aveva le pezze d’appoggio di un archivio indiscutibile, e le cui attestazioni revisionistiche sul "consenso" in età fascista erano il frutto di una storiografia laica, praticata con attenzione certosina alle minuzie documentarie. Ma il legame di amicizia intellettuale fra Mieli e Galli della Loggia doveva essere guardato con sospetto da Scalfari. Se De Felice era lo studioso che aveva secolarizzato l’analisi del Ventennio, trattandolo con la freddezza di un entomologo, "il professor Ernesto" era un polemista fastidioso, partito da sinistra per arrivare chissà dove, alla "morte della patria", alla defezione dalla sinistra. Eppure Scalfari cercò addirittura di prenderselo, quando andavano di moda le discussioni sul "polo laico": e Galli della Loggia scrisse alcuni articoli per "la Repubblica" sui laici, la laicità e il suddetto polo nascente o morente, suscitando uno scandaletto polemico che pose rapidamente fine alla tormentata collaborazione. Quindi doveva andarsene, Mieli, per trovare una propria strada che non interferisse con il binario di Scalfari. Ma non fu la sua uscita da "la Repubblica", per quanto dolorosa per il fondatore-direttore, e il suo arrivo a "La Stampa", a segnare le differenze. Durante la sua direzione torinese, "Paolino" mise a punto il metodo che poi avrebbe sperimentato al "Corriere della Sera". A Torino dovette fronteggiare l’onda d’urto costituita dalla pubblicazione su "Panorama" della lettera con cui uno dei numi tutelari dell’azionismo torinese, Norberto Bobbio, si era rivolto al duce per testimoniare la sua lealtà al regime, in modo da non ricavarne danni nella carriera universitaria. Sulla colonna di apertura del giornale dell’Avvocato, Bobbio fu indotto a scrivere che aveva rimosso l’episodio e che se ne vergognava. Mieli sembrò uno spettatore che guarda con scetticismo sia i rigori dell’azionismo sia le debolezze degli azionisti. Il cambio deciso di rotta avvenne con il passaggio al "Corriere della Sera". Oggi Scalfari riconosce al suo vecchio allievo di avere trasferito la lezione di "Repubblica" al quotidiano milanese. Di avervi introdotto la maggiore invenzione stilistica di Scalfari, la "settimanalizzazione". Gianni Agnelli l’aveva definita più icasticamente: "Mieli ha messo la minigonna a una vecchia signora". Cioè aveva inventato il "mielismo". Termine che non gli piace: "» stato usato per mettere alla berlina il mio stile, esagerandone i tratti, a partire dalla sdolcinatura del cognome che porto". Lui lo chiama "metodo Mieli". Filippo Ceccarelli ne ha dato una definizione memorabile, che cominciava così: "Inconfondibile miscela di spirito alto e materia bassaä", e si concludeva citando il gusto per il gossip e il mielistico "spargimento di polpettine di zizzania" fra intellettuali e politici. Dove ancora oggi, passate le tempeste, Scalfari e il suo ex allievo non vanno per nulla d’accordo è sul concetto di "terzismo", coniato da Mieli per definire chi non si schiera politicamente da una parte o dall’altra, ma è disposto ad ascoltare le ragioni degli altri. Per Scalfari tutto questo è figlio del cerchiobottismo: "Assai labile mi appare il confine tra terzismo, opportunismo e trasformismo". Eppure il vecchio pupillo, figlio del comunista apostata Renato Mieli, non si era tirato indietro nei momenti cruciali della politica italiana. Se Scalfari aveva accolto la discesa in campo di Berlusconi, nel gennaio del 1994, titolando beffardamente sul "ragazzo Coccodè", poco prima delle elezioni del 1996, insediato sulla massima poltrona di via Solferino, Mieli si era espresso con franchezza: "Val la pena di dire subito il più chiaro possibile quel che pensiamo noi: noi non ci auguriamo la vittoria del Polo se, come sembra, questo sarà guidato da Silvio Berlusconi e questi si candiderà a tornare a Palazzo Chigiä Inutile far giri di parole: come questo giornale non si è stancato di ripetere dall’inizio del 1994, Berlusconi non può fare il presidente del Consiglio". Dopo di che, il duello continuerà. Perchè Mieli produce opinioni con la sua rubrica delle lettere sul "Corriere", dove compara testi e dichiarazioni, allinea le ragioni e i torti degli uni e degli altri, in una specie di continua disputatio filosofica, mostrando le insufficienze e gli ideologismi della sinistra insieme alle grossolanità e agli errori della destra. Mentre Scalfari, nel suo lungo editoriale di ogni domenica su "la Repubblica", continua a seguire la strada maestra delle sue origini. Vale a dire quel piglio di laicità intransigente, con la fedeltà ai numeri della politica economica, e l’insofferenza per i contabili creativi. Con quel gusto che gli viene rimproverato dai suoi avversari, specialmente dal "Foglio" di Giuliano Ferrara, che ne fa uno degli ultimi esemplari di antitaliano, "sprezzatore dell’Italia alle vongole". Che gli fece dare credito a Ugo La Malfa, che aveva la sua stessa cultura, ma anche a Ciriaco De Mita, un po’ perchè sembrava una reincarnazione tecnocratica e riformatrice della Dc, e un po’ perchè era l’avversario più esplicito del Psi di Craxi e della sua corruzione genetica. E anche perchè forse ciò che accomuna il maestro e l’allievo fuggitivo è che è bello essere per, ma è più divertente, nei giornali, essere contro.

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